«Esiste una specificità del primo annuncio del Vangelo. E quando si riflette sulla missione della Chiesa, io vorrei spezzare una lancia a favore di questa specificità», che «non va evaporata in un discorso troppo generico sulla missione».
Inizia Ottobre, il mese che la Chiesa dedica, oltre che al Rosario, anche alla missione. E il Cardinale Giorgio Marengo, missionario della Consolata, Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia, approfitta dell’occasione per condividere in una conversazione con l’Agenzia Fides spunti luminosi e carichi di passione apostolica per l’opera missionaria.
Anche quest’anno, come accade spesso, l’”Ottobre missionario” si intreccia coi lavori a Roma della Assemblea del Sinodo dei Vescovi, a cui prende parte anche il Cardinale Marengo. E anche quell’assise è chiamata a fare i conti con l’orizzonte missionario di ogni autentica opera ecclesiale, come traspare fin dal titolo (“Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”).
Card. Giorgio Marengo: La riscoperta della chiamata a essere tutti missionari, iscritta nel battesimo, è stata per molti versi provvidenziale. Ma adesso sembra essersi un po' persa di vista la specificità della vocazione missionaria detta "ad gentes".
È come se, nell'era della globalizzazione e della apparente riduzione delle distanze geografiche, non ci fosse più posto per questo orizzonte dell’opera missionaria. che comporta l'uscita e l'inserimento in contesti umani diversi dal proprio.
La missione a Arvaiheer in Mongolia. Foto: Archivio IMC
Invece, io credo, proprio nel nostro tempo conviene riconoscere che esiste una specificità delle primo annuncio del Vangelo, del Vangelo annunciato a chi non sa proprio cosa sia. Conviene che questa specificità non sia diluita, non venga evaporata in un discorso troppo generico sulla missione. In questo tempo, proprio percepire e tener conto sempre di questa specificità mi sembra vitale per tutta l’opera della Chiesa nel mondo, e per il suo cammino nella storia.
Se appartenere alla Chiesa vuol dire camminare insieme con Gesù e dietro Gesù, la missione può essere descritta e formulata come il “rendere possibile l'incontro con Cristo”.
Questo incontro può sempre avvenire in modi a noi sconosciuti. Ma normalmente l’impatto con una realtà umana rimane necessario. Una realtà umana che faciliti e renda possibile l’incontro con Cristo. Perché sempre questa esperienza si trasmette per attrazione e contatto. E questo dinamismo si manifesta e si percepisce con evidenza soprattutto laddove le possibilità reali di entrare in qualche modo in contatto con la persona di Cristo sono oggettivamente poche. Ad esempio, nei luoghi in cui la Chiesa non c’è o è in uno stato di Chiesa nascente, come nel caso della Mongolia.
Forse non ci sarà più bisogno di grandi numeri come è stato un tempo, e non ci deve scandalizzare che gli Istituti missionari diminuiscano numericamente. Ma pur con minore impatto, resta comunque viva la perenne necessità di annuncio del Vangelo che ha suscitato la nascita di quegli Istituti.
Più che scivolare sull’insidioso terreno delle formule e delle definizioni socio-politiche, quelle che ad esempio fanno riferimento al “nord” e al “sud” del mondo, conviene rimanere ai criteri squisitamente ecclesiali. Questa specificità ha a che vedere con l’esposizione reale all’annuncio del Vangelo. Si tratta di vedere se nei diversi contesti sociali c’è la possibilità di una reale esposizione al Vangelo, perché in quel dato contesto il Vangelo è in qualche modo effettivamente annunciato, o se questo non accade. Tenendo sempre conto di tutte le situazioni particolari e delle loro diversità.
Un conto e vivere in luoghi in cui la Chiesa è istituita con tutti carismi e i ministeri, e un conto è avere una Chiesa con un solo sacerdote autoctono, come accade da noi in Mongolia. Un conto è trovarsi in società estremamente critiche del cristianesimo, per il peso della storia. E un contro è interagire con società che non sono di per se contrarie e ipercritiche verso la Chiesa, perché le loro storie non si sono mai intrecciate.
Nei diversi contesti e situazioni, la missione del primo annuncio è quella che comunque fa sperimentare la novità della fede cristiana. Sia quando ciò avviene in contesti che non si sono storicamente confrontati con essa, sia quando essa viene riscoperta come novità in luoghi dove ha plasmato generazioni precedenti, ma ora è in qualche modo evaporata dall'orizzonte comune.
Dio nostro Padre non ha inviato un messaggio, ma si è fatto carne inviando il suo unico Figlio. Dio si è abbassato fino a abbracciare la condizione umana. E per analogia, anche la missione, da allora, è chiamata a sottomettersi alle leggi del tempo e dello spazio, avendo come modello Gesù.
Se il messaggio di Cristo fosse un mero messaggio, un insegnamento di vita, non ci sarebbe stato bisogno di chiedere a uomini e donne di andare in capo al mondo, come fa Gesù stesso nel Vangelo.
esù è entrato a far parte di un popolo e di una cultura definita. Trent'anni di vita nascosta, tre anni di attività esplicita e tre giorni di passione, che portano alla resurrezione. Tutti quelli che lo seguono sono chiamati a lasciarsi plasmare dallo Spirito Santo per vivere lo stesso mistero. Questa è la missione.
Pensiamo al tempo speso per imparare lingue difficili e lontane, per calarsi profondamente e in maniera rispettosa nelle culture delle persone con cui si convive. Tutto presuppone comprensione, vicinanza amichevole per far crescere un rapporto di fiducia. Gran parte della fatica missionaria è volta proprio a immedesimarsi nel contesto e creare queste condizioni di fiducia reciproca, per poi condividere con altri il nostro tesoro, quello che abbiamo di più caro.
Forse qualcuno oggi può pensare che è più efficace investire in comunicazione per ottenere impatti misurabili sull’opinione pubblica. Ma il Vangelo non si comunica come un’idea o come una delle opzioni di un menù. Questo è marketing. A volte abbiamo la tendenza a fare teorie sulla missione, o a organizzare strategie con azioni sociali o umanitarie che presentiamo come cose utili a quello che chiamiamo “annuncio”. Fino all’illusione di una Chiesa che si costruisce “a progetto”.
La visita del Papa Francesco in Mongolia nel settembre 2023. Foto: Vatican Media
Mi stupisce il crescente interesse di scrittori, giornalisti e studiosi della Chiesa per la nostra piccola Chiesa in Mongolia, nella quale vedono una esperienza di missione simile a quella degli Atti degli Apostoli. Gli Apostoli testimoniavano il Signore Gesù in condizioni di assoluta minoranza rispetto ai contesti sociali e culturali in cui si muovevano. La loro opera aveva connotati di marginalità e di novità. Anche in Mongolia riaccade l’esperienza del primo contatto con il Vangelo da parte di persone e realtà sociali che fino a quel momento non si erano mai confrontate con esso. Chi si interessa alla nostra Chiesa a volte mi dice che dalla frequentazione con la nostra povera e piccola esperienza possono venire vantaggi e ispirazioni anche per le situazioni che si vivono in società post cristiane, dove un comune riferimento anche vago al cristianesimo non può più essere dato per scontato, come era in passato.
A rendere possibile l’incontro con Cristo è sempre il suo Spirito Santo, e non le nostre metodologie o precauzioni. Ma forse il suo lavoro troverà meno ostacoli se coloro che vogliono servire il Vangelo si fanno prossimi ai loro fratelli e sorelle per quello che sono, annunciando la resurrezione di Cristo con discrezione. Il lazzarista padre Giuseppe Gabet nel 1840, dopo il suo primo viaggio nella Mongolia esterna, scriveva a Propaganda Fide: «La prima apparizione degli europei tra i mongoli e i tibetani è un'impresa molto delicata, e il successo della predicazione tra questi popoli dipenderà a lungo dal grado di discrezione dimostrato».
Papa Francesco durante la messa nello Stadio di Singapore ha ricordato una lettera di San Francesco Saverio ai suoi primi compagni gesuiti, in cui il grande missionario parlava della sua voglia di andare in tutte le università del suo tempo a “gridare qua e là come un pazzo” e scuotere gli intellettuali che si intrattenevano in discussioni senza fine, per spingerli a farsi missionari per servire la carità di Cristo. In questo tempo forse serve anche un approfondimento teologico sulla missione, servono percorsi accademici che aiutino a riconoscere e a riproporre la perenne urgenza dell’annuncio del Vangelo, soprattutto in situazioni di prima evangelizzazione. Chissà che per questa via proprio la Pontificia Università, con tutta la sua storia non possa rinnovare e realizzare oggi il sogno di San Francesco Saverio.
Originalmente Pubblicato in: www.fides.org
La canonizzazione di Giuseppe Allamano è una occasione per “approfondire il senso più profondo del nostro esse missionari della Consolata”
“Beato il popolo scelto dal Signore”. Partendo dal ritornello del Salmo 32 proposto dalla liturgia, all’omelia della Messa presso la Casa Generalizia a Roma, sabato 31 agosto, il cardinale Giorgio Marengo, IMC, ha riflettuto sul breve tempo che ci separa dalla canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, il prossimo20 ottobre 2024.
Il cardinale e Prefetto Apostolico di Ulaanbaatar (Mongolia) era a Roma per partecipare alla Plenaria del Dicastero per l'Evangelizzazione che includeva un'udienza con Papa Francesco.
Possiamo dire: “Beato sono io, beati siamo noi, per essere figli di San Giuseppe Allamano”, ha sottolineato il cardinale nella sua omelia. Poi, riflettendo sulla parabola dei talenti nel Vangelo di Matteo (Mt 25,14-30) ha posto alcune domande: “Se l’Allamano fosse qui con noi oggi, cosa direbbe? Come lui vedrebbe i nostri istituti? Ci considererebbe tra quelli che hanno fatto fruttare questa grazia che lui in qualche modo ha vissuto nella Chiesa, questa grazia di essere missionario della Consolata? L’abbiamo fatta fruttificare oppure l’abbiamo nascosta? Abbiamo fatto un buco e l’abbiamo sepolta lì? Questo interrogativo ci può accompagnare in questo periodo di preparazione”.
Sempre a proposito della canonizzazione dell'Allamano, Mons. Marengo ha invitato ad “entrare nel senso più profondo, più autentico di questo evento per potere anche noi come ci ha invitato San Paulo (prima lettura 1Cor 1,26-31), vantarci nel Signore. Questo sacro vanto – ha spiegato il cardinale - che non ha niente a che vedere con qualcosa di umano o di mondano, ma è Dio che sceglie il nulla, che siamo noi, per fare compere il suo disegno di salvezza”.
“Allora, possiamo continuare questa Eucaristia con questo senso di grande e profonda gratitudine e anche con un desiderio, in queste poche settimane che ci separano della canonizzazione, di approfondire il senso più profondo del nostro essere missionari della Consolata come voleva il Fondatore. Amare come amava lui, usare dei beni materiali come ha usato lui. Riscoprire la bellezza della nostra vocazione per farla fruttificare. È questo quello che vogliamo chiedere in questa Eucaristia. Affidiamo questo nostro desiderio alla Vergine Consolata”, ha concluso il cardinale.
Mons. Giorgio Marengo, il primo porporato dei Missionari della Consolata, nato il 7 giugno 1974 a Cuneo (Italia), è il più giovane cardinale del Collegio. Dal 1993 al 1995 ha studiato Filosofia presso la Facoltà teologica dell'Italia Settentrionale e dal 1995 al 1998 Teologia nella Pontificia Università Gregoriana (Roma). Nel 2006 ha conseguito la Licenza e il Dottorato in Missionologia. Ordinato sacerdote il 26 maggio 2001 a Torino, dal 2003 in Mongolia. Il 2 aprile del 2020 viene nominato Prefetto Apostolico di Ulaanbaatar e l’8 agosto dello stesso anno ha ricevuto la consacrazione episcopale. Nel Concistoro del 27 agosto 2022 il Papa Francesco lo ha nominato cardinale, all’età di 48 anni.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Segretariato per la Comunicazione.
Il porporato, della congregazione dei Missionari della Consolata, ragiona sugli aspetti positivi e di gratitudine suscitati dall’esperienza missionaria. «Si vede all’opera lo Spirito Santo»
«Una delle parole chiave del cristianesimo, forse la prima, è “grazia”, il ricevere, in Cristo, qualcosa di non dovuto, addirittura la vita divina, la comunione con Dio. Per questo la nostra esistenza diventa graziosa e si accompagna al rendimento di grazie, movimento del cuore che riconosce la grazia originaria, che ci precede». Inizia con queste parole la riflessione sulla gratitudine del cardinale Giorgio Marengo, missionario della Consolata, residente dal 2003 in Mongolia dove per 14 anni è stato parroco nel villaggio di Arvaiheer.
Attraverso l’accompagnamento di uomini, donne, bambini che si volgono al Signore provenendo da esperienze molto lontane dal cristianesimo, si ha la grande grazia di vedere lo Spirito Santo all’opera nella vita delle singole persone e di interi gruppi umani. La considero un’esperienza bellissima, impagabile, che per me è motivo di gratitudine profonda. Il fondatore dei missionari della Consolata, il Beato (presto santo) Giuseppe Allamano, riteneva che la missione ad gentes fosse qualcosa di “eminentissimo”: usava il superlativo proprio per indicare il grado di intensità con cui si coglie lo Spirito all’opera e si assiste allo sbocciare della fede nel cuore delle persone. Vi è anche un secondo speciale motivo per cui essere sommamente riconoscenti: la vita missionaria allarga gli orizzonti del cuore e della mente. Ci si immerge in culture, tradizioni, usi, costumi diversi e ciò costituisce un enorme arricchimento sul piano umano.
Chiesa rotonda a forma di ger a Arvaikheer in Mongolia. Foto: Archivio IMC
Sì: quando le persone incontrano Gesù e cominciano a seguirLo, rileggono tutta la loro vita alla luce del Vangelo e si rendono conto di come il Signore le ha aspettate, come ha preparato le condizioni affinché venissero a Lui, come riscrive il loro sguardo sul futuro. Diventano persone estremamente luminose e infinitamente grate. Ricordo una signora di Arvaiheer, una delle prime a ricevere il battesimo: aveva abbracciato la fede con grande entusiasmo e riconosceva – con immensa gratitudine – come, grazie alla fede, tutto per lei fosse cambiato, come, ad esempio, non temesse più come prima la morte perché ora sapeva Chi e cosa l’attendeva. La riconoscenza spontanea e gioiosa di chi inizia la propria storia con Gesù ci può insegnare a rammentare la reale grandezza del dono della fede.
Penso di sì. Quando si vive con intensità il momento presente riconoscendo in esso il dono della fede e la presenza del Signore, è possibile superare il senso di sconforto e di smarrimento che può nascere per il fatto di essere pochi. Bisogna però riscoprire la profondità, la bellezza, la forza del dono della fede, e la felicità e la gratitudine per averlo ricevuto: così sapremo poi trovare le forme più adatte per adeguarci a una diversa condizione storica. Penso inoltre che sarebbe opportuno ricordare un fatto: quanti patiscono per essere diventati una minoranza rimpiangono un passato di grandi numeri che è stato un fenomeno circoscritto, in Italia, a un periodo determinato, caratterizzato dall’abbondanza di vocazioni sacerdotali, dalla nascita di numerose diocesi e di strutture assistenziali e sociali. Ma nei suoi duemila anni di storia, la Chiesa – nel mondo – è sempre stata realtà piccola, è sempre stata lievito nella pasta. L’importante, appunto, è essere lievito, è la fedeltà al Vangelo.
Sì, la tentazione esiste, specie nel contesto occidentale, dominato dall’efficientismo, che inevitabilmente condiziona la mentalità di tutti. Sono convinto però che questa sia una tentazione radicale che può maturare in qualsiasi contesto sociale: c’è infatti sempre il rischio, nell’opera di evangelizzazione, di concentrarsi sui passi successivi da compiere perdendo così la capacità di apprezzare la pienezza e la ricchezza del momento presente e tutte le abbondanti grazie e consolazioni che il Signore dà ad ogni passo compiuto, anche quando esso è molto faticoso. Inoltre c’è sempre il rischio di trasformare la propria dedizione in un idolo e di credere dunque che tutto dipenda da noi. Per mettersi al riparo dal rischio di perdere la letizia della semina e la gratitudine per l’essere inviati penso sia necessario percorrere una strada: cercare e ritrovare la verità più profonda di noi stessi recuperando e riscoprendo il valore di esperienze come, ad esempio, quella della vera amicizia, della preghiera o di una vita semplice, anche un po’ spartana. Queste esperienze di base aiutano a cogliere la verità più profonda della nostra vita: tutto ciò che siamo lo abbiamo ricevuto, tutto è grazia, è dono.
Il card. Marengo presenta al Papa alcuni malati della Casa della Misericordia in Mongolia.18 settembre 2023. Foto: OSV
Sì. Come si legge in un salmo, noi non potremo mai ripagare il Signore per il dono della vita, non potremo mai onorare completamente quanto riceviamo da Lui, però la forma più adeguata per farlo è cercare di voler bene come, a nostra volta, siamo amati da Dio, quindi con gratuità, fedeltà, perseveranza. E con il per-dono, il super dono che fa realmente rinascere. In Mongolia quando le persone, con la fede, scoprono che la vita non è determinata da un fato immutabile, ma che esiste il perdono, che la vita può sempre ricominciare per la grazia di Dio, provano una grande felicità. Qui il sacramento della confessione è molto amato.
L’icona che mi viene in mente è quella del buon ladrone che sulla croce, con umiltà, dice a Gesù “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. E Gesù risponde: “oggi sarai con me nel paradiso”. Chi sente di non aver onorato come meritavano i doni ricevuti, forse anche di averli sprecati, ha sempre una duplice possibilità: fare questo umile movimento del cuore verso il Signore riconoscendo le proprie mancanze e credere che la Sua misericordia sia più grande degli sprechi fatti. Niente è perduto, finché abbiamo respiro possiamo volgerci al Signore: davanti a Lui un giorno sono come mille anni e mille anni come un giorno. La nostra umiltà e la nostra umiliazione sono la porta aperta al Suo agire, al lasciare che il Signore sia il Signore.
A tre categorie di persone: ai miei genitori, a mia sorella e ai miei familiari, che mi hanno fatto crescere e sostenuto; ai tanti sacerdoti esemplari che ho incontrato e a quanti – insegnanti ed educatori – mi hanno formato; e infine a tutti coloro che, nel corso della vita, mi hanno perdonato. Anche questi ultimi, dandomi una seconda possibilità, hanno avuto un ruolo determinante nella mia vita.
* Cristina Uguccioni, giornalista dell’Avvenire. Originalmente pubblicato in: www.avvenire.it. Mercoledì 24 luglio 2024
Questa riflessione è frutto dell’esperienza vissuta da padre Giorgio Marengo, Missionario della Consolata, con il popolo mongolo. Nato a Cuneo il 7 giugno 1974, cresciuto a Torino dove ha frequentato il liceo classico Cavour, al termine del quale ha intrapreso il percorso di formazione sacerdotale nell’Istituto dei Missionari della Consolata. Dal 1993 al 1995 ha studiato Filosofia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e dal 1996 al 1999 Teologia nella Pontificia Università Gregoriana (Roma). Ha poi compiuto ulteriori studi presso la Pontificia Università Urbaniana, conseguendo la Licenza (2002) e il Dottorato (2016) in Missiologia. Ha emesso la Professione Perpetua il 24 giugno 2000 come membro dell’Istituto ed è stato ordinato sacerdote il 26 maggio 2001. Dopo l’ordinazione sacerdotale dal 2003 ha svolto il suo ministero pastorale in Mongolia ad Arvaikheer dove è stato parroco di Maria Madre della Misericordia e dal 2016 Consigliere Regionale Asia per la Mongolia. Il 2 aprile 2020 papa Francesco lo nomina prefetto apostolico di Ulan Bator e vescovo titolare di Castra Severiana. L’8 agosto viene consacrato vescovo a Torino, nel Santuario della Consolata, dal cardinale Luis Antonio Tagle, Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, creato Cardinale il 27 agosto 2022.
Una bella esperienza di inculturazione del carisma nel nostro apostolato. Buona Lettura.
(Padre Piero Trabucco, IMC, Casa Natale dell'Allamano)
Sul numero di febbraio del mensile de L'Osservatore Romano, la testimonianza del cardinale Giorgio Marengo, IMC, prefetto apostolico di Ulaanbaator, di come le donne siano state, nella parrocchia di Arvaikheer, le prime ad essere state battezzate e di come, esattamente come al sepolcro, siano "arrivate per prime, portando con sé i mariti, i figli e i padri"
Il dono della missione è al cuore della Chiesa. Da quel mattino di pietra rotolata via dal sepolcro, passando per l’esperienza vibrante della Pentecoste, la comunità credente si è sentita guidata a condividere l’immensa gioia della risurrezione e ad offrire a persone di ogni cultura la possibilità concreta di sperimentare questa nuova realtà nella propria vita. Erano uomini e donne in quel primo nucleo di discepoli-missionari e sono ancora uomini e donne a continuare nell’oggi la stessa dinamica di annuncio e testimonianza. La vita missionaria può aiutare ad avere uno sguardo ampio e arricchente sul maschile e femminile nella Chiesa.
La mia esperienza al riguardo è molto positiva e ne ringrazio. Fin dall'infanzia, la compresenza del maschile e del femminile ha fatto parte della normalità della vita quotidiana, a cominciare dalla famiglia – nella quale con mia sorella c’è sempre stato un rapporto molto costruttivo e arricchente - poi nella scuola e attraverso lo scoutismo (ragazzi e ragazze), che ha segnato i miei anni più giovani. Dopo la maturità classica, sono entrato tra i Missionari della Consolata, Istituto fondato dal beato Giuseppe Allamano per formare religiosi e religiose per la missione ad gentes. Un unico fondatore diede vita a una congregazione dal volto maschile e femminile, impartendo gli stessi insegnamenti agli uni e alle altre, pensando precisamente a una famiglia, nel pieno rispetto della diversità, ma nella convinzione che per il raggiungimento del fine ultimo (la prima evangelizzazione) ci vogliano uomini e donne consacrati a Dio per questo scopo. Non solo gli uni o le altre, ma insieme.
Donne partecipano a una celebrazione presieduta dal cardinale Marengo. Sussurrare il Vangelo in Mongolia.
E che il beato Allamano avesse ragione l’ho toccato di persona dal primo giorno in cui ho messo piede in Mongolia; anzi, prima ancora, visto che ci fu una preparazione prossima alla partenza in cui ci venne data la possibilità di conoscerci tra noi e approfondire l’ispirazione originaria del nostro carisma. Nel primo gruppo della Consolata in Mongolia eravamo in cinque: tre suore, un altro sacerdote e io. Una missione come questa, caratterizzata da condizioni estreme - numero molto ridotto di cattolici rispetto all'intera popolazione (meno dell’1 per cento), clima che oscilla tra i -40 gradi in inverno e i +40 gradi in estate, una lingua difficile da imparare - richiede una certa abnegazione e molta sincerità con se stessi. I tratti del carattere, sia buoni che cattivi, appaiono sotto la luce trasparente del cielo della Mongolia, che si tratti di un uomo o di una donna. In questa esperienza di deserto, lavoriamo insieme, uomini e donne, nella diversità delle vocazioni, ma in un’armonia essenziale, perché ci sentiamo umili, uguali nella nostra indigenza di fronte al compito affidatoci (l’annuncio del Vangelo), che può essere realizzato solo nella fede, con tempi lunghi e in piena libertà, sia che siamo sacerdoti, religiose o vescovi.
Per me, la missione condivisa è stata e continua ad essere una fonte di umanizzazione integrale. È anche una delle condizioni per la vitalità della missione, perché il rispetto e la stima reciproci che i missionari e le missionarie hanno tra loro fanno parte della testimonianza data in nome del Vangelo. Nella remota parrocchia di Arvaikheer, dove sono stato per diversi anni, i primi gruppi di battezzati erano formati interamente da donne. Come al sepolcro, le donne sono arrivate per prime, portando con sé i mariti, i figli e i padri. Molte donne portano anche il peso delle loro famiglie da sole. Durante l’adorazione eucaristica, nella chiesa rotonda a forma di ger, preghiamo insieme, religiosi e religiose, tutti intorno al Santissimo Sacramento. Nella diversità dei rispettivi ruoli, portiamo avanti insieme il discernimento e il lavoro missionario, trovando nella preghiera la fonte viva del nostro essere figli e figlie di Dio.
* Cardinale Giorgio Marengo, IMC, Prefetto apostolico di Ulaanbaatar (Mongolia). Pubblicato nel sito www.vaticannews.va
Durante la visita in Mongolia, Papa Francesco benedice Tsetsege, 69 anni, nella sua ger. È la donna che ha trovato la Signora del Cielo. Foto: Vatican Media