Nella tormentata Nazione del Myanmar, attraversata da un conflitto civile da oltre tre anni, si registra un'esplosione del fenomeno del lavoro minorile, come rilevano osservatori della comunità internazionale, rapporti delle Nazioni Unite, e come confermano fonti dell'Agenzia Fides nella Nazione.

La guerra civile, infatti, ha generato una carenza di lavoratori e inoltre, negli ultimi mesi, il fenomeno dell'emigrazione dei giovani - che fuggono dal paese per evitare la legge di leva obbligatoria, approvata nel febbraio scorso - ha ulteriormente aggravato il fenomeno della scarsità di lavoratori, che si cerca di colmare ricorrendo al reclutamento di minori, da impiegare nelle mansioni più disparate. Si tratta di una grave violazioni dei diritti dell'infanzia e delle categorie più vulnerabili , hanno affermato esperti dell'Onu.

Secondo gli osservatori, l'aumento del lavoro minorile è anche uno degli effetti collaterali della controversa legge sul servizio militare obbligatorio con cui la giunta militare al potere ha cercato di rimpolpare i ranghi delle sue forze armate, in seguito alle pesanti perdite subìte a causa degli attacchi coordinati delle Forse di difesa popolare e degli eserciti legati alle minoranze etniche. Per evitare di combattere nelle file dell'esercito birmano, migliaia di giovani sono fuggiti nei territori controllati dai ribelli oppure all'estero.

In un recente rapporto pubblicato dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), si rileva l'aumento dei livelli di lavoro minorile e, sebbene l’ILO non sia stata in grado di fornire cifre esatte, il testo ricorda che “i tassi di lavoro minorile nei paesi colpiti da conflitti sono superiori del 77% rispetto alle medie globali”. L'ILO ha invitato il Myanmar ad adottare misure decisive per porre fine al lavoro minorile, mentre nel paese la situazione della sicurezza è peggiorata, con oltre tre milioni di sfollati interni, un terzo dei quali sono bambini.

"Siamo profondamente preoccupati per il deterioramento della situazione e l'escalation del conflitto in Myanmar", ha affermato Yutong Liu, rappresentante dell'ILO per il Myanmar. "Sempre più bambini vivono in povertà, subiscono restrizioni di movimento o sono costretti a spostarsi, il che li rende sempre più vulnerabili al lavoro minorile. I bambini devono essere protetti e devono essere un faro di speranza per il futuro del Paese", ha ricordato.

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Il lavoro minorile è diffuso in vari settori, come la produzione di abbigliamento, l'agricoltura, la ristorazione, il lavoro domestico, l'edilizia, la vendita ambulante. La Federazione dei lavoratori del Myanmar nota che, in un paese in cui i lavoratori hanno già una tutela limitata dei diritti, i bambini sono particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. Nonostante le diffuse violazioni, sono tuttavia ben poche le denunce degli abusi e le patenti violazioni dei diritti dei minori vengono spesso ignorate nelle fabbriche o dalle aziende dove spesso i minorenni cercano lavoro utilizzando carte d'identità appartenenti a parenti o amici più anziani.

Va notato che, nel 2020, il Myanmar ha ratificato la disposizione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro sull'età minima lavorativa, ma il colpo di stato e poi l'esplosione del conflitto civile ha creato un autentico sconvolgimento nel tessuto sociale della Nazione.

"Le famiglie, ridotte in povertà a causa del conflitto, spesso non hanno altra scelta che mandare i propri figli a lavorare", nota una fonte di Fides, mentre un rapporto pubblicato nel giugno scorso dal Programma Onu per lo sviluppo ha rilevato che il 75% della popolazione del Myanmar, ovvero 42 milioni di persone, vive in povertà.

Riferisce un sacerdote di Yangon: "Nelle parrocchie cattoliche, laddove è ancora possibile, nelle aree meno interessate dal conflitto, si cerca di avere un'attenzione speciale per i bambini, celebrando ad esempio una speciale messa per loro, portandoli a essere vicini a Gesù in questa condizione di sofferenza per loro e per le loro famiglie, cercando di venire incontro i loro bisogni materiale, relazionali, spirituali. I bambini sono coinvolti nel canto e nella preghiera. La parrocchia è un'oasi per la loro anima e per la loro vita. Sacerdoti consacrati, laici e catechisti si prendono cura di loro".

* Agenzia Fides. Originalmente pubblicato in: www.fides.org/it

Il Paese a trent’anni dal genocidio. Intervista a don Oscar Kagimbura, segretario generale di Caritas Ruanda

Trent’anni fa, il 16 luglio 1994 viene dichiarata ufficialmente la fine della guerra in Ruanda e di uno dei genocidi che hanno caratterizzato il XX secolo. Forse il più cruento in rapporto al tempo e alla popolazione. In tre mesi morirono tra gli 800 mila e 1,2 milioni di persone su una popolazione di circa 7 milioni per la gran parte uccisi a colpi di machete o mazze chiodate.

La stragrande maggioranza delle vittime erano appartenenti all’etnia Tutsi, ma furono colpite anche non poche persone Hutu o di altri gruppi etnici, perché ritenute troppo moderate verso i Tutsi. Ma la storia del Ruanda prima, durante e dopo il genocidio dimostra più che mai come la guerra e la pace non siano frutto di eventi fortuiti o di fattori connaturati nei caratteri di popoli più o meno inclini alla violenza, ma piuttosto conseguenza di scelte politiche precise.

La mattanza, preparata da tempo, iniziò il 6 aprile 1994 con l’abbattimento dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana di rientro dalla Tanzania dove si era recato per discutere un accordo di pace per la fine della guerra civile tra i ribelli del Fronte patriottico ruandese (Fpr) di etnia Tutsi e il governo del Ruanda a maggioranza Hutu. I responsabili di quell’attentato sono ancora ignoti. Il conflitto violento tra i due gruppi etnici era iniziato in modo cruento dopo l’indipendenza a causa della politica coloniale belga che aveva esacerbato e formalizzato la divisione etnica tra Hutu (la maggioranza), Tutsi e Batwa per i loro interessi di controllo del potere.

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Don Oscar Kagimbura, segretario generale di Caritas Ruanda. Foto: Italia Caritas

Dopo l’indipendenza iniziò un periodo di discriminazione da parte degli Hutu verso i Tutsi e la reazione dei Tutsi con il Fronte Patriottico Ruandese conflitto che non risparmiò violenze efferate da ambo le parti e diversi eccidi di massa. Il genocidio iniziato il 6 aprile era stato ben preparato nei mesi precedenti con la creazione di gruppi paramilitari, l’acquisto su larga scala di machete da distribuire al momento opportuno, la fomentazione dell’odio etnico tramite una potente propaganda comunicativa. Da questo punto di vista ebbe un ruolo fondamentale la “Radio des Milles Collines” chiamata anche Radio machete.

Ma la storia del Ruanda prima, durante e dopo il genocidio dimostra più che mai come la guerra e la pace non siano frutto di eventi fortuiti o di fattori connaturati nei caratteri di popoli più o meno inclini alla violenza, ma piuttosto conseguenza di scelte politiche precise.

La notizia dell’assassinio del presidente Hutu attivò la macchina di morte: entrarono in azione i gruppi paramilitari che insieme alla forze armate regolari iniziarono le uccisioni indiscriminate di tutti coloro che nella carta di identità erano registrati di etnia Tutsi (I belgi avevano introdotto l’indicazione dell’etnia nei documenti di identità). La radio inizio una feroce campagna di incitamento all’uccisione dei Tutsi e degli Hutu che si rifiutavano di brandire il machete.

Anche la Chiesa cattolica locale venne travolta dall’odio etnico in un paese per la gran parte cristiano. Molti cattolici Hutu inclusi membri del clero si macchiarono di violenze o di complicità, altri ne furono vittime. La comunità internazionale restò a guardare. Le forze francesi presenti nel Paese non ostacolarono i massacri. L’Europa che tanta responsabilità aveva avuto nella dinamica di odio che avevano condotto sino a quel momento, si voltò dall’altra parte. Solo nel 2021 Emmanuel Macron chiederà perdono per le responsabilità francesi. Il 16 luglio la carneficina si fermò in Ruanda con la cacciata del governo Hutu e con lui di centinaia di migliaia di profughi e la presa del potere del FPR di Paul Kagame ancora saldamente al comando della nazione ruandese dopo trent’anni. Purtroppo però le violenze non terminarono nei paesi vicini, nello Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo) in particolare dove si rifugiarono la gran parte degli Hutu in fuga innescando di fatto i conflitti che si susseguirono e una instabilità nella regione dei Grandi Laghi che ancora perdura.

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 Il Genocidio in Ruanda è uno degli eventi più tragici della storia del XX secolo, non solo dell'Africa.

La comunità internazionale restò a guardare. Le forze francesi presenti nel Paese non ostacolarono i massacri. L’Europa che tanta responsabilità aveva avuto nella dinamica di odio che avevano condotto sino a quel momento, si voltò dall’altra parte

A trent’anni dalla fine del genocidio perpetrato contro la popolazione Tutsi in Ruanda, cosa resta nella memoria della gente di quanto accadde allora e cosa ne pensano i giovani di oggi?

Dopo il genocidio del 1994, che costò al Ruanda più di un milione di persone, il Paese si è trovato in una situazione disperata, con enormi perdite di vite umane e danni economici e materiali enormi, dovendo ricostruire tutto da zero. Il Paese ha investito molti nella ripresa economica, nella ricostruzione delle infrastrutture e, soprattutto, nella riconciliazione nazionale e nel rimpatrio dei rifugiati.

La Chiesa cattolica ha sostenuto gli sforzi del governo per la riconciliazione, dove le persone sono state mobilitate per superare la barriera dell’odio e chiedere e concedere il perdono, un processo difficile ma riuscito che ha gradualmente ristabilito la fiducia, la reciprocità e la condivisione della vita quotidiana tra le famiglie delle vittime e quelle degli autori del genocidio. I giovani – vittime e non – pur non avendo vissuto il genocidio ma soffrendone le conseguenze, in particolare il trauma, hanno avuto l’opportunità (sessioni educative tramite il programma Itorero di cui parlerò dopo e conferenze durante la commemorazione del genocidio) di conoscere ciò che è accaduto e hanno preso l’iniziativa per un futuro migliore. Il governo ruandese e altri attori, tra cui la Chiesa cattolica, in tutti i campi stanno incoraggiando i giovani a essere più resilienti e a partecipare attivamente e positivamente alla ripresa della sfortunata situazione che il Paese ha vissuto.

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 Una cruda immagine del Museo del Genocidio, in Ruanda.

La Chiesa cattolica ha sostenuto gli sforzi del governo per la riconciliazione, dove le persone sono state mobilitate per superare la barriera dell’odio e chiedere e concedere il perdono

Dopo la fine del genocidio vi è stato un percorso di pacificazione, quali sono stati gli elementi essenziali e quali risultati ha portato, quali ancora le sfide?

Attraverso il programma Itorero, un modello di educazione alla cittadinanza, all’unità e alla riconciliazione che affonda le radici al sistema educativo pre-coloniale, il governo ha aiutato i giovani a superare le loro prove e a diventare adulti responsabili. I tribunali Gacaca (istituzionalizzazione dei tribunali di comunità tradizionali) hanno permesso di accelerare i processi, non solo dando accesso alla giustizia ai presunti innocenti, ma anche punendo i colpevoli, un modo per alleviare le conseguenze del genocidio per le vittime. Sono stati inoltre istituiti programmi e fondi per aiutare i sopravvissuti al genocidio e le famiglie più vulnerabili, con l’obiettivo di ricostruire le famiglie più indigenti e ricomporre il tessuto sociale. La sfida a lungo termine è quella di guarire dal trauma delle atrocità, un processo che dovrà continuare a lungo.

Qual è la situazione del paese oggi da un punto di vista sociale? Quali i progressi compiuti e quali i problemi più importanti?

I ruandesi vivono in armonia come mai prima d’ora. Gli sforzi di pace e riconciliazione proseguono. I matrimoni tra persone di differenti gruppi sono ripresi e la sfiducia tra le vittime, gli autori del genocidio e i loro figli è diminuita in modo significativo (ripresa delle attività di aiuto reciproco tra famiglie, ecc.). Lo sviluppo del Paese e della sua popolazione è una priorità per tutti. Rimane il problema dei casi isolati di coloro che vogliono continuare ad attaccare le vittime, soprattutto durante il periodo di commemorazione del genocidio, ma anche se non sono molti, dobbiamo continuare a mobilitarci ed educare.

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Le cicatrici del genocidio in Ruanda. Fotografia di James Nachtwey, Ruanda, giugno 1994.

Secondo lei qual è l’insegnamento che oggi il mondo dovrebbe trarre dalla storia del Ruanda?

Ci sono molte lezioni da imparare dalla storia del genocidio in Ruanda, non ultima la volontà delle autorità di promuovere l’unità e la riconciliazione. Tutte le grida di sofferenza, da qualsiasi parte provengano, meritano un’attenzione particolare e le azioni necessarie per preservare le vite umane in pericolo finché si è ancora in tempo. Le persone devono essere al centro di qualsiasi azione che riguardi la loro vita, e il caso della partecipazione delle vittime, degli accusati e della popolazione in generale è una buona lezione da imparare altrove. Gli attori internazionali devono impegnarsi a fondo per sostenere gli sforzi dei rispettivi governi nella partecipazione delle persone e nel loro sviluppo.

* Fabrizio Cavalletti, Italia Caritas. Originalmente pubblicato in: www.italiacaritas.it

“Abbiamo ringraziato il Papa per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, siamo una minoranza ma dobbiamo essere luce e sale nella società”, dice il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel, acivescovo metropolita di Addis Abeba, che è a Roma ad altri 12 presuli e un sacerdote della Chiesa cattolica etiope in visita ad Limina.

Più di 500 anni fa i cristiani dell’Etiopia viaggiavano fino ad Alessandria, in Egitto, per pregare sulla tomba di San Marco, poi andavano a Gerusalemme per pregare sul Golgota e poi prendevano una nave fino a Roma, per recarsi sulle tombe dei Santi Pietro e Paolo e dei martiri, riposando nel luogo che è ancora il collegio etiopico in Vaticano. “Siamo qui a continuare la storia di questo pellegrinaggio antico”, spiega il cardinale Berhaneyesus, (in un'intervista alla Radio Vaticana). Dopo aver pregato nelle quattro basiliche maggiori a Roma, i vescovi hanno visitato i dicasteri della Santa Sede e, venerdì 28 giugno, sono stati ricevuti da Papa Francesco.

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Il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel ospite della Radio Vaticana. Foto: Vatican Media

Eminenza, come è andato l’incontro con il Papa?

Ci ha ricevuto con tanta semplicità e anche umiltà. Eravamo noi, soli con il Papa e abbiamo spiegato la nostra situazione in Etiopia. Lo abbiamo ringraziato anche per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, di cui lui ha parlato negli appelli dopo l'Angelus. Lo abbiamo ringraziato e gli abbiamo chiesto di continuare a pregare per noi.

Che cosa avete raccontato della realtà dell'Etiopia?

Noi abbiamo presentato la situazione dell'Etiopia dal punto di vista dei giovani, perché su 120 milioni, il 70% della popolazione è costituito da giovani che vogliono migliorare la loro vita e quella dei loro parenti. Vedono sulla tv e sui social media come vivono in altre parti del mondo e molti vanno nei Paesi arabi e purtroppo lì soffrono perché non sono preparati a lavorare come domestici. Altri vogliono andare in Sudafrica, dove va un po’ meglio, ma anche lì ci sono problemi. Gli altri vanno a nord e attraversando il Sudan e la Libia cercano di arrivare in Europa. Nel XIX secolo molti europei migravano e c’erano alcuni luoghi in Europa disponibili a riceverli e sostenerli, ma tutto questo adesso viene a mancare. Papa Francesco questo lo sa.

Il primo luogo che è andato a visitare, dopo l’elezione, è stato Lampedusa, dove ha offerto dei fiori per tutti quelli che sono morti in mare e dove ha detto a chi governa l’Europa che le migrazioni sono importanti. Dobbiamo fare qualcosa per aiutare la gente, sia in Africa sia in Siria o in altri Paesi. Quando qualcosa riguarda i poveri, ci ha detto, allora dobbiamo essere vicini a loro. Noi siamo accanto ai bambini, che soffrono molto quando non vanno a scuola perché le scuole sono distrutte, siamo vicini alle mamme che non possono andare negli ospedali perché sono distrutti e agli anziani che sono sfollati dai loro villaggi e vivono come stranieri. Gli abbiamo spiegato tutto questo e lui ha detto di continuare a essere vicini alla gente, in mezzo al popolo, così da poter sentire l’odore delle pecore. Un vescovo deve essere così. Non deve scappare ma deve essere tra la gente. Anche se non si possono fare grandi cose, la fraternità e la presenza paterna sono importanti. Lui ha detto così.

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Spazio di amicizia per donne e ragazze vittime dei drammi della guerra in Tigray

Com’è la vita della Chiesa cattolica in Etiopia, che è una comunità minoritaria nel Paese?

Noi siamo minoranza, circa il 2% di 120 milioni di persone. La maggioranza degli abitanti è cristiana: più del 45% sono ortodossi, poi vengono i protestanti, intorno al 18-20%. Abbiamo la responsabilità di essere luce e sale in questo grande Paese. Le sfide sono la povertà e i conflitti e noi, grazie all'appoggio della Chiesa universale, siamo al secondo posto per i servizi sociali che offriamo, come scuole, centri sanitari o centri gestiti dalle suore di Madre Teresa o presidi per lo sviluppo o l’assistenza umanitaria, come la Caritas. In tutto questo siamo chiamati ad essere luce e sale, come Gesù ci ha detto. Non è facile, ma ci stiamo provando.

Lei ha parlato anche dei conflitti che riguardano l'Etiopia, come quello che è avvenuto nel Tigray. Quali sono le ripercussioni per la popolazione?

Il conflitto in Tigray era fra il governo regionale e il governo federale. Una cosa politica, ma chi soffre è il popolo. Grazie a Dio, dopo due anni hanno fatto una pace a Pretoria. L'altro è in Oromia. L’Oromo Liberation Army è in lotta con il governo federale da quattro anni e anche lì chi soffre è il popolo. Hanno cominciato a parlare in Tanzania, ma non sono riusciti ancora a fare la pace. Il terzo fronte adesso, che continua da più di un anno, è nella regione Amhara. Anche lì ci sono i movimenti in conflitto con il governo federale. Speriamo che arriveranno a una soluzione. Noi come Chiesa cattolica non appoggiamo né l’uno né l’altro, ma siamo con il popolo che soffre.

Piuttosto siamo per l’assistenza sociale e per cercare una riconciliazione per il dopo guerra, quando si deve fare non solo la pace, ma anche guarire dai traumi sia chi ha sofferto direttamente nella guerra, come le donne vittime di abusi e i bambini che hanno visto le loro famiglie morire. Questo è importante e non si fa solo a livello di una piccola Chiesa, ma con l'appoggio della Chiesa universale. Si può fare insieme con i tanti missionari che lavorano con noi e che vengono da tutto il mondo.

* Michele Raviart - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: Vatican News

“Come cattolici di Terra Santa, che condividono la visione di Papa Francesco per un mondo pacifico, siamo indignati dal fatto che gli attori politici in Israele e all'estero stiano utilizzando la teoria della "guerra giusta" per perpetuare e legittimare la guerra in corso a Gaza”.

È l’allarme lanciato dalla Commissione Giustizia e Pace di Terra Santa, in un documento diffuso per contestare e contrastare l'uso improprio di una espressione - quella di “guerra giusta” – utilizzata nella dottrina cattolica, e che ora, “provocando allarme in noi cristiani, viene sempre più utilizzata come arma per giustificare la violenza in corso a Gaza”.

Il documento della Commissione Giustizia e Pace di Terra Santa (vedi in allegato le versioni integrali in inglese e arabo) ripropone le condizioni imprescindibili che permettono di definire una guerra “giusta” dal punto di vista della dottrina cattolica, condizioni riportate anche nel paragrafo 2309 del Catechismo della Chiesa cattolica.

Secondo la dottrina cattolica, il ricorso all’uso delle armi è legittimo solo in risposta a una aggressione che ha provocato danni e ingiustizie gravi e durature, e quando tutte le altre vie per prevenire i danni e porvi fine si sono dimostrate impraticabili e inefficaci; la reazione armata deve inoltre avere ragionevole prospettiva di successo, e non deve provocare distruzioni e sofferenze a persone innocenti che siano maggiori del male da eliminare.

Dopo “i terribili attacchi del 7 ottobre contro installazioni militari, aree residenziali e un festival musicale nel sud di Israele da parte di Hamas e altri militanti e la catastrofica guerra intrapresa in risposta da Israele -si legge nel documento di Giustizia e Pace, che porta la data di Domenica 30 giugno – “alti esponenti cattolici, a partire da Papa Francesco, hanno continuamente chiesto un immediato cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. I teologi morali cattolici di tutto il mondo hanno anche sottolineato come né gli attacchi di Hamas del 7 ottobre né la devastante guerra di risposta di Israele soddisfino i criteri della "guerra giusta" secondo la dottrina cattolica”.

Come è stato già notato, nella nuova esplosione dai violenza in Terra Santa “la mancanza di obiettivi dichiarati da parte di Israele rende impossibile misurare se ci siano ‘serie prospettive di successo’. Soprattutto, le guerre giuste devono distinguere chiaramente tra civili e combattenti, un principio che in questa guerra è stato ignorato da entrambe le parti con risultati tragici. Le guerre giuste devono anche impiegare un uso proporzionato della forza, cosa che non si può facilmente dire di una guerra in cui il bilancio delle vittime palestinesi è di decine di migliaia di persone superiore a quello di Israele, e in cui una netta maggioranza delle vittime palestinesi sono donne e bambini”.

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"La testimonianza che portiamo non è di guerra, ma di amore trasformativo". Foto: Said Khatib/Getty Images

La dubbia applicazione della teoria della "guerra giusta" ai conflitti moderni – ricorda il documento di Giustizia e Pace di Terra Santa “”ha fatto pensare che le guerre "giuste" possano esistere solo in casi molto rari. Ciò è particolarmente vero in un contesto in cui lo sviluppo dell'industria degli armamenti contemporanea, capace di causare morte e distruzione su scala sconosciuta”.

Il Documento cita anche le parole e I richiami costanti di Papa Francesco, che già l'11 ottobre 2023, quattro giorni dopo gli attacchi palestinesi al sud di Israele, aveva “evocato il diritto israeliano all'autodifesa in seguito all'attacco di Hamas, aggiungendo di essere preoccupato “per l'assedio totale sotto cui vivono i palestinesi a Gaza, dove ci sono state anche molte vittime innocenti".

C'è chi pretende - insiste il Documento di Giustizia e Pace in Terra Santa – “che la guerra segua le regole della ‘proporzionalità’, sostenendo che una guerra che continua fino alla fine potrebbe salvare le vite degli israeliani in futuro, mettendo sull’altro piatto della bilancia le migliaia di vite palestinesi perse nel presente. In questo modo, si privilegia la sicurezza di ipotetiche persone nel futuro rispetto alle vite di esseri umani vivi e vegeti che vengono uccisi ogni giorno. In breve, la manipolazione del linguaggio della teoria della guerra giusta non riguarda solo le parole: sta avendo risultati tangibili e fatali”.

“Pur essendo una piccola comunità in Terra Santa” rimarca il Documnento della Commiissione Giustizia e Pace “come cattolici siamo parte integrante dell'identità di questa terra. Vogliamo chiarire che noi, e la nostra tradizione teologica, non dobbiamo essere usati per giustificare questa violenza. La testimonianza che portiamo non è di guerra, ma di amore trasformativo, di libertà e uguaglianza, di giustizia e pace, di dialogo e riconciliazione”. (GV)

Fonte: Originalmente pubblicato in www.fides.org

L’operato delle due Corti internazionali

Karim Khan è un giurista inglese di origini pachistane. Dal febbraio 2021 è il procuratore capo (prosecutor) della Corte penale internazionale (Icc, nell’acronimo inglese), organo di giustizia internazionale con sede a l’Aia, nei Paesi Bassi.

Lo scorso 20 maggio Khan ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità dei tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Mohammed al-Masri e Ismail Haniyeh) e di due leader israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Spetterà ai diciotto giudici della Corte emettere un mandato di arresto o una citazione a comparire.

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Il giudice inglese di origini pachistane Karim Khan è – da febbraio 2021 – il procuratore capo della «Corte penale internazionale» (Icc).

Ciò che fa più discutere della richiesta di Khan è di aver posto sullo stesso piano accusatorio Hamas e il governo israeliano. Entrambe le parti in causa hanno respinto con sdegno le (pesanti) imputazioni del procuratore. Per parte sua, il mondo si è diviso evidenziando una volta di più le enormi fratture che caratterizzano questo periodo storico.

D’altra parte, le decisioni della Corte penale internazionale hanno risonanza mondiale, ma scarse conseguenze pratiche. La questione principale nasce dal fatto che essa è riconosciuta soltanto dalle 124 nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Roma del 1998. Non vi aderiscono paesi importanti tra cui Cina, Russia, ma neppure Stati Uniti e Israele.

Pertanto, al di là delle sue decisioni, l’efficacia della Corte è scarsa. Un esempio recente: nel marzo 2023, con riferimento all’aggressione dell’Ucraina, essa ha (giustamente) dichiarato Vladimir Putin «criminale di guerra», ma il presidente russo ha continuato a governare e a viaggiare senza problemi.

Nella stessa città olandese ha sede la Corte internazionale di giustizia (Icj, in inglese), organo delle Nazioni Unite che giudica le dispute tra gli Stati. Il 29 dicembre del 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte una denuncia contro Israele accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Lo scorso 24 maggio la Corte, presieduta (da febbraio) dal giudice libanese Nawaf Salam, con 13 voti contro due ha ordinato a Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah e di aprire il valico. Finora sono state parole al vento.

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Il giudice libanese Nawaf Salam è da febbraio 2024 il nuovo presidente della «Corte internazionale di giustizia» (Icj).

Nel febbraio 2022, subito dopo l’aggressione di Mosca, l’Ucraina aveva fatto al Icj la stessa denuncia contro la Russia. A oggi, nessun verdetto è stato emanato.

Si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di quello tra Russia e Ucraina, al momento entrambe le Corti sembrano, dunque, confermare che una giustizia internazionale giusta e super partes rimane una chimera.

* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Pubblicato  originalmente in: www.rivistamissioniconsolata.it

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