Giovedì 11 maggio è stato, secondo i partecipanti al primo incontro dei leader indigeni venezuelani a Roraima, un giorno storico che rimarrà nella loro memoria e che conserverà anche in quella dei loro popoli. In questo giorno si sono ritrovati nella Cappella Nostra Signora de Jardim Floresta (Cappella appartenente all'Area nella quale operano i Missionari della Consolata) per realizzare una giornata di formazione e informazione che si è conclusa per il popolo Warao anche in tempo di elezioni. Hanno partecipato cinquantatré persone delle popolazioni indigene Warao, Taurepan, E'ñepa, Kariña e Akawayo.

Gli obiettivi di questo incontro erano: informare i leader indigeni a proposito delle aree che lo stato di Roraima metteva a disposizione dei migranti indigeni; far conoscere i risultati del Primo Incontro Nazionale di Leaders indigeni che si è celebrato a Brasilia nel mese di Aprile; continuare nella organizzazione della popolazione indigena migrate in modo tale da garantire i loro diritti nel pieno rispetto della legislazione e accordi internazionali.

In questa intensa giornata sono stati presentati gli enti pubblici brasiliani che in diversi modi possono sostenere le organizzazioni indigene: la Funai (Fondazione Nazionale dei Popoli Indigeni); il Ministero della Donna; il Mjsp (Ministero di Giustizia e Pubblica Sicurezza); il Cndh (Consiglio Nazionale dei Diritti Umani); il Sesai (Segretariato Speciale per la Salute Indigena), l’Mpi (Ministero dei Popoli Indigeni) e l’Mpf (Ministero Pubblico Federale). Si è  ribadito che le popolazioni indigene migranti hanno un ruolo di primo piano nell'elaborazione, esecuzione e monitoraggio delle politiche pubbliche. Per questo è sorta la proposta che in ogni Stato siano eletti rappresentanti che possano occuparsi di temi legati a giovani, donne, casa, istruzione, salute, assistenza sociale, lavoro imprenditoriale e un Consiglio degli anziani.

Ogni gruppo etnico, a prescindere del numero di migranti, eleggerebbe un loro rappresentante e loro riporteranno alle rispettive comunità le decisione che saranno prese su ciascuno di questi temi. Inoltre, in rete, si faranno conoscere i risultati. In questo modo si spera che l’autogestione politica ed amministrativa delle comunità indigene potrà influire positivamente sulle politiche pubbliche locali.

Si è messo anche in evidenza l’urgenza di una mappatura e una localizzazione più precisa di quelle organizzazioni sociali locali esistenti nelle quali i migranti indigeni potrebbero partecipare e contribuire positivamente.

L’incontro di Brasilia si è concluso poco tempo fa ed è stato patrocinato dalla Organizzazione internazionale per le migrazioni. Per motivi economici la partecipazione di rappresentanti è stata più contenuta ma vale la pena sottolineare la presenza dei Missionari della Consolata come unico gruppo “alleato” non indigena. Il cammino è ancora lungo ma l’impegno continua.

*Padre Juan Carlos Greco ha lavorato in Venezuela con comunità indigena Warao che in questo momento accompagna nello stato del Roraima, in Brasile, dove molti di loro sono emigrati come conseguenza delle difficili condizioni del Venezuela.

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Carlo Zacquini è un fratello Missionario della Consolata che ha raggiunto l’Amazzonia brasiliana alla fine degli anni sessanta... e non l’ha mai abbandonata. Molto, nella missione del Catrimani, parla di lui.

Come è stato il tuo arrivo nelle missioni della Prelazia di Boa Vista

Quando sono arrivato non parlavo nemmeno portoghese, mi hanno dato una grammatica e un dizionario e ho dovuto cominciare da solo e senza aiuto ma non capivo niente. Dovevano essere certamente una buona grammatica e un buon dizionario ma non erano pensate per uno straniero: ci sarebbe stato bisogno di una guida o di una persona che mi potesse aiutare. Ho chiesto al nostro superiore di andare in una scuola della prelazia per assistere a qualche classe di portoghese assieme ai bambini ma lui mi ha risposto che non era necessario. Quindi sono stato assegnato a dei lavori manuali per i quali non avevo molto bisogno di usare il portoghese, la mia professione era meccanico aggiustatore ed ero andato là per montare una scuola professionale,  e così lavoravo dalla mattina alla sera. 

Gli indigeni li ho scoperti quando alcuni di loro, di passaggio in città, tendevano le loro amache in un portico della Prelazia e si alloggiavano da noi. Loro venivano in città cercando di risolvere alcuni problemi e dovevano ricorrere alle istituzioni statali incaricate degli indigeni, si trattava quasi sempre di funzionari che non risolvevano un bel niente. L’unico appoggio esterno che ricevevano era quello della chiesa e per quello si fermavano con noi.

Loro parlavano un portoghese molto elementare e quindi io riuscivo a capirli magari anche meglio degli altri; anni dopo vennero pubblicati in un libro chiamato “Ritorno alla Maloca” tanti dei loro racconti che il padre Silvano Sabatini aveva registrato. Ricordo la testimonianza di un leader che era venuto in città per recuperare una giovane donna che una famiglia aveva portato a Boa Vista con tantissime promesse, poi alla fine tutte disattese, ma che alla fine lavorava gratuitamente nella casa.

Molto presto mi sono innamorato della causa degli indigeni e della missione in mezzo a loro. La prima volta che ho abbandonato la città è stato per raggiungere un gruppo di indigeni non contattato che era stato avvistato: li abbiamo potuti raggiungere e siamo stati con loro tre giorni. È stata una cosa veramente fantastica: io sono rimasto super impressionato da questa esperienza e da quel momento ho cercato di fare tutto quello che era possibile per poter andare a lavorare con questa popolazione.

La missione del Catrimani

Quella missione, dove ho passato tutta la mia vita missionaria, è stata fondata quando io ero già là ma stavo lavorando alla famosa scuola che era stato il mio primo lavoro. I primi missionari nella missione del Catrimani sono stati p. Giovanni Calleri e p. Bindo Mendolesi che erano partiti alla fine del 1965. Loro con delle barche e un certo numero di uomini, la maggior parte di loro indigeni, avevano disceso il Rio Branco e risalito il Rio Catrimani, superando anche rapide e cascate, fino a un certo punto dove decisero fermarsi e organizzare una prima sede della missione aprendo anche una piccola pista di atterraggio. Gli indigeni erano nei paraggi ma non vicino al fiume grande anche perché quello è il regno di una quantità straordinaria di zanzare che fanno, per dirlo nel migliore modo possibile, la vita quasi impossibile. Questo gli indigeni lo sapevano e invece noi no. Io usavo pantaloni lunghi, mettevo le calze sopra i pantaloni, usavo anche camicie con maniche lunghe e anche così non ero al sicuro del tutto. 

Quando io raggiunsi quella missione, pochi mesi dopo essere stata aperta, c’era già la pista che si poteva usare, anche se poi ho dovuto lavorarci non poco per metterla in buone condizioni. Ero andato là perché Calleri era andato via e il padre Bindo era anche parecchio stanco: non riusciva a imparare la lingua e non riusciva nemmeno a cominciare a battezzare e far catechesi; per lui quella non era una missione.

Mi avevano mandato per fargli compagnia durante un mese e alla fine di quel mese ci sarebbe stata la visita canonica che avrebbe dovuto prendere delle decisioni con rispetto alla nuova missione. Quando arrivò l’aereo che doveva portare i visitatori da quello scendono il superiore generale Fiorina, il vescovo, il superiore regionale... c’era spazio solo per il padre Bindo che aveva l’intenzione di tornare a Boa Vista. 

Non era per niente facile rimanere là. Anche a me sarebbe piaciuto dire che volevo tornare a Boa Vista ma né ebbi il coraggio di farlo soprattutto perché temevo che se l’avessi fatto forse non mi avrebbero più rimandato indietro e io ci tenevo a continuare quella avventura.

Loro rimasero con noi non più di due o tre ore; in quel tempo il padre Fiorina, Superiore Generale, mi convocò nella baracca di paglia che era la nostra casa e mi chiese se volevo rimanere in quella missione. Quando dissi di sì la mia consacrazione al Catrimani era completa. Certamente avrei magari anche dovuto dire che erano finite le munizioni per la caccia così necessaria per mettere qualcosa sotto i denti; anche la baracca non era stata ben costruita, aveva il tetto troppo alto e quando pioveva forte ci pioveva dentro;  anche la barca aveva problemi... ad ogni modo accettai la decisione e non aggiunsi nient’altro; le cose materiali si sarebbero poco a poco sistemate. 

Oggi se dovessi rifarlo lo rifarei esattamente allo stesso modo, volevo rimanere con quella gente della quale tra l’altro capivo ancora abbastanza poco. Non ero affatto preparato per quell’incontro, per quella cultura, per studiare una lingua sconosciuta (non si sapeva di qualcuno che l’avesse studiata e se magari questi studi ci fossero noi non ne avevamo accesso). Addirittura non sapevo nemmeno come si chiamasse questo popolo: si usavano nomi comuni e generici per indicarlo.

Che si chiamassero Yanomami... l’ho saputo quando un giorno, mentre stavo sistemando delle cose nella mia baracca, ho sentito due uomini adulti che parlavano fra di loro e sembrava stessero indicando loro stessi con questo nome. Li ho interpellati e mi hanno confermato il nome e anche detto che tutti gli altri, me compreso, si chiamavano Nap. Era la prima volta che sentivo quel nome, dopo vari mesi. Chissà quante volte avevano detto quella parola anche in mia presenza, ma io non l’avevo mai percepito. Nap era per indicare persone straniere e anche persone pericolose.

Quando sono tornato a Boa Vista la prima volta ero così malconcio che mi hanno subito portato all’ospedale dove sono rimasto due mesi. Appena mi hanno dimesso sono partito in fretta e furia per comprare alcune cose di cui avremmo avuto bisogno nella missione e sono ritornato.

Il primo anno sono stato alla fine quasi tutto l’anno da solo fino a quando mi ha raggiunto il padre Saffirio. Erano quelli i giorni in cui il padre Calleri, che si era imbarcato in una missione pericolosa, aveva smesso di comunicare via radio e si stava temendo il peggio. La prima notizia della morte di Calleri io la seppi dalla radio “Voice of America” che era l’unica che si poteva sentire. Poche settimane dopo il silenzio radio la sua spedizione venne ritrovata massacrata.

Con il padre Saffirio abbiamo fatto abbastanza tempo assieme e assieme è un modo di dire perché quando io dovevo tornare a Boa Vista per essere curato all’ospedale Saffirio era nel Catrimani. Poi magari ci davamo il cambio, io al Catrimani e lui all’ospedale. Era davvero una missione difficile. Oggi noi là abbiamo una piantagione e prodotti che possiamo coltivare, raccogliere e consumate ma allora si era al principio e non c’era niente di tutto questo. Nemmeno gli Yanomami coltivavano alcunché. Da buoni cacciatori e raccoglitori, ogni giorno andavano in foresta per raccogliere o cacciare quello di cui avevano bisogno per sfamarsi. Al principio io li seguivo con la mia calibro 22 che è risultata essere abbastanza efficiente: tutto quel che cadeva dagli alberi era commestibile; il frutto della cacciagione si divideva fra tutti con un criterio tipico degli Yanomami.

Noi poco a poco abbiamo introdotto anche “rinnovamenti” nei costumi degli Yanomami: utensili, strumenti di lavoro per l’agricoltura. Ci eravamo anche inventati una specie di “moneta interna”: dei piccoli cartellini colorati che erano consegnati a cambio di lavoro o servizi prestati. Le buste erano tutte assieme ma nessuno ha mai pensato sottrarre ad altri i cartellini... per la loro mentalità tutto era per la comune utilità. 

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Immagine di una comunità Yanomami. Foto Sabatini. Archivio IMC

Come vedi il futuro del popolo indigeno a Yanomami?

Non è un futuro affatto facile... in tutti questi anni si è fatto proprio di tutto per eliminarli in qualche modo: l’abbandono, l’invasione delle terre, la contaminazione dei fiumi, lo sfruttamento minerario, la mancanza di servizi... tutto congiura contro i popoli indigeni amazzonici come gli Yanomami.

Certamente tanto è stato fatto come per esempio quella campagna internazionale per mezzo della quale si è giunti al riconoscimento e alla protezione del loro territorio ancestrale che è il più grande del Brasile. Quindi ci sono tutti gli strumenti legali... ma non sempre sono rispettati. In modo drammatico, soprattutto durante il governo Bolsonaro che era un nemico giurato degli indigeni, si stava cercando di annullare tante conquiste.

La strada che il governo militare aveva costruito nelle prossimità di questo territorio, era costata milioni di dollari e l’abbiamo sfruttata anche noi (e in parte anche mantenuta) per non dipendere troppo dai taxi aerei che erano costosi, incerti e a volte anche pericolosi. Ma alla fine abbiamo rinunciato perché era diventata la via di ingresso di ogni genere di cose e persone che venivano a fruttare le ricchezze dell’Amazzonia e a distruggere l’unico ambiente nel quale gli Yanomami possono vivere degnamente. La situazione a volte degenerava a tal punto che c’erano anche stati degli scontri armati ai quali gli Yanomami non prendevano opporsi né per numero né per capacità militare ed erano costretti a fuggire.

È difficile dare una dimensione a questo sterminio e a queste morte: non esiste un censimento sicuro del numero di indigeni e nemmeno un registro delle causa di morte.

Dopo il periodo terribile di Bolsonaro è arrivato il governo di Lula che, pur non essendo specialmente sensibile alla situazione indigena anche perché le sue estrazioni sono molto diverse, si è dichiarato a favore delle minoranze etniche ed è disposto a riparare molti dei danni che sono stati fatti. 

Non sarà facile, sarà un lavoro duro e anche molto lungo: ci sono poche persone preparate per poter risolvere certi problemi in mezzo a una popolazione come quella; ci sono molti medici che si offrono come volontari per andare, ma non sanno cosa fare; la mancanza di interpreti e di una minima conoscenza di questa popolazione tante volte è perfino controproducente. Io spero solo che possano persistere in questa lotta perché la situazione è terribile e i bambini continuano a morire.

Poi bisogna anche sottolineare che, malgrado le buone intenzioni del governo, in varie occasioni la polizia non è riuscita a mandare via i garimpeiros. Loro sono ben organizzati, ben armati e sufficientemente protetti. Le minacce sono all’ordine del giorno e fanno desistere o posticipare azioni che sarebbero necessarie ed urgenti. La legge è bella ma come sempre quando il danneggiato è un povero che non ha peso politico, militare ed economico... allora non sempre si applica come si dovrebbe. 

Sogno Amazzonico

"L'amata Amazzonia appare davanti al mondo con tutto il suo splendore, il suo dramma, il suo mistero" (QA, 1). 

Con questa illuminazione è nata la voglia di immortalare la bellezza della nostra amata Amazzonia e l’abbiamo fatto per mezzo di un colorato mural. Io sono un giovane a cui piace molto dipingere e creare spazi e momenti creativi, quindi, quando ho visto un grande muro bianco nel nostro Noviziato, la mia mente si è messa a lavorare ed è nata la proposta di realizzare un disegno allegorico che rappresentasse la presenza di Dio nella nostra Amazzonia.

Mi sono ispirato in immagini esistenti per pensare a un contenuto nuovo da esprimere nel nostro mural. Inizialmente avevo pensato in tre rappresentazioni separate che raccoglievano immagini che appartenevano ai nostri popoli nativi, ma poi, dopo essermi confrontato con il maestro e gli altri membri della comunità, sono arrivato alla conclusione che sarebbe stato meglio una sola rappresentazione che unisse tutti gli elementi. Tutti i membri della comunità hanno partecipato nella sua realizzazione: i miei fratelli novizi Ángel e Johan, fratel Tarcisio e il maestro padre José Martin, ci sono stati suggerimenti, collaborazioni e siccome la stessa Amazzonia è segno di diversità e comunità, anche questo lavoro in qualche modo lo era.

Il risultato finale ha una forma di cuore ed è composto da molti elementi che appartengono alla nostra fede e all’ambiente amazzonico nel quale è immerso il nostro noviziato. Quest'opera cerca di risvegliare «il senso estetico e contemplativo che Dio ha messo in noi e che a volte lasciamo atrofizzare» (QA, 56). Ve la presento per parti:

SUL LATO SINISTRO si può vedere la figura di una donna, che rappresenta la Vergine Maria, dipinta con tratti indigeni, perché nostra Madre è sempre vicina ai suoi figli: la Madre che Cristo ci ha lasciato, pur essendo l'unica Madre di tutti, si manifesta in Amazzonia in modi diversi» (QA, 111). Sulla testa ha tre piume che rappresentano la sua verginità prima, durante e dopo la gravidanza.

Attorno ci sono dipinte tre farfalle che volano nel cielo; loro rappresentano l'umiltà, la purezza e l’ubbidienza, le virtù della nostra amata Madre che siamo invitati ad imitare, insieme ad altre che nel mural sono rappresentate dai fiori colorati. 

In braccio ha un bambino che non è solo Gesù ma rappresenta tutti i suoi figli adottivi, ai quali offre conforto e amore. L’Ara, uccello tipico dell'Amazzonia, vuole rappresentare lo Spirito Santo, che feconda, rafforza e fa fruttificare non solo il grembo di Maria ma anche il grembo delle madre terra e delle culture che popolano questo grande polmone vegetale.

SUL LATO DESTRO troviamo l’immagine Gesù Risorto. È dipinto sovrapposto alla mappa dell'America Latina e ci ricorda le sue stesse parole: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). Anche se risorto questo Gesù è sagomato come una croce per dirci che non c'è risurrezione, né vita nuova, senza croce e sofferenza. Anche questo Gesù presenta lineamenti e un pennacchio indigena, segno di autorità, che ci vuole ricordare la corona piena di Gloria che non appassisce e per la quale dobbiamo tendere (cfr 1 Pe 5,4).

La mappa dell'America Latina è dipinta con i colori primari, da cui derivano tutti gli altri colori, e questi vogliono rappresentare l’identità e allo stesso tempo il pluralismo e la diversità di paesi, culture e realtà del nostro continente. Il colore verde presente ci ricorda il grande polmone vegetale e altre zone selvatiche e boschive, presenti in questa porzione di mondo. 

Il fiume che attraversa la mappa ci ricorda che “in Amazzonia l’acqua è la regina, i fiumi e i ruscelli sono come vene, e ogni forma di vita origina da essa... l’acqua abbaglia nel gran Rio delle Amazzoni, che raccoglie e vivifica tutto all’intorno... [citazioni di testi poetici di Euclides da Cunha, Os Sertões (1946) e Pablo Neruda, Amazonas in canto general (1938) riportati in QA 43-44]. Queste acque confluiscono in Gesù, quindi, gli indigeni nella canoa si dirigono verso Lui, che è la fonte della Vita Eterna.

Il Tucano, appollaiato su un ramo, è un uccello sacro nelle tradizioni di molti popoli indigeni e permette il legame fra il mondo dei vivi e quello dei morti, la sua presenza ci ricorda il coraggio e la fatica dei nostri antenati, l'eredità che da loro abbiamo ricevuto come segno di ricchezza culturale, ricerca di migliori condizioni di vita e opposizione ad ogni oppressione. 

Anche in questo segmento del mural sono dipinte tre farfalle che rappresentano i pilastri della nostra fede: scrittura, tradizione e magistero.

Ci sono anche cinque frutti di guaranà, una frutta tipica dell'Amazzonia, molto apprezzata dagli indigeni brasiliani ancora molto prima dell'arrivo dei portoghesi, consumarla aumenta la resistenza negli sforzi mentali e muscolari. La loro particolare forma ad “occhio aperto” ci ricorda l’importanza della scrittura: le quattro vicine all’immagine di Gesù crocefisso e risorto rappresentano i vangeli e invece la quinta, più discosta, ci ricorda l'apostolo Paolo, grande predicatore del Vangelo. Sono rappresentati come occhi aperti perché esprimono la testimonianza di coloro che hanno visto con i loro occhi e l'incontro splendido di quegli uomini e donne che hanno incontrato il Risorto. Come lo ricorda la Dei Verbum  “i Vangeli costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore” (n.18)

NELLA PARTE CENTRALE c’è un cuore che batte come segno di vitalità e forza. Ci ricorda le parole che il Signore comunicò al profeta Ezechiele: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26).

Dallo stesso cuore sgorgano acqua e sangue a simboleggiare la misericordia di Dio per l'umanità attraverso suo figlio Gesù, rappresentato da un pesce (simbolo che i primi cristiani utilizzavano per parlare di Gesù). Dallo stesso cuore poi, nella parte superiore, appare una mano che ci parla di lavoro e di un Dio Padre che si prende cura e risolleva i popoli sofferenti. 

hanno un valore simbolico anche le persone che sono rappresentante in questa parte del mural: un giovane e un anziano (la lotta e la saggezza dei popoli indigeni); una giovane donna e una adulta (la purezza e la bellezza dei popoli indigeni e della loro vocazione comunitaria). 

A loro volta sono presenti 2 uomini, 1 giovane e 1 anziano, che rappresentano, e 2 donne, 1 ragazza e 1 adulta, che rappresentano  arricchiti dalla grande cultura della comunità senso.

Tutti insieme ci ricordano che “la lotta sociale implica una capacità di fraternità, uno spirito di comunione umana” che vediamo nei popoli originari dell’Amazzonia. “Essi vivono così il lavoro, il riposo, le relazioni umane, i riti e le celebrazioni. Tutto è condiviso; la vita è un cammino comunitario dove i compiti e le responsabilità sono divisi e condivisi in funzione del bene comune. Non c’è posto per l’idea di un individuo distaccato dalla comunità o dal suo territorio” (QA 20)

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Infine, nella parte superiore del mural si intravede un cielo azzurro, che ci ricorda la meta e destinazione finale di tutto il nostro camminare, un cielo che è comunque vincolato con il verde delle foglie nella parte inferiore, simbolo di Speranza. Tutta la diversità dei colori rappresenta la diversità di culture, tradizioni, popoli ed esperienze che compongono la bellissima Amazzonia.

* Jhonny González è un novizio venezuelano del Noviziato San Óscar Romero dei Missionari della Consolata a Manaus

Domenica sono stato a “Tierra Colorada”, una zona montuosa dove vive la nostra comunità di indigeni Tseltal. Si trova a un'ora e mezza di macchina dalla nostra parrocchia.

In comunità abbiamo parlato di promuovere la nostra presenza in mezzo a questo popolo indigeno, perché finora abbiamo praticamente fatto come con le altre cappelle e non si può continuare così: io ho già letto tre volte il Vangelo nella loro lingua (con il mio accento di Zaragoza) e loro ora leggono nella loro lingua, perché finora lo hanno sempre fatto in spagnolo.

Dopo l'Eucaristia ho avuto un incontro con loro in cui abbiamo parlato delle sfide che come comunità devono affrontare: una strada decente, il dramma dell'acqua, il basso livello di scolarizzazione, l'assenza di sistemi sanitari, lo sradicamento culturale (perché loro sono sfollati da Tenejapa, un comune di San Cristóbal de las Casas), la precarietà economica nonostante l'ottimo caffè che producono, il numero di persone senza documenti d'identità e certificati di nascita, la sfida ecologica (il luogo in cui vivono è una riserva naturale: da più di 30 anni stanno aspettando essere trasferiti altrove, ma senza successo).

Ma ciò che più mi ha colpito è stata la profonda divisione fra diversi gruppi religiosi: cattolici e protestanti in primis. La cosa è così grave che se l'Associazione dei Genitori era d'accordo a migliorare la strada, gli altri si opponevano per ragioni che non ho capito al di là delle profonde divisioni che vivevano.

Tra un paio di settimane terremo una riunione con i responsabili della nostra comunità e della parrocchia, affinché questa opzione per i nativi non appartenga ai Missionari ma a tutta la comunità. Vediamo se possiamo camminare insieme, sinodalmente.

Ieri mattina sono stato con il responsabile della pastorale degli indigeni della diocesi, che è membro della comunità Zoque, e si è rallegrato della nostra iniziativa perché dice che c'è poca sensibilità in questo senso. Camminare in comunione, lentamente ma intuendo la strada. 

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Ieri è stata una giornata importante per il nostro impegno nei confronti del popolo Tseltal della nostra parrocchia. Abbiamo avuto un primo discernimento comunitario sulla nostra presenza in questa comunità.

Erano presenti i leader della comunità Tseltal, anche colui che era stato loro presidente fino a un mese prima e una coppia Tseltal che vive nella città di Tuxtla ma originaria di questa comunità; c’era la moglie di uno dei leader della comunità, un responsabile della Pastorale sociale della parrocchia, il rappresentante del gruppo di studenti universitari e professionisti della parrocchia; abbiamo ottenuto anche la partecipazione del responsabile diocesano dei popoli nativi e poi c’eravamo il parroco e io.

Abbiamo cercato di sottolineare l'unicità della loro presenza nella nostra parrocchia e l’importanza che la loro cultura trovi uno spazio per esprimersi nella parrocchia e nella diocesi. Ci siamo scambiati idee su temi di formazione umana e cristiana e, in questo campo, il valore di avere colloqui differenziati per bambini, uomini e donne, per poter approfondire alcuni argomenti.

È stato un primo passo. Per il momento, sono presente in quella comunità la prima e la terza domenica del mese, ma la prospettiva è quella di arrivare a soggiorni più prolungati. È stato un piccolo passo per l'umanità, ma un primo grande passo per noi.

 

La comunità della parrocchia di San Miguel Arcángel, nella località di Yuto, provincia di Jujuy (nord dell’Argentina), è una missione marcata da una forte interculturalità. La maggior parte della terra produttiva di questa regione, popolata da poco più di ottomila abitanti che vivono distribuiti nei villaggi di El Bananal, El Talar, Vinalito e Caimancito, è destinata principalmente alla coltivazione di canna da zucchero, avocado e banane. 

Dove sono le popolazioni indigene?

Se c'è una cosa che identifica chiaramente i popoli indigeni è la profonda integrazione con il territorio nel quale vivono e dal quale traggono il loro sostento: l'attività produttiva, necessaria per vivere, non è separata dal loro essere.

Questa prospettiva è fondamentale per comprendere le trasformazioni e gli adattamenti che i popoli indigeni subiscono quando gli Stati avanzano e occupano i loro territori con coltivazioni di carattere industriale. In questo caso il lavoro produttivo non è più solo destinato alla sussistenza, come succede con gli indigeni, ma acquisisce le caratteristiche dello sfruttamento intensivo, segno distintivo dell'economia capitalista.  

Per questo, quando si visita questa regione, al principio è difficile notare la presenza di popolazioni native perché si percepisce a primo acchito una comunità popolata da "cittadini argentini" che vogliono e devono essere inseriti nelle strutture di protezione statale e di assistenza sociale. Eppure si tratta di una società che è ben lontana dall'essere omogenea; la popolazione comprende creoli, collas, guaraníes, wichis, ocloyas, churumatas, chanés, tulián, tobas, tapiete e quechuas (provenienti dal Perù), tutti gruppi etnici la cui presenza è stata registrata nei censimenti nazionali del 2001, 2010 e 2022.

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Anche le popolazioni indigene sono in movimento

Secondo uno studio dell'Università di San Martín, la maggior parte della comunità indigena Guarani si è spostata negli ultimi 100 anni alla ricerca di un luogo che permetta loro di vivere secondo il loro peculiare stile di vita; si sono mossi alla ricerca di quello che chiamano “ñande reko”, la terra che permette loro di vivere in sintonia con la natura che li ha generati. 

Questa regione, originariamente caratterizzata da un fitto bosco di montagna con diversità di flora e fauna, aveva queste caratteristiche: consentiva caccia e raccolta, era attraversata da corsi d'acqua per la pesca e offriva anche terreni adatti alle coltivazioni.

La strategia di sopravvivenza dei Guaraní consisteva precisamente nell'addentrarsi sempre di più nella giungla per allontanarsi dalla frontiera tracciata dal disboscamento e dagli incendi. 

Questo non è più stato possibile quando lo sfruttamento della canna da zucchero ha ridotto drasticamente il terreno selvatico e boschivo, e a questo punto i Guaraní non hanno avuto altra alternativa che scambiare le loro terre con terreni prossimi alle incipienti città.

Riconosciamo il dolore che affligge queste persone, nella voce delle loro storie che abbiamo raccolto in un incontro con alcuni di loro: "non ci sentiamo Guaraní"; "ci vergogniamo e siamo feriti dall'abbandono"; "i datori di lavoro non ci danno il permesso di celebrare le nostre feste: non c'è tempo e a volte nemmeno il Comune ci concede uno spazio adeguato"; “abbiamo dovuto costringere i nostri figli a imparare lo spagnolo per superare molte barriere sociali; ora i nostri figli e nipoti riescono a malapena a parlare la nostra lingua".

Molte piccole persone, in piccoli luoghi, facendo piccole cose, possono cambiare il mondo (Galeano).

Nell'ultima conferenza dei Missionari della Consolata che lavorano in Argentina abbiamo sottolineato che uno spazio privilegiato “ad gentes” per la nostra comunità è il lavoro e l’impegno a favore dei popoli originari del paese. Per questo motivo è stata aperta la parrocchia di San Miguel Arcángel, con la sua peculiare e significativa composizione etnica. I padri Antonio Gabrieli, Antonio Merigo, Thomas Ishengoma, Pedro Togni, Roger Kiwuango, Juan José Olivarez e Iga, sono i missionari che hanno lavorato in questa missione.

Fare l'opzione preferenziale per i popoli nativi, è per noi un impegno qualificato che non significa abbandonare il resto della popolazione, ma crescere nell'interculturalità assumendo la differenza e la diversità.

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Linee pastorali

Attualmente, molto lentamente e con molti sforzi, stiamo passando da una missione "per" il popolo Guaraní a una "con" il popolo Guaraní. Insieme ai nostri collaboratori (catechisti e laici) vediamo la necessità di: 

- Fare processi di discernimento e riflessione per aprire spazi in cui la comunità e le persone si ritrovino in armonia con il Creatore, la Creazione e la Creatura.

- Impegnarsi in cammini di riconciliazione che rispondano all'alto tasso di suicidi di cui soffre la comunità. Cercare la riconciliazione con se stessi e con le famiglie.  

- Unire e armonizzare la fede con la vita quotidiana: vogliamo che la stessa catechesi per bambini rispetti il tempo necessario per un vero sviluppo spirituale. 

- Accompagnare i novenari dei defunti e rivalutare il ruolo della preghiera che, al momento della morte, è capace di celebrare la vita. 

Queste azioni sono il primo passo per un vero processo di evangelizzazione. Il carisma del beato Giuseppe Allamano ci invita ad accompagnare questi popoli in unità di intenti. Nel silenzio di chi non ha voce, possiamo imparare nuove parole per la vita. 

* Thomas Ishengoma e Juan José Olivarez sono missionari della Consolata in Argentina; Diana Sosa è insegnante

 

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