Abbiamo appena vissuto nella Chiesa colombiana un evento che non voglio perdere, che ci riempie di speranza e che segna la nostra storia: l'ordinazione del primo vescovo nero del Paese, monsignor Wiston Mosquera Moreno.

Quello che voglio fare qui non è dare la notizia, sicuramente ha già fatto il giro del mondo e i miei lettori la conoscono, ma riflettere sulla vita della Chiesa e cercare di vedere, con la lente d'ingrandimento della fede, le intenzioni dello Spirito Santo in questo evento.

Per questo voglio riportare alcune delle cose che ho sentito mentre seguivo la cerimonia, presieduta dall'arcivescovo di Cali, Luis Fernando Rodríguez Velásquez, che si è svolta nella chiesa cattedrale di San Pedro Apóstol.

Il sacerdozio di Doña María Jerónima Moreno, madre del nuovo vescovo

È stato commovente vedere Doña María Jerónima Moreno, di 99 anni di età, consegnare suo figlio a Dio e riceverlo come un altro Cristo; l'offerta che la donna ha fatto e deposto sull'altare di quella cattedrale era stata preparata 57 anni prima, lì ad Andagoya, nel profondo Chocó, sull'altare della vita, quando l'ha concepito e partorito, quando l'ha allattato con il latte e la fede, e poi quando ha lavorato perché il ragazzo e il seminarista potessero crescere e ascoltare la chiamata del Signore e dei poveri.  In lei, seduta sulla sua sedia a rotelle, si poteva vedere la dignità del popolo nero, una dignità fatta di umiltà, resilienza, celebrazione, lotta e amore di Dio (…). 

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Doña María Jerónima Moreno, di 99 anni di età, madre del nuovo vescovo di Quibdó.

Senza la messa di sua madre, senza il suo donarsi per amore ogni giorno, non avremmo avuto la messa del nostro fratello Winston, che ora è il nuovo vescovo di Quibdó. Quella madre del Chocó rifletteva nella chiesa, in mezzo a tanti vescovi e sacerdoti, tutta la bellezza del sacerdozio di Cristo, il dono di sé, l'amore fino all'estremo; la sua pelle nera, già rugosa d'amore, era il migliore dei paramenti che si indossavano in quel momento.

Dopo questa consacrazione episcopale, la Chiesa in Colombia è più cattolica

È stato un altro il sentimento che mi ha travolto mentre seguivo la cerimonia; per i miei molti anni in Africa, tra i Samburu e i Turkana del Kenya, ho un cuore nero e sono addolorato per l'esclusione che ha caratterizzato il nostro Paese e si è riflessa anche nella Chiesa. Nei suoi versi il poeta venezuelano Andrés Eloy Blanco diceva all'artista che decorava i templi: “Ogni volta che dipingi chiese, dipingi bellissimi angioletti, ma non ti sei mai ricordato di dipingere un angioletto nero”. Queste parole calzano con precisione anche per una chiesa che non si è mai ricordata di eleggere un vescovo nero. Finalmente oggi siamo più inclusivi, almeno un po' di più, e questo rende la Chiesa ciò che è per natura: kata holos, cattolica, universale.

Eravamo felici di vedere l'Eucaristia celebrata con la passione della costa del Pacifico, al ritmo di marimba, grancassa, cununo e guasá; eravamo felici di vedere una Chiesa con il volto nero e che cantava: “Oggi è il giorno del nostro gruppo etnico; oggi lo metteremo in evidenza. Siamo tutti felici, la messa sta per iniziare”.

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La cattedrale di San Pietro Apostolo a Cali in Colombia

Anche il nuovo vescovo ha letto la sua vocazione in questo modo e lo ha detto quando ha preso la parola per ringraziare al termine della cerimonia: “Un passo sulla giusta strada dell'inclusione in questa lunga e ricca storia di evangelizzazione dei popoli del continente americano. Tutti sappiamo che dobbiamo continuare a muoverci in questa direzione e non solo nella Chiesa colombiana, ma in tutte le istituzioni se vogliamo davvero un Paese più inclusivo, più egualitario, più sviluppato e prospero e meno insensibile all'abissale e scandalosa arretratezza in cui versano ampie regioni del Paese”.

Un pastore del popolo di Dio in pellegrinaggio a Quibdó, sulla costa del Pacifico

20240925Negro2Confesso che molte volte, quando assisto alle ordinazioni di diaconi, sacerdoti e vescovi, mi sembra di trovarmi in “ordinazioni assolute” –proibite dagli antichi canoni ma ancora comuni nella pratica– dove uomini ricevono il sacramento per se stessi, senza alcuna relazione con il popolo di Dio, senza una comunità di cui prendersi cura, ma a volte solo un ufficio da gestire e un onore da ostentare. E sembra che sia così perché né il vescovo consacrante, né il nuovo diacono, presbitero o vescovo, alludono alle comunità a cui sono destinati, come se il loro ministero potesse essere sulla luna o in un angolo del nulla, scollegato dal popolo che dovrebbero pascere. Nelle omelie che accompagnano questi riti si parla di tante cose, del Christus Dominus, del ministero dei vescovi, della dignità episcopale.... ma senza approdare “alle gioie e alle speranze, ai dolori e alle angosce degli uomini (e delle donne) del nostro tempo” (Gaudium et Spes) e di coloro che devono essere serviti con i doni ricevuti nel sacramento.

In questa consacrazione episcopale abbiamo sperimentato qualcosa di diverso: era una ordinazione chiaramente orientata al popolo di Dio e ai poveri da servire. (…)  Nel prendere la parola, il nuovo ministro ha avuto ben presente in mente e cuore quel popolo per il quale è stato consacrato, un popolo che ha sofferto la guerra, la violenza di tutti gli attori armati, il razzismo di un Paese che si crede bianco, la piaga del narcotraffico, la disperazione dei migranti che si avventurano nelle giungle del Darien, le economie minerarie e illegali, l'impoverimento che producono le multinazionali e i megaprogetti.

Ancora una volta cito le parole del neo-ordinato: “Tornandomene a casa, ora come vescovo e pastore di un gregge come questo, ho ben chiaro che il lavoro pastorale che tutti i miei predecessori hanno svolto deve continuare, con una voce chiara in difesa dei diritti umani individuali e collettivi, collaborando con le varie organizzazioni sociali e ONG che lavorano per la pace e la riconciliazione in tutto il Pacifico colombiano, per il rispetto e la dignità delle comunità vulnerabili e di quelle persone che, attraversando la regione del Darién, vanno in cerca di migliori condizioni di vita per le loro famiglie”. (…) Sembra che, grazie a Dio, non abbiamo avuto un vescovo a suo agio nel mondo delle idee, ma uno che ha iniziato toccando le ferite del popolo crocifisso, le stesse di Cristo oggi.

Cristo mutilado di Bojaká

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I fedeli cristiani del Chocó hanno consegnato al nuovo vescovo l'immagine mutilata del Cristo di Bojayá

Al termine della celebrazione, prima che egli benedicesse il popolo di Dio e rivolgesse loro una parola, un gruppo di fedeli cristiani del Chocó ha consegnato al nuovo vescovo l'immagine del Cristo mutilato di Bojayá; un segno forte che collega il suo ministero alle vittime della violenza in Colombia (Il Cristo rotto di Bojayá, è il simbolo emblematico del peggior massacro che sia mai accaduto in Colombia. Il 2 Maggio del 2002 i membri del blocco 58 delle FARC, in uno scontro armato con un gruppo paramilitare, lanciarono una bomba che cadde all’interno della chiesa dove si erano rifugiate quasi tutte le famiglie del villaggio. Morirono più di 100 persone; anche l’immagine del Crocifisso fu dilaniata e rimase senza braccia e senza gambe).

(…) Se un pastore non tocca le ferite di Cristo in coloro che soffrono e non le bacia, quale benedizione può avere per il popolo di Dio? Quale parola ispirata può dire ai suoi cristiani e al mondo che lo ascolta? Benedetto questo episcopato che inizia toccando e baciando il Cristo del suo popolo.

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“Beati gli operatori di pace”, è il motto scelto dal nuovo vescovo per camminare con il suo popolo e con la Chiesa colombiana.  Vi ringrazio”, ha detto rivolgendosi ai vescovi presenti, ”per tutta la vostra vicinanza e le vostre preghiere per questo nuovo fratello che viene a promuovere con voi il compito di cercare una pace duratura nel Paese”.  Che sia così, monsignor Winston, che il Cristo di Bojayá e il popolo risorto del Chocó ti rendano pastore secondo il cuore di Dio. Le buone intenzioni dello Spirito Santo sono evidenti.

Ringraziamento nel giorno dell'ordinazione - (Mons. Wiston Mosquera)

* Padre Jairo Alberto Franco Uribe, colombiano, missionario saveriano di Yarumal, ha lavorato in Kenya. Originalmente pubblicato in: www.religiondigital.org

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La città di Cali, la terza più popolata della Colombia, ha ospitato l'incontro continentale della Pastorale Afro dei Missionari della Consolata in America. All'evento hanno partecipato in presenza dieci persone, tra cui missionari e agenti laici della pastorale afro e anche altre 20 persone che si sono collegate on line dal Brasile, Venezuela, Bolivia, Argentina e altre città della Colombia.

Il mondo afro in America Latina

L’incontro è cominciato con una riflessione del dottor Sergio Mosquera, ricercatore, storico e professore universitario della regione del Chocó, che ha analizzato la realtà della popolazione afro nel continente e la trasformazione del loro pensiero.

Il dottor Sergio Mosquera ha descritto come la Chiesa, nel corso dei secoli, abbia gradualmente cambiato la propria mentalità. "La Spagna ha portato in America al cattolicesimo, ma in questi cinque secoli sono stati commessi molti abusi. In anni relativamente recenti la riflessione promossa dal Concilio Vaticano II e dalla Conferenza di Medellín (1968) hanno dato inizio a una pratica pastorale nuova nella chiesa latino americana e a una corrente di pensiero e teologica poi chiamata teologia della liberazione. Anche nel contesto afro, dopo tante trasformazioni, si è aperta una possibilità di dialogo con la popolazione afro e per mezzo di una pastorale specifica si porta avanti in modo concreto lo sforzo di avvicinare il cristianesimo ai neri impoveriti. Molti hanno subito e continuano a subire discriminazioni, razzismo e per quello hanno bisogno di un annuncio di speranza, che é quello che si vuole offrire”.

La pastorale afro dei Missionari della Consolata

Nel suo intervento, il Consigliere Generale per l'America, Padre Jaime C. Patias, ha affermato che “le nostre opzioni missionarie sono quelle scelte che facciamo di fronte alla realtà che ci circonda. Sono il frutto dell'ascolto e della risposta alle grida dei nostri popoli in armonia con il carisma della congregazione fondata dal beato Giuseppe Allamano”.

Ha ricordato che nel continente, dopo una chiara opzione per le popolazioni indigene, negli ultimi anni i missionari della Consolata hanno ripreso anche l'opzione per le persone di origine africana, soprattutto in Colombia, Brasile e Venezuela, dove la Chiesa ha fatto un grande sforzo per promuovere una pastorale specifica: “non è mai stato un cammino facile ma di fronte alle difficoltà dobbiamo imparare dai neri -ha detto- a resistere, a non abbassare la testa a non arrenderci”.

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Laboratorio di pensiero

"Consapevoli della complessa realtà della popolazione nera nel continente, ha osservato il padre Venanzio Mwangi, Coordinatore Continentale della Pastorale Afro, vediamo sempre più la necessità di lavorare uniti per rafforzare la qualità del nostro servizio come Missionari della Consolata nel continente. Abbiamo bisogno di costituire un laboratorio di pensiero Afro IMC, che sia al servizio della nostra comunità, delle chiese locali e delle società in generale.

Padre Venanzio è keniota, si trova in Colombia da più di 20 anni, e quindi ricorda che "questo passo è la conseguenza di tanti incontri che abbiamo tenuto per molto tempo, condividendo le esperienze della Pastorale afro in Colombia, Venezuela e Brasile".

Cammini di liberazione

I partecipanti si sono poi interrogati sulle attuali possibilità di liberazione che sono a disposizione di questa popolazione. C’è bisogno di una liberazione mentale e identitaria nella quale diventa necessaria anche la collaborazione di altre forme di fede;  la guarigione e la liberazione integrale devono essere affrontate in diverse prospettive e sono necessarie persone che siano leaders sociale e spirituale e con una indentità chiara fin dal seno famigliare.

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Il 28 novembre 2021 rimarrà sempre una data significativa e storica per l'arcidiocesi di Feira de Santana, nello stato di Bahia (Brasile) e per i Missionari della Consolata: in quel giorno fu creata la parrocchia di São Roque, la prima parrocchia "quilombola" del Brasile.

Nel quilombo Matinha dos Pretos, fedeli di varie parrocchie si sono riuniti per assistere alla creazione ufficiale della parrocchia di São Roque, la prima parrocchia con sede in un quilombo e con un'attenzione particolare per i suoi abitanti e le loro battaglie. Per questo motivo la nuova parrocchia si chiama già “Quilombola”.

Questa presenza è una manifestazione dell'impegno della Chiesa nei confronti delle popolazioni emarginate e oppresse. Il Dio cristiano, che la Chiesa proclama, è un Dio che vede, non un Dio cieco; un Dio che ascolta, non un Dio sordo e, come dice il libro dell'Esodo, ascolta il grido del suo popolo e scende per liberarlo (cfr. Esodo 3,7-8). Per questo motivo la missione della Chiesa, discepola di un Dio che si preoccupa in modo particolare della vita minacciata, avrà un'attenzione speciale per tutti gli oppressi.

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Chiesa parrocchiale della parrocchia di Quilombola São Roque da Matinha. Foto: Jaime C. Patias

Che cos'è un quilombo?

In Brasile la parola "Quilombo" non è una parola che si sente con frequenza, forse per disinteresse o perché dietro c'è un gruppo oppresso che, il più delle volte se non tutte, non attira l'attenzione degli altri. Eppure la storia del quilombo è ormai più che centenaria: affonda le sue origini nell'epoca della schiavitù e continua a esistere ancora oggi. Evidentemente i quilombo storici del 1700 non sono gli stessi di oggi, ma un elemento che si conserva in tutta l’esistenza di queste comunità è la lotta. 

In origine erano “la dimora che gli schiavi fuggitivi cercavano in luoghi disabitati e di difficile accesso con il fine di liberarsi dalle condizioni disumane in cui vivevano”. In quei luoghi, dove riuscivano ad evadere ricerca e persecuzione, potevano diventare forti, vivere liberi e indipendenti, e spesso costruivano comunità umane fondate sulle antiche culture originarie africane liberandosi così da ogni forma di oppressione.

Oggi i quilombo sono ancora luoghi simbolici per la popolazione nera del Brasile e incarnano i lunghi anni di resistenza contro l’oppressione e la discriminazione. Anche se, evidentemente, i quilombo di oggi non sono costituiti da "fuggitivi", in molti di essi le situazioni precarie che si mantengono –sono comuni le carenze di servizi come sanitari, educativi e di trasporto– parlano ancora di schiavitù moderna e di situazioni di inferiorità contro le quali è necessario rimanere vigili.

La schiavitù è un’istituzione che appartiene alla storia del Brasile, ma in realtà le condizioni di vita della popolazione afroamericana ci ricorda che queste persone continuano a soffrire le conseguenze della schiavitù e continuano a essere molto spesso un popolo senza diritti.

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Il parroco, padre Luiz Antônio de Brito, con il decreto di creazione della prima parrocchia di Quilombola in Brasile. Foto: Parrocchia di São Roque da Matinha

Perché la presenza specifica della Chiesa in queste comunità?

La Chiesa, che il Concilio Vaticano II considera il sacramento universale della salvezza, con la sua presenza in questa comunità vuole aiutare a ricordare che questa salvezza non è semplicemente una "salvezza dell'anima", una cosa per la vita eterna, ma risponde alle esigenze dell’uomo nel suo complesso e nella sua concretezza storica.

Fu Gesù stesso che, cominciando il suo ministero pubblico, affermò che l'avvento del Regno era una buona notizia che aveva come destinatari principali i poveri. “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,17-19).

In questo quilombo, come chiesa e come Missionari della Consolata, vogliamo rendere presente il Regno di Dio, non con discorsi, ma con l'impegno nei confronti dei nostri fratelli. La luce che ci viene da Cristo liberatore ci aiuta a costruire il suo progetto: un Regno di uguaglianza, fraternità, pace e amore. Tutto questo, che sta alla basa della nostra missione, si traduce quindi in un umile accompagnamento della lotta per i propri diritti del popolo “Quilombola”.

* Il diacono Wilson Gervace Mtali, IMC, originario della Tanzania, ha studiato teologia a San Paolo e ha svolto attività pastorale nella parrocchia di São Roque da Matinha, a Bahia.

 

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