Il Paese a trent’anni dal genocidio. Intervista a don Oscar Kagimbura, segretario generale di Caritas Ruanda

Trent’anni fa, il 16 luglio 1994 viene dichiarata ufficialmente la fine della guerra in Ruanda e di uno dei genocidi che hanno caratterizzato il XX secolo. Forse il più cruento in rapporto al tempo e alla popolazione. In tre mesi morirono tra gli 800 mila e 1,2 milioni di persone su una popolazione di circa 7 milioni per la gran parte uccisi a colpi di machete o mazze chiodate.

La stragrande maggioranza delle vittime erano appartenenti all’etnia Tutsi, ma furono colpite anche non poche persone Hutu o di altri gruppi etnici, perché ritenute troppo moderate verso i Tutsi. Ma la storia del Ruanda prima, durante e dopo il genocidio dimostra più che mai come la guerra e la pace non siano frutto di eventi fortuiti o di fattori connaturati nei caratteri di popoli più o meno inclini alla violenza, ma piuttosto conseguenza di scelte politiche precise.

La mattanza, preparata da tempo, iniziò il 6 aprile 1994 con l’abbattimento dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana di rientro dalla Tanzania dove si era recato per discutere un accordo di pace per la fine della guerra civile tra i ribelli del Fronte patriottico ruandese (Fpr) di etnia Tutsi e il governo del Ruanda a maggioranza Hutu. I responsabili di quell’attentato sono ancora ignoti. Il conflitto violento tra i due gruppi etnici era iniziato in modo cruento dopo l’indipendenza a causa della politica coloniale belga che aveva esacerbato e formalizzato la divisione etnica tra Hutu (la maggioranza), Tutsi e Batwa per i loro interessi di controllo del potere.

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Don Oscar Kagimbura, segretario generale di Caritas Ruanda. Foto: Italia Caritas

Dopo l’indipendenza iniziò un periodo di discriminazione da parte degli Hutu verso i Tutsi e la reazione dei Tutsi con il Fronte Patriottico Ruandese conflitto che non risparmiò violenze efferate da ambo le parti e diversi eccidi di massa. Il genocidio iniziato il 6 aprile era stato ben preparato nei mesi precedenti con la creazione di gruppi paramilitari, l’acquisto su larga scala di machete da distribuire al momento opportuno, la fomentazione dell’odio etnico tramite una potente propaganda comunicativa. Da questo punto di vista ebbe un ruolo fondamentale la “Radio des Milles Collines” chiamata anche Radio machete.

Ma la storia del Ruanda prima, durante e dopo il genocidio dimostra più che mai come la guerra e la pace non siano frutto di eventi fortuiti o di fattori connaturati nei caratteri di popoli più o meno inclini alla violenza, ma piuttosto conseguenza di scelte politiche precise.

La notizia dell’assassinio del presidente Hutu attivò la macchina di morte: entrarono in azione i gruppi paramilitari che insieme alla forze armate regolari iniziarono le uccisioni indiscriminate di tutti coloro che nella carta di identità erano registrati di etnia Tutsi (I belgi avevano introdotto l’indicazione dell’etnia nei documenti di identità). La radio inizio una feroce campagna di incitamento all’uccisione dei Tutsi e degli Hutu che si rifiutavano di brandire il machete.

Anche la Chiesa cattolica locale venne travolta dall’odio etnico in un paese per la gran parte cristiano. Molti cattolici Hutu inclusi membri del clero si macchiarono di violenze o di complicità, altri ne furono vittime. La comunità internazionale restò a guardare. Le forze francesi presenti nel Paese non ostacolarono i massacri. L’Europa che tanta responsabilità aveva avuto nella dinamica di odio che avevano condotto sino a quel momento, si voltò dall’altra parte. Solo nel 2021 Emmanuel Macron chiederà perdono per le responsabilità francesi. Il 16 luglio la carneficina si fermò in Ruanda con la cacciata del governo Hutu e con lui di centinaia di migliaia di profughi e la presa del potere del FPR di Paul Kagame ancora saldamente al comando della nazione ruandese dopo trent’anni. Purtroppo però le violenze non terminarono nei paesi vicini, nello Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo) in particolare dove si rifugiarono la gran parte degli Hutu in fuga innescando di fatto i conflitti che si susseguirono e una instabilità nella regione dei Grandi Laghi che ancora perdura.

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 Il Genocidio in Ruanda è uno degli eventi più tragici della storia del XX secolo, non solo dell'Africa.

La comunità internazionale restò a guardare. Le forze francesi presenti nel Paese non ostacolarono i massacri. L’Europa che tanta responsabilità aveva avuto nella dinamica di odio che avevano condotto sino a quel momento, si voltò dall’altra parte

A trent’anni dalla fine del genocidio perpetrato contro la popolazione Tutsi in Ruanda, cosa resta nella memoria della gente di quanto accadde allora e cosa ne pensano i giovani di oggi?

Dopo il genocidio del 1994, che costò al Ruanda più di un milione di persone, il Paese si è trovato in una situazione disperata, con enormi perdite di vite umane e danni economici e materiali enormi, dovendo ricostruire tutto da zero. Il Paese ha investito molti nella ripresa economica, nella ricostruzione delle infrastrutture e, soprattutto, nella riconciliazione nazionale e nel rimpatrio dei rifugiati.

La Chiesa cattolica ha sostenuto gli sforzi del governo per la riconciliazione, dove le persone sono state mobilitate per superare la barriera dell’odio e chiedere e concedere il perdono, un processo difficile ma riuscito che ha gradualmente ristabilito la fiducia, la reciprocità e la condivisione della vita quotidiana tra le famiglie delle vittime e quelle degli autori del genocidio. I giovani – vittime e non – pur non avendo vissuto il genocidio ma soffrendone le conseguenze, in particolare il trauma, hanno avuto l’opportunità (sessioni educative tramite il programma Itorero di cui parlerò dopo e conferenze durante la commemorazione del genocidio) di conoscere ciò che è accaduto e hanno preso l’iniziativa per un futuro migliore. Il governo ruandese e altri attori, tra cui la Chiesa cattolica, in tutti i campi stanno incoraggiando i giovani a essere più resilienti e a partecipare attivamente e positivamente alla ripresa della sfortunata situazione che il Paese ha vissuto.

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 Una cruda immagine del Museo del Genocidio, in Ruanda.

La Chiesa cattolica ha sostenuto gli sforzi del governo per la riconciliazione, dove le persone sono state mobilitate per superare la barriera dell’odio e chiedere e concedere il perdono

Dopo la fine del genocidio vi è stato un percorso di pacificazione, quali sono stati gli elementi essenziali e quali risultati ha portato, quali ancora le sfide?

Attraverso il programma Itorero, un modello di educazione alla cittadinanza, all’unità e alla riconciliazione che affonda le radici al sistema educativo pre-coloniale, il governo ha aiutato i giovani a superare le loro prove e a diventare adulti responsabili. I tribunali Gacaca (istituzionalizzazione dei tribunali di comunità tradizionali) hanno permesso di accelerare i processi, non solo dando accesso alla giustizia ai presunti innocenti, ma anche punendo i colpevoli, un modo per alleviare le conseguenze del genocidio per le vittime. Sono stati inoltre istituiti programmi e fondi per aiutare i sopravvissuti al genocidio e le famiglie più vulnerabili, con l’obiettivo di ricostruire le famiglie più indigenti e ricomporre il tessuto sociale. La sfida a lungo termine è quella di guarire dal trauma delle atrocità, un processo che dovrà continuare a lungo.

Qual è la situazione del paese oggi da un punto di vista sociale? Quali i progressi compiuti e quali i problemi più importanti?

I ruandesi vivono in armonia come mai prima d’ora. Gli sforzi di pace e riconciliazione proseguono. I matrimoni tra persone di differenti gruppi sono ripresi e la sfiducia tra le vittime, gli autori del genocidio e i loro figli è diminuita in modo significativo (ripresa delle attività di aiuto reciproco tra famiglie, ecc.). Lo sviluppo del Paese e della sua popolazione è una priorità per tutti. Rimane il problema dei casi isolati di coloro che vogliono continuare ad attaccare le vittime, soprattutto durante il periodo di commemorazione del genocidio, ma anche se non sono molti, dobbiamo continuare a mobilitarci ed educare.

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Le cicatrici del genocidio in Ruanda. Fotografia di James Nachtwey, Ruanda, giugno 1994.

Secondo lei qual è l’insegnamento che oggi il mondo dovrebbe trarre dalla storia del Ruanda?

Ci sono molte lezioni da imparare dalla storia del genocidio in Ruanda, non ultima la volontà delle autorità di promuovere l’unità e la riconciliazione. Tutte le grida di sofferenza, da qualsiasi parte provengano, meritano un’attenzione particolare e le azioni necessarie per preservare le vite umane in pericolo finché si è ancora in tempo. Le persone devono essere al centro di qualsiasi azione che riguardi la loro vita, e il caso della partecipazione delle vittime, degli accusati e della popolazione in generale è una buona lezione da imparare altrove. Gli attori internazionali devono impegnarsi a fondo per sostenere gli sforzi dei rispettivi governi nella partecipazione delle persone e nel loro sviluppo.

* Fabrizio Cavalletti, Italia Caritas. Originalmente pubblicato in: www.italiacaritas.it

Il 6 aprile 1994 iniziava la mattanza nel paese africano che causò la morte di un milione di persone.

“Ci sarà mai una cifra esatta sugli eccidi, sui feriti, sui profughi, sugli orfani che il dramma del Ruanda ha lasciato sul terreno dell’Africa? Le dimensioni sono quelle di una grande tragedia, ma incalcolabile non è soltanto il numero delle vittime. È inquietante chiedersi fin dove e, soprattutto, fino a quando questi semi di violenza continueranno ad avvelenare i percorsi di una necessaria riconciliazione”. Gli angosciosi interrogativi li poneva il Cardinale Jozef Tomko, Prefetto dell’allora Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, in un intervento pubblicato dall’Agenzia Fides e dall’Osservatore Romano nel giugno 1995, nel primo anniversario dell’assassinio dell’Arcivescovo di Kigali, Vincent Nsengiyumva, e dei Vescovi di Kabgayi, Thaddee Nsengiyumva, e di Byumba, Joseph Ruzindana, uccisi il 5 giugno 1994 insieme a dieci sacerdoti che li accompagnavano nella visita alle popolazioni sconvolte dalla violenza omicida. I loro nomi si aggiungevano ad un lungo elenco di sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi, novizie, operatori pastorali uccisi nel Paese africano.

Dal 6 aprile 1994, quando venne abbattuto l’aereo su cui viaggiavano i Presidenti del Ruanda e del Burundi, colpito da un missile nei cieli della capitale ruandese Kigali, al 16 luglio 1994, secondo la connotazione cronologica accettata, si compie in Ruanda il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati. Il movente fondamentale fu l’odio razziale verso la minoranza tutsi, che costituiva l’élite sociale e culturale del Paese. Le cifre ufficiali diffuse all’epoca dal governo ruandese parlano di 1.174.000 persone che persero la vita in 100 giorni, uccise con machete, asce, lance, mazze. Altre fonti citano un milione di morti. Lo sterminio terminò, almeno ufficialmente, nel luglio 1994 con la vittoria militare del Fronte patriottico ruandese, sulle forze governative, espressione della diaspora tutsi. Lo strascico di violenze e vendette razziali proseguì comunque ancora a lungo.

Il Cardinale Tomko, nel suo intervento l’anno seguente alla tragedia, citava “oltre due milioni di persone, vale a dire quasi un terzo della popolazione, attualmente al di là dei confini del Paese. I profughi ammassati nei campi - in particolare nello Zaire (attuale Repubblica democratica del Congo) - sono l’immagine di un doppio dramma: quello dei diritti e della dignità negata, e quello di una nazione mutilata”. Il Prefetto del Dicastero Missionario indicava quindi la riconciliazione come “la sola possibilità di salvezza, il nome della speranza a cui tutto il popolo ha diritto. E in una prospettiva di questa natura, emerge in pieno il vastissimo ruolo che spetta alla Chiesa”.

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La chiesa della Santa Famiglia a Kigali, in cui furono perpetrati massacri nella guerra civile del 1994. Foto: Adam Jones

“Un contributo peculiare in tale direzione proviene dall’operato dei missionari, considerati tra i pochi soggetti al di sopra delle parti nella tragedia che insanguina il Paese, in grado di portare avanti senza cedimenti il processo di pacificazione” evidenziava ancora il Cardinale Tomko. A pochi mesi dall’eccidio, più di sessanta si erano reinsediati nei precedenti luoghi di apostolato, “in mezzo alle popolazioni stremate dalla fame, dalle ferite e dalle malattie”, oltre ad essere impegnati nello stabilire collegamenti tra i profughi nei Paesi vicini e le autorità ruandesi per garantire loro il rientro in patria in condizioni di sicurezza e dignità.

Nella rete di riconciliazione tessuta dalla Chiesa, un secondo apporto fondamentale è stato fornito dai Seminari, la cui vita in Ruanda è particolarmente fiorente. Intorno alla Chiesa locale poi, “si mobilitano in molti per alleggerire il peso che essa deve portare. La solidarietà e l’aiuto spirituale, morale e non solo manifestatole, sono un segno eccellente di quell’universalità di cui parlano già gli Atti degli Apostoli”.

Nel primo anniversario “dell’orribile tragedia ruandese”, i membri della Conferenza episcopale del Ruanda pubblicarono “un messaggio di partecipazione e di conforto” all’intero popolo ruandese, che porta la data del 30 marzo 1995. “La Chiesa cattolica del Ruanda, così come tutto il Paese, è stata provata per la perdita di un gran numero dei suoi figli. Essa condivide il dolore di quanti si sono confrontati con ogni tipo di sventura: genitori a cui sono stati strappati i figli per essere uccisi, orfani, vedove, feriti, handicappati, sfollati, rifugiati nei campi, traumatizzati; in una parola tutti quelli che si sono trovati davanti l’orrore in tutte le sue forme. La Chiesa condivide la sofferenza di tutti costoro: fa sue le loro lacrime, il loro dolore, i loro lamenti e le loro suppliche, nella misura delle sue possibilità li accompagna nelle loro diverse situazioni”.

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Foto di alcune delle vittime del genocidio conservate nel museo della memoria a Kigali. Il museo è stato aperto nel 2004 in occasione del decimo anniversario dall’inizio del genocidio.  Foto: Corbis via Getty Images.

I Vescovi ruandesi, un anno dopo i massacri, auspicavano una degna sepoltura di tutte le vittime della guerra, dichiarandosi favorevoli “all’erezione di segni memoriali in ricordo dei defunti”. Come sempre “la Chiesa continua a pregare per i defunti” assicuravano, invitando tutti “a mobilitarsi per inumare degnamente i resti delle vittime che si trovano ancora sulle colline... Chiediamo insistentemente che le cerimonie di inumazione dei resti delle vittime della tragedia ruandese siano esenti da tutti quei gesti e da quelle parole che hanno provocato e aggravato il conflitto”.

Nella conclusione del messaggio, i Vescovi ribadivano “la condanna e la disapprovazione per i massacri ed il genocidio che ha segnato l’anno trascorso”, quindi esortavano “tutti coloro che amano la pace, ad ostacolare e combattere ogni progetto che possa portare al ripetersi di una tale tragedia. Questa è una legge assoluta di Dio: tutti vogliono che la loro vita sia rispettata, ognuno dunque rispetti la vita degli altri e agisca di conseguenza”.

La Via Crucis del popolo ruandese vissuta nel cuore della Chiesa

La tragedia vissuta dal popolo ruandese ha coinciso con un avvenimento storico per la Chiesa del Continente, che avrebbe dovuto riempirla di gioia e speranza: la Prima Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, sul tema “La Chiesa in Africa e la sua missione evangelizzatrice verso l'anno 2000: 'Sarete miei testimoni' (At 1,8)”. Indetta da Papa Giovanni Paolo II già nel 1989, venne celebrata in Vaticano dal 10 aprile all’8 maggio 1994, nel quadro dei Sinodi continentali sul tema dell’evangelizzazione in preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000. L’eco dei tragici eventi che insanguinavano il Ruanda risuonò e si amplificò in modo particolare nel cuore della Cristianità, dove i rappresentanti dei Vescovi di tutto il continente africano erano riuniti attorno al Successore di Pietro, che non si stancava di invocare riconciliazione e pace.

Il 9 aprile 1994, in un primo messaggio indirizzato alla comunità cattolica del Ruanda, Papa Giovanni Paolo II supplicò “di non cedere a sentimenti di odio e di vendetta, ma a praticare coraggiosamente il dialogo e il perdono”. “In questa tragica tappa della vita della vostra nazione - scrisse il Papa - siate tutti artefici di amore e di pace”.

Nella solenne cornice della Messa di apertura dell’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa, celebrata in San Pietro domenica 10 aprile 1994, cui ovviamente non parteciparono i Vescovi del Ruanda, il Papa espresse profonda preoccupazione per il Paese africano, “tormentato da annose tensioni e da sanguinose lotte”. Durante l’omelia ricordò in particolare “il popolo e la Chiesa ruandesi, provati in questi giorni da una impressionante tragedia, legata anche alla drammatica uccisione dei Presidenti del Ruanda e del Burundi. Con voi, Vescovi, condivido la sofferenza di fronte a questa nuova catastrofica ondata di violenza e di morte che, investendo questo diletto Paese, ha fatto scorrere in proporzioni impressionanti, anche il sangue di sacerdoti, religiose e catechisti, vittime di un odio assurdo”. Facendosi portavoce dei 315 partecipanti al Sinodo, e “in spirituale comunione con i Vescovi del Ruanda che non hanno potuto essere oggi qui con noi”, il Pontefice lanciò un appello per fermare i violenti. “Con voi elevo la mia voce per dire a tutti: Basta con queste violenze! Basta con queste tragedie! Basta con queste stragi fratricide!”

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Fronte comune delle associazioni per il ricordo del genocidio tutsi in Ruanda. Foto: Licra memoire

Anche dopo la recita del Regina Coeli di quella stessa domenica, Papa Giovanni Paolo II richiamò l’attenzione sul paese africano: “Le tragiche notizie che giungono dal Ruanda suscitano nell’animo di tutti noi una grande sofferenza. Un nuovo, indicibile dramma, l’assassinio dei Capi di stato di Ruanda e Burundi e del seguito; il Capo del governo ruandese e la sua famiglia trucidati; sacerdoti, religiosi e religiose uccisi. Ovunque odio, vendette, sangue fraterno versato. In nome di Cristo, vi supplico, deponete le armi! Non rendete vano il prezzo della Redenzione, aprite il cuore all’imperativo di pace del Risorto! Rivolgo il mio appello a tutti i responsabili, anche della comunità internazionale, perché non desistano dal cercare ogni via che possa essere argine a tanta distruzione e morte”.

I lavori del Sinodo per l’Africa, il primo nella storia della Chiesa, furono inevitabilmente contrassegnati, oltre che dallo studio e dal dibattito indicati dall’Instrumentum laboris, anche dalle tragiche notizie che via via giungevano dal Ruanda. Il 14 aprile il Santo Padre celebrò la Santa Messa “per il popolo rwandese” e i membri del Sinodo lanciarono un “appello pressante” per la riconciliazione e per i negoziati di pace. Nel messaggio, firmato a nome di tutti dai tre Presidenti delegati del Sinodo (i Cardinali Francis Arinze, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso; Christian Wiyghan Tumi, Arcivescovo di Garoua, Camerun, e Paulos Tzadua, Arcivescovo di Addis Abeba, Etiopia), i padri Sinodali si dissero “profondamente rattristati per i tragici avvenimenti” e si rivolsero “a tutti coloro che sono coinvolti in questo conflitto, perché facciano tacere le armi e pongano fine alle atrocità ed alle uccisioni”.

Ai ruandesi chiesero di “camminare insieme e di risolvere i loro problemi con la discussione”, ai singoli individui ed alle organizzazioni presenti in Africa o fuori dall’Africa, di “usare la loro influenza per portare il perdono, la riconciliazione e la pace in tutto il Ruanda”.

Fonte: Agenzia Fides

Come fa l’Unione Europea a firmare un accordo sulla sostenibilità e la tracciabilità di minerali strategici con un Paese che non li produce ma li ottiene illegalmente da uno Stato vicino? È quanto chiedono "Insieme Pace per il Congo", e altri 7 enti, tra i quali la "Rete Pace per il Congo" (promossa da missionari che operano nella Repubblica Democratica del Congo) che in un comunicato inviato all’Agenzia Fides chiedono di annullare il protocollo d’accordo firmato il 19 febbraio tra l’UE e il Ruanda. Tale accordo era già stato criticato dal Cardinale Fridolin Ambongo Besungu, Arcivescovo metropolita di Kinshasa.

Leggi anche: Roma: Marcia per la Pace nella RD del Congo, domenica 10 marzo

Secondo l’UE il Ruanda “è un attore maggiore a livello mondiale nel settore dell’estrazione del tantalio. Produce anche stagno, tungsteno, oro e niobio e dispone di riserve di litio e di terre rare”. Un linguaggio sottolinea il comunicato inviato a Fides che “vuole esprimere un forte intento di rispetto della legalità, secondo le norme di tracciabilità che l’Europa stessa si è data nel 2021”.

“Peccato però – continua il comunicato - che l’UE investa in questo senso in un Paese che non dispone di quantità significative di questi minerali, un Paese che ne è diventato grande esportatore solo grazie alle guerre che esso ha acceso a ripetizione nella Repubblica Democratica del Congo a partire dal 1996, sempre attraverso interposti movimenti di copertura, che in questi anni prendono il nome di M23”.

Dall’est del Congo, col favore di responsabili corrotti a vari livelli, escono a fiotti da anni verso il Ruanda e altri Paesi confinanti ad est i minerali preziosi oro, coltan, terre rare…. Complicità alle frontiere, astuzie di vario genere ma ora essi passano apertamente, grazie ai territori che l’M23-Ruanda ha occupato oltre frontiera. Questo a prezzo di morti, di violenze di ogni genere, di rapine di beni di una popolazione la cui colpa è solo quella di vivere in un territorio ambito e di oltre un milione di sfollati – solo all’Est - che sopravvivono miseramente e muoiono in tuguri di fortuna, in piena stagione delle piogge” si sottolinea nel documento.

“Se l’obiettivo dell’accordo del 19 febbraio scorso, come dichiarato dal Parlamento Europeo in risposta alle tante critiche emerse, è «accrescere la tracciabilità e la trasparenza e rafforzare la lotta contro il traffico illegale di minerali», non era forse più opportuno sanzionare il Ruanda anziché stipulare con esso accordi proprio sui frutti della rapina in atto?” chiede “Insieme per la Pace nel Congo.

“Facendoci eco a tante voci che si sono levate contro l’accordo in questione, sia da parte delle autorità, di cittadini congolesi, di Paesi europei come il Belgio e di eurodeputati, anche noi come Comitato «Insieme per la Pace in Congo» esprimiamo la forte richiesta all’Unione Europea di annullare tale accordo, per contribuire all’avvento della pace nella regione. Riteniamo che solo un atteggiamento giusto e imparziale può favorire la coabitazione pacifica nella regione africana del Grandi Laghi”. (L.M.)
Fonte: Agenzia Fides

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