Is 40,1-5.9-11; Sal 103; Tt 2,11-14;3,4-7; Lc 3,15-16.21-22

Nella festa del Battesimo del Signore che conclude il tempo del Natale, la liturgia della Parola ci parla del battesimo di Gesù, nel Vangelo di Luca e del nostro nella Lettera di San Paolo a Tito: “Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo … affinchè, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.” Si tratta dunque di un passaggio: dal battesimo di Gesù al nostro.

Gesù ha ricevuto anche lui il battesimo

Il profeta Ezechiele disse ad Israele che, dopo il peccato verso Dio, aveva meritato l’esilio e che se desiderava rivivere nuovamente con Lui e ricevere il suo Spirito, doveva essere totalmente purificato, pronunciando il simbolismo dell’acqua, “Vi aspergerò con acqua e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli”.

È nell’ambito di questa purificazione che la narrazione del battesimo di Gesù è inserita nel contesto della missione di Giovanni il Battista che, predicando la conversione del cuore, la venuta del regno di Dio e il portare frutto con le buone opere, annunzia colui che battezzerà “in Spirito Santo e fuoco”. Mentre il popolo si faceva battezzare “con acqua” cioè il battesimo di conversione e di pentimento, entra in scena Gesù che, tra la folla, viene anche lui per essere battezzato.

Alcuni elementi meritano la nostra meditazione

L’evangelista Luca sottolinea anzitutto che il battesimo di Gesù avviene mentre Egli era insieme a “tutto il popolo”. Non descrive il rituale del battesimo di Gesù, egli Lo mette in scena già battezzato: mentre tutto il popolo veniva battezzato, Gesù riceve anche lui il battesimo. Gesù, figlio di Dio, nell’anonimato, si nasconde in mezzo alla gente che si sente peccatrice ma e bisognosa di conversione e di purificazione. La gente va da Giovanni per fare il battessimo di immersione. Gesù non aveva peccato ma si mescola alla folla peccatrice, non aveva bisogno del battesimo di pentimento e di conversione; eppure, si mette in fila per riceverlo.

È in questo momento e in questo gesto che Luca sottolinea la grandezza e la bellezza del battesimo di Gesù: il quale compie il più grande gesto di umiltà e di abbassamento: facendosi battezzare si mescola e solidarizza con tutto il popolo. Gesù facendosi immergere da Giovanni il Battista nelle acque del fiume Giordano  solidarizza con tutti i suoi fratelli e sorelle e si manifesta come Dio in mezzo agli uomini. Ecco un gesto di umiltà, di sottomissione a Dio e di totale solidarietà con i fratelli peccatori. Gesù non ha bisogno del battesimo ma si fa battezzare per indicare la sua vera missione: facendosi simile agli uomini, eccetto nel peccato, prende su di sé i nostri peccati per risorgere a una nuova vita.

Nel battesimo, Gesù si fa accanto all’uomo concreto per salvarlo; mettendosi tra i peccatori, Gesù vuole mostrarsi solidale con  il peccatore di tutti i tempi, inserirsi umilmente nel sofferto cammino di tutta l’umanità, abbracciando la condizione della gente povera e vulnerabile, manifestando così una meravigliosa solidarietà con il suo popolo, con gli ultimi, con i peccatori.

Il secondo elemento che Luca annota e che merita la nostra riflessione è che mentre Gesù è in preghiera, dopo il Battesimo, viene consacrato Messia dallo Spirito Santo e riconosciuto dal Padre quale era ed è veramente, cioè il Figlio amato, il Figlio del compiacimento del Padre. Gesù è rivelato da Dio come suo Figlio, come il suo prediletto, come il testimone gradito dell’azione salvifica del Padre verso l’uomo, proprio perché compie già il mistero della volontà di accoglienza, di perdono, di comunione, di salvezza che Dio desidera. Nel momento della solidarietà, Dio rivela la vera identità di Gesù: il Figlio, l’amato.

Con il battesimo di Gesù inizia una nuova era per l’umanità: in cui il Figlio di Dio agirà nella storia. Tutto ciò che Gesù compirà nel corso del suo ministero, sarà molto importante perché sarà fatto dal Figlio di Dio stesso. Un’era nuova è cominciata sotto il potere di Dio e in essa tutti i piani di Dio saranno realizzati. Un’ era di fratellanza perché in Gesù siamo tutti fratelli, Gesù Figlio di Dio si è fatto fratello di ogni uomo immerso nelle acque del peccato, ogni uomo unto dallo Spirito, ogni uomo che ha sentito dire “tu sei il mio figlio”.

Come ha sottolineato Papa Francesco, il Suo Battesimo è strettamente connesso al nostro, Gesù si fa carico delle nostre necessità. Di noi che mendichiamo l’amore di Dio, di nostro Padre. Anche tu e io, afferma papa Francesco, possiamo imitare Gesù, uscire e farci carico delle necessità degli altri, «è anche questo il modo in cui possiamo sollevare gli altri: non giudicando, non suggerendo cosa fare, ma facendoci vicini, compatendo, condividendo l’amore di Dio».

Il discepolo missionario è chiamato a imitare Cristo e un modo concreto di farlo è occuparci dei bisogni degli altri e non tanto dei nostri. “Uscire da noi stessi, guardare il bisognoso, che necessita della nostra attenzione, del nostro tempo, del nostro sorriso, ecc. Imitiamo Cristo sollevando lo sguardo verso il prossimo. Questa è la strada della vera felicità, perché c’è più felicità nel dare che nel ricevere”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).

Sir 24,1-4.12-16; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18

In questa II Domenica dopo Natale, la liturgia ci popone il prologo del vangelo di Giovanni, cioè i primi diciotto versetti nei quali l’evangelista riesce a rinchiudere, riassumere e riformulare tutto il vangelo, per cui ogni singola parola è ricca di significati. Ebbene, questo prologo inizia correggendo il primo libro della Bibbia, il libro della Genesi.

Il libro della Genesi, lo sappiamo, inizia con le parole “In principio Dio creò il cielo e la terra”; ebbene, l’evangelista non è d’accordo; l’evangelista scrive che “In principio c’era il”, ed è un termine greco, che viene tradotto con “verbo” o “parola”, “logos”, che ha una vasta gamma di significati. Il logos nella Bibbia è la parola creatrice che realizza il progetto di Dio nella creazione. Quindi questo logos, questa parola, è il progetto di Dio che viene realizzato nella creazione.

Il versetto centrale di tutto il prologo è quello più importante. Infatti, scrive l’evangelista al versetto 12 “A quanti però lo hanno accolto” questo progetto - cioè, un uomo con la condizione divina, questo era il progetto di Dio sull’umanità - “ha dato il potere di diventare i figli di Dio”.

Ebbene, la seconda lettura di oggi è il miglior commento a questo inizio del prologo di Giovanni. Ce l’abbiamo nella lettera agli Efesini di Paolo (Ef 1,3-6.15-18), con un testo che, se compreso, cambia veramente il rapporto con Dio e il rapporto con gli altri.

Inizia Paolo la lettera agli Efesini con una benedizione al Signore, dice che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale. Spirituale non significa eterea, evanescente, ma che agisce nello Spirito; perché? “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo”.

Ecco, come ha scritto l’evangelista Giovanni, che Dio in principio non creò il cielo e la terra, ma, prima ancora di creare il cielo e la terra, c’era questo progetto sull’umanità, un uomo con la condizione divina, e lo stesso dice Paolo. Quindi prima della creazione del mondo ci ha scelti.

Noi non veniamo al mondo, alla luce per un caso, veniamo perché Dio ci ha scelti. Dio, prima ancora di creare il mondo, ha pensato a ognuno di noi perché voleva manifestarsi attraverso ognuno di noi in una forma nuova, originale e creativa, voleva arricchire la creazione con la nostra presenza.

E dice che ci ha scelti per essere “santi”, santi significa separati da ogni forma di male, e immacolati al suo cospetto. Cosa significa immacolato? Dio è nella purezza e l’immacolato è colui che non ha ostacoli, non ha barriere per entrare in comunione con questo Dio che è puro. Quello che rende impuro l’uomo nei vangeli, lo sappiamo, è il male che volontariamente si fa agli altri.

Ma continua qui l’apostolo Paolo, dice “predestinandoci” - c’è quindi una predestinazione - “ad essere suoi figli adottivi”. L’adozione alla quale si riferisce Paolo non è l’istituto che noi conosciamo, l’accoglienza in seno alla famiglia per amore di un bambino, no; si rifà a un’istituzione giuridica in voga a quel tempo, con la quale il regnante non lasciava mai il proprio regno in eredità a uno dei figli, ma sceglieva tra i propri ufficiali, tra i propri generali, colui che pensava avesse la capacità di portare avanti il suo regno e lo adottava come figlio.

Quindi era il gesto con il quale normalmente l’imperatore sceglieva qualcuno che portasse avanti il suo impero. Abbiamo, per esempio, nella storia imperatori come Traiano, come Adriano, come Marco Aurelio che sono stati tutti adottati dall’imperatore precedente.

Allora cosa significa questa adozione a figli adottivi? Che Dio, il creatore, ha tanta stima in ognuno di noi, si fida tanto di ognuno di noi che ci crede capaci di collaborare alla sua azione creatrice. Per Gesù Dio non ha creato il mondo, Dio lo crea e ha bisogno di ognuno di noi per continuare a creare questo mondo. Allora il brano del vangelo e l’augurio che ci facciamo in questo inizio dell’anno è di comprendere, accogliere questo progetto di un Dio che ci ha creati per creare, siamo vivi per vivificare gli altri e poi amiamo per rendere gli altri capaci di accogliere l’amore.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52

Quando leggiamo il vangelo occorre sempre distinguere quello che l’evangelista ci vuol dire, e questa è la parola di Dio che è valida per sempre, da come lo dice, usando gli schemi teologici e letterari della sua cultura e del suo tempo.

Questo a maggior ragione nel brano che la Chiesa, la liturgia, ci presenta per la festa della Santa Famiglia perché, se vediamo questo episodio dal punto di vista letterale, più che una santa famiglia sembra una famiglia veramente sconclusionata. Un figlio che rimane a Gerusalemme senza avvertire i genitori, i genitori che si accorgono dell’assenza del figlio soltanto dopo una giornata e il figlio addirittura che rimprovera i genitori. Vediamo allora cos’è che l’evangelista ci vuole trasmettere ricordando come iniziato questo vangelo.

Quando l’angelo ha annunciato a Zaccaria la nascita del figlio Giovanni Battista aveva detto che veniva per “portare il cuore dei padri verso i figli”. Era una citazione della profezia del profeta Malachia che però continuava “e il cuore di figli verso i padri”. Ebbene Luca non è d’accordo. Non è il nuovo che deve accogliere il vecchio, ma è il vecchio che deve sforzarsi per accogliere il nuovo, è quello che farà Gesù. Gesù non cammina, non segue le orme dei padri, ma sono i padri che devono accogliere la sua novità.

I fatti sono risaputi, è la festa della Pasqua, è una delle tre grandi feste annuali per le quali gli ebrei si recavano a Gerusalemme, ci portano anche Gesù e Gesù rimane a Gerusalemme senza avvertire i genitori. I genitori se ne accorgono soltanto dopo un giorno di cammino ed ecco che arriva l’incidente.

Tre giorni dopo lo trovarono nel tempio in mezzo, l’evangelista presenza Gesù come immagine della sapienza divina che siede in mezzo, ai maestri che li ascoltava e li interrogava e tutti sono stupefatti, sconvolti per la sua intelligenza e per le sue risposte. Ed ecco il punto centrale di questo episodio, l’incidente, al vederlo restarono stupiti, non si aspettavano i genitori di trovarlo lì, e sua madre gli disse, e qui la madre l’evangelista non parla mai di Maria, non la nomina mai. Quando i personaggi non sono presentati con il loro nome, ma sono anonimi significa che sono personaggi rappresentativi.

Pertanto, nella figura della madre l’evangelista vuole raffigurare l’attesa frustrata del popolo di Israele che non si riconosce in questo messia che si apre al nuovo.

Gli disse: Figlio”, e il termine greco indica significa bambino mio, uno sul quale io ho diritto, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo. Ebbene Gesù anziché scusarsi passa al contrattacco e la prima e unica volta in questo vangelo in cui Gesù si rivolge alla madre è per parole di aspro, severo rimprovero.

Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate?”, sta dando loro degli ignoranti e infatti dice non sapevate, qualcosa che dovevano sapere, che io devo, il verbo dovere adoperato dall’evangelista indica che è espressione della volontà divina, occuparmi delle cose del Padre mio? La madre ha detto a Gesù Ecco, tuo padre e io, Gesù le ricorda che suo padre non è Giuseppe, suo padre è un altro e lui deve stare nelle cose del Padre suo.

Ebbene scrive l’evangelista, commenta, che essi non compresero, è troppo grande questa novità, ciò che aveva detto loro, ma, ecco qui incomincia a svilupparsi e a crescere la figura della madre di Gesù che arriverà al punto di diventare poi la discepola del figlio, sua madre custodiva tutte queste cose, cioè ci rifletteva.

È una grande novità, è qualcosa che la sconcerta, ma la madre di Gesù è grande perché non rifiuta il nuovo, ci pensa, ci riflette, e Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini.

Qui il riferimento dell’evangelista è uno dei più grandi profeti della storia di Israele, il profeta Samuele, che anche lui cresceva davanti a Dio e agli uomini con la grazia. Quindi è una novità grande quella che l’evangelista ci presenta ed è un invito a lasciare il passato per aprirsi al nuovo. Soltanto che si apre al nuovo cammina con Gesù e va verso il Padre.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

Mi 5, 1-4; Sal 79; Eb 10, 5-10; Lc 1, 39-48

Le letture di questa domenica ci permettono di contemplare segni piccoli e semplici, persone e realtà umili attraverso le quali, Dio compie le sue grandi opere di salvezza. A Betlemme, un piccolo ed insignificante paese, secondo il profeta Michea, sarebbe nato il Messia, da Maria, che riconoscendo la sua piccolezza, si mette, in fretta, al servizio di Elisabetta e Zaccaria. Betlemme e Maria sono modelli dell’umiltà e disponibilità dell’accoglienza: in questo caso del Messia.

e tu, Betlemme…  da te  uscirà il dominatore in Israele

La prima Lettura non solo sottolinea la piccolezza e l'insignificanza di Betlemme, ma anche e soprattutto, viene messo in risalto che Dio, da questa piccolezza, farà nascere il Salvatore, colui che sarà grande fino agli estremi confini della terra e che sarà Egli stesso la pace. Betlemme, “casa del pane”, non è solo il villaggio più piccolo fra i villaggi di Giuda ma anche uno degli ultimi. Infatti, l'autore pone l'attenzione su Betlemme che egli riconosce tanto piccolo, di ben poca importanza, pur essendo tra i capoluoghi di Giuda. Ma da questa piccola realtà nascerà colui che porterà la speranza e la pace, colui che pascerà con la forza del Signore, colui che darà sicurezza e pace al popolo, “sarà grande fino agli estremi confini della terra” (v. 3). Da un popolo umiliato a causa della dominazione straniera, nascerà il dominatore di tutta Israele e sarà Lui che si leverà e pascerà con la forza dell’Altissimo.

È un messaggio di speranza non solo per il piccolo resto d'Israele ma anche per tutti fino agli estremi confini della terra. È allo stesso tempo un messaggio di pace poiché da questa piccola realtà nascerà quello che viene chiamato la pace per l’umanità. Dall'umiltà, dalla piccolezza nasce la vera speranza e pace. È quest’umiltà e questa piccolezza – Betlemme - che accoglie la speranza e la pace di tutto un popolo. Dalla nostra piccolezza Dio può far nascere la pace e la speranza. Mettiamoci alla sua disposizione.

Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa

Subito dopo l'annunciazione, Maria si alza e si mette in viaggio “in fretta”, con zelo e slancio, senza frapporre indugi, per recarsi presso una sua parente che abita nella regione montuosa. Maria, giovane ed umile vergine, quella che non conosce uomo, alla quale l'angelo ha rivelato un grande progetto, va a visitare la sua parente molto più vecchia di lei. La strada verso la regione montuosa che Maria percorre corrisponde a tre, quattro giornate di cammino. Questa umile e insignificante ragazza agli occhi degli uomini ma che per Dio è “piena di grazia” quella che per eccellenza è oggetto dell'amore e della grazia di Dio. È lei che si dichiarerà “l’umile serva del Signore” annoverandosi dunque tra i piccoli, i poveri e si proclama lei stessa “umile”. Perché questa giovane ragazza si mette in viaggio per andare da Elisabetta se non è stata da lei chiamata?

È vero che Maria, non poteva tenere dentro di sé e con sé, la bella notizia che aveva appena ricevuto, di essere la madre del Salvatore e dunque aveva il desiderio di con-dividere. Avrebbe potuto con-dividere con i suoi genitori oppure con le persone che le erano accanto senza avere bisogno di andare nella regione montuosa e fare tre o quattro giornate di cammino, ma l'angelo le aveva anche comunicato che la sua parente Elisabetta, sterile, era al sesto mese di gravidanza, grazie all'azione dello Spirito di Dio. Maria avendo capito che la situazione di Elisabetta comportava una fatica e un impegno più grandi del normale va da lei ad aiutarla.

Maria è dunque mossa dal desiderio di fare un gesto di carità, di generosità e di amore, non vede   se stessa, ma pensa all’altra persona, al suo bisogno mettendosi a sua disposizione. Avrebbe potuto pensare, sono incinta e voglio avere tutti i riguardi, invece ha pensato alla sua parente, in età avanzata, che avrebbe avuto sicuramente più bisogno. Non pensa a se stessa, al compito che le è stato affidato.  Questa è la volontà del Padre: è necessario vivere e manifestare l'amore reciproco. “Per portare la vita non serve essere donne…. In questo vangelo Maria è feconda e genera azione solo con un saluto… ognuno di noi con piccoli gesti può essere generativo. Le due donne hanno età diverse, ma quello che le unisce è la generatività”. 

La carità e la generosità di Maria divengono una grazia per tutti, non solo per Elisabetta ma anche per Giovanni. Grazie alla carità premurosa di Maria, Giovanni sussulta nel grembo di sua Madre la quale è colmata dello Spirito Santo. Maria è Madre del Messia, nel suo grembo porta il Santo, colui che è fonte di ogni benedizione e sorgente di gioia messianica.  Questa benedizione e gioia sono propagate da Maria.

Il discepolo missionario si prepara, come Maria, a vivere un Natale estroverso, come afferma Papa Francesco, cioè un Natale dove al centro non ci sia il nostro “io”, ma il Tu di Gesù e il tu dei fratelli, specialmente di quelli che hanno bisogno di aiuto. Il discepolo missionario allora lascerà spazio all’Amore che, anche oggi, vuole farsi carne e venire ad abitare in mezzo a noi.

Buon cammino verso la meta agognata con le parole di don Primo Mazzolari: “Sei venuto per tutti: per coloro che credono e per coloro che dicono di non credere.  Gli uni e gli altri, a volte questi più di quelli   lavorano. Soffrono.   Sperano perché il mondo vada un po’ meglio … Sei il Salvatore degli orientali e degli occidentali, sei con tutti, non per dare ragione a tutti, ma per amare tutti”

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).

Sof 3, 14-18; Is 12; Fil 4, 4-7; Lc 3,10-18

La venuta del Messia deve essere motivo di molta gioia, ma anche di molto impegno.  Mentre la prima e la seconda Lettura ci propongono il tema della gioia dell’incontro con il Messia, nel Vangelo di Luca, Giovanni Battista risponde alla domanda che cosa dobbiamo fare affinché l’incontro con il Messia sia un incontro gioioso, porti davvero “la gioia del Vangelo”.

Giovanni risponde proponendo l’esercizio della carità, della giustizia e della rettitudine nell’adempimento del nostro dovere.

Rallegrati e grida di gioia

Nella prima lettura, il profeta Sofonia, descrive la situazione di un piccolo gruppo di poveri e di fedeli che si sono convertiti, allontanandosi dall’idolatria, dalla superbia, dall’orgoglio e dall’autosufficienza, abbandonandosi all’amore misericordioso di Dio, alle sue disposizioni e volontà. Sofonia si rivolge dunque a questo resto d’Israele, agli anawîm i poveri del Signore, coloro che non si affidano alle proprie forze, ma pongono la loro fiducia in Dio. È a questi poveri del Signore che il profeta rivolge un invito insistente alla gioia: “rallegrati, grida di gioia, esulta e acclama con tutto il cuore …”.

Motivo di gioia è che Dio abita in mezzo al suo popolo, combatte a suo favore. E’ una gioia di salvezza, non una qualsiasi gioia, è la gioia di chi si è allontanato dall’idolatria, dalla superbia, dall’orgoglio e dall’autosufficienza per aprirsi a Dio accogliendo il suo progetto nella propria vita e andando verso gli altri. Possiamo dire che il vero motivo della nostra gioia e felicità è il fatto di sentirsi amati, perdonati e accolti da Dio.

Il profeta sottolinea nel contempo che questa gioia è reciproca: Dio anche gioirà per il suo popolo con il quale mantiene una buona relazione, finalmente un Dio che è felice per noi e con noi. Il profeta sottolinea tutto ciò con tre verbi: esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia come nei giorni di festa. Il Signore stesso è felice perché sarà lui stesso a rinnovarci con il suo amore. Se l’amore è vita, Dio ci rinnova con la sua stessa vita che è Gesù. La venuta di Gesù, in mezzo a noi, rinnoverà la nostra vita e il nostro amore.

Che cosa dobbiamo fare?

Il testo evangelico è la continuazione del brano della seconda domenica che parlava della predicazione di Giovanni Battista. Infatti, Luca afferma all'inizio che “Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”. Giovanni Battista stava preparando il popolo per l'imminente venuta del Messia, con tale predicazione, fa breccia nel cuore dei suoi uditori. Luca riporta per ben tre volte la stessa domanda “cosa dobbiamo fare” posta da tre tipi di persone e realtà diverse. Si deve notare come la domanda che fare?  Sia cara a Luca e mostri come la gioia del Vangelo debba diventare vita concreta e si traduca in una fattibile e reale condotta di vita. Infatti, i primi convertiti, dopo la Pentecoste, chiedono a Pietro “che cosa dobbiamo fare, fratelli?” Anche Paolo dopo l’incontro con il Risorto, aveva chiesto: “che devo fare, Signore?”.

Giovanni, nella sua predicazione, invita il popolo a tornare alla santità attraverso la metanoia, il cambiamento di comportamento, una conversione di vita. Questa proposta di conversione innesca nelle coscienze degli ascoltatori l'ardente desiderio di un modo nuovo e concreto di agire e di amare secondo l'azione stessa di Dio. Che cosa dobbiamo fare? La domanda su “che cosa fare” è esistenziale e concreta.  Giovanni, rispondendo alla folla, ai pubblicani e ai soldati, elenca azioni molto umane e concrete che devono essere fatte: carità, giustizia e la rettitudine nell’adempimento del dovere.

Le folle per prime pongono la domanda, il Battista esorta a vivere la solidarietà con i più poveri, non nella forma della comunione dei beni, ma come un invito a rinunciare al superfluo e consegnarlo ai più bisognosi.  Gesù dice: “chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”. Per Giovanni, come in tutta la tradizione biblica, i beni della terra sono a disposizione di tutti e sono per il benessere di tutti e dunque si devono con-dividere.

Il secondo gruppo sono i cosiddetti pubblicani, esattori delle tasse per l'Impero Romano, assai disprezzati dal popolo perché molti i corrotti. A questi Giovanni propone di “non esigere nulla di più di quanto vi è stato fissato” cioè il rispetto, l'esercizio della giustizia, devono chiedere ciò che è giusto senza arricchirsi ingannando gli altri.

Infine, sono i soldati a chiedere “e noi, che cosa dobbiamo fare?”. A loro Giovanni dice di non approfittare della loro situazione per maltrattare gli altri, di evitare ogni abuso e non cadere nella seduzione della cupidigia e della violenza.

Giovanni Battista non impone cose straordinarie, ma l'esercizio della carità, della giustizia e della rettitudine nell'adempimento del proprio dovere: l'impegno per le cose reali e quotidiane. Giovanni non chiede di rinunciare alle proprie professioni o classi sociali, ma di vivere onestamente in modo nuovo, perché con cuore e mente illuminati dalla luce del Vangelo. Questo è ciò che chiede anche a noi: la conversione passa anche attraverso quei piccoli gesti quotidiani, che possono assurgere a valore salvifico.

Il discepolo missionario è consapevole che occorre convertirsi, bisogna cambiare direzione di marcia e intraprendere la strada della giustizia, della solidarietà, della sobrietà e dell’onestà che sono, come ha detto Papa Francesco, i valori imprescindibili di una esistenza pienamente umana e autenticamente cristiana. La conversione è la sintesi del messaggio del Battista.

Realizziamo un piccolo presepe memoria di tutti i natali che si sono succeduti nella storia. È bene tornar bambini qualche volta e non vi è miglior tempo che il Natale, allorché il suo onnipotente fondatore era egli stesso un bambino. (Charles Dickens). Proseguiamo insieme il cammino dell’Avvento.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).

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