Il «marco temporal» (limite temporale) è la tesi giuridica secondo la quale i popoli indigeni avrebbero diritto soltanto sulle terre occupate (o contese) alla data limite del 5 ottobre 1988, giorno di promulgazione della nuova Costituzione brasiliana. Il 20 ottobre di quest’anno Lula aveva posto il veto, totale o parziale, su 24 dei 33 articoli del progetto legislativo 2903/2023 che lo prevedeva, bocciando gran parte dei punti più gravi.

Ebbene, giovedì 14 dicembre 2023, il Congresso nazionale ha annullato la maggior parte dei veti di Lula sul quel disegno di legge 2903/2023. In totale, 41 dei 47 punti analizzati in plenaria sono stati respinti da senatori (53 contro 19) e deputati (312 contro 137). In pratica, solo sei dei punti posti dal veto di Lula sono stati mantenuti. Ora, le decisioni su cui era stato posto il veto verranno incorporate nella legge 14.701/23, che ristabilisce il «marco temporal» in materia di diritti dei popoli indigeni.

Alla luce di quanto accaduto la domanda è: chi governa il Brasile? Purtroppo, Lula ha molto successo all’estero, piace per i suoi discorsi progressisti, ma in patria ha molta difficoltà a mettere in pratica i suoi propositi. Insomma, deve fare i conti con un Congresso in cui prevalgono impresari, latifondisti, conservatori, reazionari. Il presidente vorrebbe, finalmente, trattare i popoli indigeni con rispetto, ma gli interessi dei parlamentari sono contrastanti e finiscono per prevalere. Addirittura sulle decisioni della Corte suprema che aveva dichiarato incostituzionale la tesi (assurda) del «marco temporal».

Senatori e deputati federali si sono dati da fare e hanno approvato un’altra volta la stessa tesi. Di fronte al rifiuto di accettarla da parte del presidente Lula, non hanno esitato a ribadirla, aggravando la situazione con varie altre questioni che dimostrano – per l’ennesima volta – quanto costoro disprezzino gli indigeni e li trattino come ostacoli da abbattere.

A cosa serve un ministero dei Popoli indigeni (quello retto da Sonia Guajajara), se non riesce ad ottenere i mezzi necessari per funzionare? La stessa cosa avviene per la Funai guidata da Joenia Wapichana. Un esempio: la mortalità tra gli Yanomami è oggi maggiore che negli anni di Bolsonaro anche se i piccoli ambulatori nella foresta – occupati, distrutti o abbandonati durante il governo precedente – sono stati riaperti. Quanto alla Polizia federale, dopo un inizio promettente, ha quasi abbandonato il compito di scacciare gli invasori dalla Terra indigena Yanomami. Pare che i militari non vogliano far parte di questa operazione, soprattutto a Roraima dove i politici locali – legati a doppio filo con i garimpeiros (cercatori d’oro) – sono contrari a queste operazioni.

La maggioranza degli elettori brasiliani si sono dati da fare per togliere di mezzo Bolsonaro, ma i restanti – spesso ingannati da una propaganda menzognera – hanno eletto uno stuolo di congressisti con la sua faccia.

Teoricamente, la Corte suprema potrebbe sentenziare che anche la nuova legge è incostituzionale, ma è improbabile che essa proceda contro tutto quello che i parlamentari hanno approvato. Per ora, la sola certezza è che essi hanno dichiarato apertamente guerra ai popoli indigeni. E pare non provino neppure vergogna.

Il rumore degli alberi che cadono o che, senza cadere, espellono brutture e suscitano rifiuto, può essere modulato e compensato dalla meraviglia quotidiana delle persone buone che, con discrete azioni eroiche, rendono bella la vita. Nel caso del vescovo, Joaquín Pinzón, la Chiesa mostra il suo volto più gentile in mezzo a tante turbolenze.

Joaquín è un uomo ancora giovane, anche se da dieci anni è il primo pastore del Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo-Solano, nell'Amazzonia colombiana. Fa parte dei missionari della Consolata, la congregazione che dalla metà del secolo scorso percorre questi territori coraggiosi ed emozionanti; e non ha smesso di essere missionario.

Arrivando a Leguízamo, mi abbraccia trasmettendo sincerità e giovialità. Si assicura che tutti i dettagli dell'alloggio siano pronti. Osservo come accoglie chi arriva per la “Minga Amazónica Transfronteriza”. Con questo carattere semplice, discreto e aperto, credo che ogni persona si senta considerata e importante con Joaquín. Questo è ciò che fa naturalmente chi è umile e attento.

Sono qui in rappresentanza del mio vescovo, ma non sono un vescovo. E Joaquín si preoccupa di far sì che il mio Vicariato abbia il suo posto e che io possa intervenire quando è opportuno, superando con delicatezza questa differenza di funzioni o di gradi di autorità. Lo fa con gesti concreti e soprattutto con il suo modo di fare semplice, schietto, cordiale e non invadente. Sul suo petto, la croce di legno calza a pennello.

Andiamo a Puerto Lupita per celebrare i sacramenti, compresa la Cresima. Joaquín indossa cappello e scarpe da ginnastica, sale sulla barca e fin dal primo momento si vede che è nel suo elemento con la gente. Conversando, ridendo... non c'è gravità in lui né solennità e invece c’è vicinanza e la gente lo percepisce con il suo infallibile intuito.

Infatti, nonostante la folla e il rumore, il caldo soffocante, le poche sedie e i bambini ovunque, Joaquín non fa un brutto gesto, sorride sempre, spiega con calma. Alla fine della messa, si mette in posa con infinita pazienza per le mille foto che vogliono essere scattate con il vescovo; e anche se cerchiamo di scappare, ci costringe a essere lì anche noi. Nessuno può sentirsi spiazzato vicino a lui.

Vuole che sia io a battezzare e a guidare la celebrazione. Il giorno dopo, a Soplín, il giorno dell'inaugurazione della nuova casa dei missionari e dell'ampliamento della cappella, insiste perché sia io a tenere l'omelia, perché siamo "nella mia giurisdizione", anche se logicamente è lui a presiedere. Tutto scorre, siamo orgogliosi di essere insieme e di essere chiese gemelle, su entrambe le sponde del fiume che ci unisce.

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In un'altra occasione siamo andati a celebrare la festa patronale di Yarinal, un vero santuario della Consolata a Putumayo. Joaquín guidava una barca con più di trenta persone. All'Eucaristia, anche se eravamo dalla parte colombiana, mi chiese di dire qualche parola. Dopo il pranzo, Joaquín ha proposto di giocare una partita a basket, e abbiamo fatto un “casino terribile” sotto il sole violento delle due del pomeriggio: abbiamo sudato, ma abbiamo riso, scherzato e ci siamo divertiti, e il vescovo è stato il primo, come uno di noi.

In questi giorni ci sono anche riunioni in cui si discute, soprattutto, di come garantire che l'équipe di Soplín rimanga consistente anche l'anno prossimo. Joaquín ascolta con competenza e, quando è il suo turno, parla in modo franco e chiaro, con un'assertività ornata di gentilezza che genera spontaneamente fiducia.

È domenica sera e non c'è la cuoca. Joaquín prepara dei panini al prosciutto e al formaggio perché alcuni missionari e ospiti sono riuniti a tavola. Chiede di qualcuno che manca, dove andrà a mangiare? Ci sono ancora dei panini da distribuire e ci invita a continuare a mangiare; a me tornano in mente i ricordi della nonna nel suo insistente invito, e mi rendo conto che questo è forse uno dei migliori complimenti che gli posso fare.

Quella di Joaquín in generale, è una vita e un'azione molto simile a quella di Gesù: gentile, non ostentata, lontana dall'ostentazione ed esperta nel servizio. Sono questi i pastori di cui abbiamo bisogno, quelli che sono in sintonia con una Chiesa sinodale, concreta e missionaria, e con questi atteggiamenti la tessono.

(Fonte. Religión digital)

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