Etiopia. Calma armata

  • , Ott 10, 2024
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Il Tigray rispetta gli accordi, ma non smobilita

Le montagne del Tigray sono alte, aspre, piene di gole e anfratti. Un luogo ideale per nascondersi e nascondere. Per organizzare una guerriglia che duri nel tempo e logori l’avversario. Così devono averla pensata i tigrini. Terminata la guerra contro il potere centrale di Addis Abeba, non avrebbero smobilitato completamente il loro arsenale, ma lo avrebbero conservato in tanti piccoli arsenali sulle montagne in attesa di tempi migliori in cui riprendere la lotta.

Così la pensa il capo di stato maggiore della difesa dell’Etiopia, Berhanu Jula, che, in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi a Lulawi, un media informatico filo-governativo etiope con sede negli Stati Uniti, ha detto che il Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray) possiederebbe ancora armi leggere e pesanti anche se, al momento, non sarebbe più in grado di organizzare un’offensiva contro il governo centrale.

Quella dei tigrini è una strategia antica. Dopo aver condotto il lungo conflitto che ha portato negli anni Novanta alla caduta del dittatore Menghistu Hailè Mariam, i leader del Tigray hanno conservato il loro arsenale ben nascosto sulle montagne. Per anni le hanno custodite, finché nel 2020 sono rispuntate fuori quando le tensioni tra il governo di Abiy Ahmed e il Tplf si sono intensificate dopo il rinvio delle elezioni. Il governo etiope ha lanciato un’operazione militare con il supporto delle truppe eritree e delle forze locali della regione di Amhara. La risposta tigrina è stata durissima. Nonostante le vittorie iniziali del governo, il conflitto si è prolungato e ha avuto un impatto devastante sulla popolazione civile. Sono pervenute numerose denunce di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi di massa, stupri e saccheggi. Inoltre, la regione del Tigray ha subito una grave crisi umanitaria, con milioni di persone sfollate e a rischio di carestia. Le restrizioni all’accesso umanitario e i blocchi agli aiuti internazionali hanno aggravato la situazione.

Nel 2022, dopo diversi tentativi falliti di mediazione internazionale, le parti in guerra hanno concordato un cessate il fuoco, consentendo agli aiuti umanitari di entrare in alcune aree colpite. Nell’intesa raggiunta tra le parti a Pretoria (Sudafrica) c’era anche una clausola che prevedeva la consegna da parte dei tigrini dell’armamento pesante e leggero a loro disposizione. A due anni da quell’accordo, però, pare che parte delle armi sia stato nascosto e sottratto alla consegna.

Il fatto che il movimento tigrino sia ancora armato, secondo Berhanu Jula, «è un problema» ma, ha aggiunto, il governo federale si sta consultando con il governo ad interim della regione del Tigray affinché la situazione non vada fuori controllo. Ha sottolineato che, se il gruppo armato dovesse fare movimenti minacciosi, «la Difesa prenderà misure».

Perché il Tplf non è stato disarmato? L’alto ufficiale etiope ha risposto che il problema del disarmo, della smobilitazione e della reintegrazione è legata alla mancanza di finanziamenti. Ha però dichiarato che sono in corso lavori per disarmare 75mila combattenti del Tplf, anche se non ha specificato i tempi. Secondo il governo federale, «il Tplf non è più in grado di rovesciare il governo con la forza».

Che il Tplf non abbia però intenzione di disarmare completamente è confermato anche da un’altra notizia apparsa sul quotidiano Addis Maleda. «Sebbene alcune scuole abbiano ripreso le attività, molte non funzionano ancora correttamente a causa della presenza militare», ha dichiarato Ato Redai G. Ezger, vicedirettore dell’Ufficio regionale per l’istruzione del Tigray, sottolineando che più di 550 scuole vengono ancora utilizzate come campi militari.

Le tensioni tra i tigrini e il governo centrale sono destinate a riaccendersi? Difficile dirlo ora. Certo l’Etiopia sta vivendo una serie di spaccature etniche interne che ne stanno minando la compattezza e l’unità. In questo scenario, il Tigray potrebbe nuovamente rivendicare la sua autonomia. E le armi potrebbero essere tirate fuori dagli arsenali sulle montagne.

* Enrico Casale, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento di monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti (Libano), durante il briefing di oggi per i giornalisti, nella Sala stampa della Santa Sede. Il suo invito, espresso anche nell’aula del Sinodo: “Liberiamoci tutti della paura dell’altro”

Vengo da un Paese a fuoco e sangue da cinquant’anni ormai. Nel 1975 è cominciata la guerra in Libano sotto il pretesto di una guerra religiosa e confessionale, soprattutto tra musulmani e cristiani. Cinquant’anni dopo, non sono riusciti a far capire che non è per tutto una guerra di confessione o di religione. È una guerra che ci è stata imposta, al Libano, un “Paese messaggio”, come diceva sempre Papa san Giovanni Paolo ii; un Paese messaggio, di convivialità, di libertà, di democrazia, di vita nel rispetto delle diversità. Anche il Santo Padre, Papa Francesco, porta questo.

Il Libano è un messaggio di pace e dovrebbe restare un messaggio di pace. È l’unico Paese nel Medio Oriente dove possono vivere insieme cristiani, musulmani, ebrei, nel rispetto delle loro diversità, in una nazione che è una “nazione modello”, come diceva Papa Benedetto xvi. Venire qui, in questa situazione, per parlare del Sinodo, sarebbe complesso; anche per parlare di perdono, che Papa Francesco ha preso come segno per questa Seconda sessione, sarebbe ancora più complesso. Sì, vengo qui per parlare di perdono e riconciliazione, mentre il mio Paese, il mio popolo, soffre, subisce le conseguenze delle guerre, dei conflitti, della violenza, della vendetta, dell’odio.

Guarda l'intervento di monsignor Khairallah

Noi libanesi vogliamo sempre condannare l’odio, la vendetta, la violenza. Vogliamo costruire la pace. Siamo capaci di farlo. Se Papa Francesco ha scelto il perdono, per noi e per me, è un grande messaggio da dare. Parlare di perdono quando i bombardamenti colpiscono tutto il Libano, sarebbe impossibile? No. In tutto questo, la popolazione del Libano rifiuta, come sempre, il linguaggio dell’odio e della vendetta. Il perdono l’ho vissuto personalmente. Quando avevo cinque anni è venuto qualcuno a casa nostra e ha assassinato selvaggiamente i miei genitori. Ho una zia monaca nell’ordine libanese maronita. È venuta a casa nostra a prendere noi, quattro bambini — il più grande aveva sei anni, il più piccolo due —; ci ha preso nel suo monastero e in chiesa ci ha invitato a metterci in ginocchio e a pregare; pregare Dio di misericordia, di amore. Ci disse: “Non preghiamo tanto per i vostri genitori, sono martiri presso Dio; preghiamo piuttosto per quello che li ha assassinati e cercate di perdonare nel corso della vostra vita. Così sarete i figli del vostro Padre che è nei cieli”.

“Se amate quelli che vi amano — dice Gesù — che merito avete? Amate i vostri nemici. Pregate per quelli che vi perseguitano. Sarete allora discepoli di Cristo e figli del Padre vostro”. Abbiamo portato questo nel nostro cuore, noi, quattro bambini. E il Signore non ci ha mai abbandonato; ci ha preso, ci ha accompagnato, per poter vivere questo perdono.
Dopo miei studi, qui a Roma, da seminarista, sono tornato per l’ordinazione. A 24 anni ho scelto l’anniversario dell’assassinio dei miei genitori che era la vigilia della festa dell’Esaltazione della Santa Croce — una grande festa per noi Chiese orientali — solo per dire che “il chicco di grano se cade in terra e non muore non dà frutto” e siamo noi — ho detto — il frutto di questo chicco di grano voluto da Dio. Sì, è la volontà di Dio che i nostri genitori hanno accettato e che noi abbiamo vissuto. E io ho detto: rinnovo la mia promessa di perdono, perdonare tutti quelli che ci fanno del male.

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 Briefing per i giornalisti nella Sala stampa della Santa Sede, sabato 5 ottobre 2024

Poi qualche mese dopo parlavo in un ritiro ai giovani nostri lì, in Libano, che eravamo ai primi anni di guerra nel 1977-’78. Venivo a parlare del sacramento della riconciliazione e del perdono. Ho sentito che non mi capivano: erano tutti armati per fare la guerra contro i nostri nemici. Dopo 4 ore del nostro discorso ho sentito che il messaggio non passava. Allora ho detto: vi do la mia testimonianza personale; e ho raccontato ai miei giovani libanesi quello che ho vissuto e che ho rinnovato con il perdono e la riconciliazione. Dopo un tempo di silenzio un giovane si è messo in piedi e ha osato chiedermi: “Padre suppongo che hai perdonato, però immagina che adesso tu prete sei nel confessionale e questo tipo ti viene, si mette davanti a te, si confessa e ti chiede perdono, cosa farai?” — la risposta non era facile. Poi ho detto: grazie della domanda, perché adesso ho capito cosa vuol dire perdonare. Perché è vero che io ho perdonato, ma adesso io vedo che ho perdonato da lontano, non l’avevo mai visto questo tipo. Oggi si viene a mettere lì, davanti a me... Sono anche uomo, ho i miei sentimenti, però finalmente sì, gli do l’assoluzione e il perdono; ma dico a voi giovani libanesi che ho capito perché il perdono è tanto difficile, ma non è impossibile. Vi capisco, ma è possibile viverlo se vogliamo essere discepoli di Cristo, sulla terra di Cristo. Sulla Croce Gesù ha perdonato, noi siamo capaci di perdonare, e vi dico di più: tutti questi che ci fanno la guerra, che consideriamo nemici — israeliani, palestinesi, siriani, di tutte le nazionalità — questi non sono nemici, perché? Perché quelli che fomentano la guerra non hanno identità, non hanno confessione, non hanno religione; ma gli altri, i popoli, vogliono la pace, vogliono vivere in pace sulla terra della pace di Gesù Cristo, re della pace.

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Perciò, anche oggi, nonostante tutto quello che succede — 50 anni di guerra cieca, selvaggia —, nonostante tutto, noi come popoli di tutte le culture di tutte le confessioni, vogliamo la pace, siamo capaci di costruire la pace. Lasciamo da parte i nostri politici, i nostri e quelli del mondo, le grandi potenze: loro fanno i loro interessi al conto nostro. Però noi come popoli non vogliamo tutto questo: lo rifiutiamo. Verrà il giorno che avremo l’occasione di far passare il nostro messaggio, dire la nostra parola al mondo intero: Basta! Basta con questa vendetta, con questo odio, con queste guerre, basta! Lasciateci costruire la pace almeno per i nostri bambini, per le generazioni future che hanno diritto di vivere in pace. Ecco questo che ho capito dal messaggio di Papa Francesco quando ha chiamato a fare, a vivere insieme la sinodalità — che è tuttora una pratica nelle nostre Chiese orientali —: ha chiesto a tutta la Chiesa di cominciare a vivere il perdono, la riconciliazione, la conversione personale e comunitaria per poter camminare insieme verso la costruzione del regno di Dio. Sì, vogliamo farlo, possiamo farlo!

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L'assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi nell'Aula Paolo VI a Roma

Penso che la più grande decisione da prendere sia che la Chiesa, attraverso questo Sinodo, sia messaggera di un vivere insieme, cioè nell’ascoltare l’altro, rispettare l’altro, dialogare con l’altro, rispettarlo e poi liberarci dalla paura dell’altro. Liberarci da questa paura, perché ci abita. Penso questo sarebbe un primo passo come grande raccomandazione di questo Sinodo all’umanità.

* Monsignor Mounir Khairallah, vescovo di Batrun dei Maroniti (Libano). Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va

Come già per Siria, RD Congo e Sud Sudan, Libano, Afghanistan, Ucraina e Terra Santa dal 2013 al 2023, Francesco indice per il prossimo lunedì, primo anniversario dell'attacco terroristico di Hamas a Israele, una giornata di orazione e astensione di pasti per invocare il dono della pace.

E annuncia una visita domenica 6 ottobre a Santa Maria Maggiore per recitare il Rosario e pregare la Madonna, chiedendo la partecipazione di tutti i membri del Sinodo

Nel crescendo di tensioni nella polveriera mediorientale, tra le bombe e i missili che continuano a piombare nella “martoriata” Ucraina, in mezzo ai tanti piccoli e grandi conflitti che lacerano e affamano i popoli dell'Africa, mentre insomma “i venti della guerra e i fuochi della violenza continuano a sconvolgere interi popoli e Nazioni”, il Papa chiama alle “armi” del digiuno e della preghiera – quelle che la Chiesa indica come potenti - milioni di credenti nel mondo per implorare da Dio il dono della pace in un mondo sull’orlo dell’abisso. Lo fa, il Pontefice, al termine della Messa solenne in Piazza San Pietro per l’apertura della seconda sessione dell’Assemblea generale, annunciando una Giornata di preghiera e di digiuno per la pace nel mondo il 7 ottobre, primo anniversario dell'attacco terroristico perpetrato da Hamas in Israele che ha fatto esplodere le brutalità a cui da un anno si assiste in Terra Santa. "Chiedo a tutti di vivere una giornata di preghiera e di digiuno per la pace nel mondo"

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Papa Francesco durante la celebrazione eucaristica per l'Inaugurazione della XVI Assemblea Generale del Sinodo

La supplica alla Madonna a Santa Maria Maggiore

Sempre a fine omelia, il Papa ha annunciato pure una nuova visita nella Basilica di Santa Maria Maggiore il 6 ottobre per elevare alla Madonna una supplica di pace. Un appuntamento spirituale per il quale ha chiesto la partecipazione di tutti i membri del Sinodo riuniti a Roma. "Per invocare dall’intercessione di Maria Santissima il dono della pace, domenica prossima mi recherò nella Basilica di Santa Maria Maggiore dove reciterò il Santo Rosario e rivolgerò alla Vergine un’accorata supplica".

La veglia per "l'amata Siria" nel 2013

Giornate di digiuno e preghiera per terre lacerate dalle violenze sono una costante del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Neppure sei mesi dopo dalla sua elezione sul Soglio di Pietro, il 7 settembre 2013, il Papa argentino aveva raccolto in Piazza San Pietro migliaia di persone, cattoliche e non solo, per pregare, con fiaccole, candele, bandiere, per la pace “nell’amata nazione siriana, nel Medio Oriente, in tutto il mondo!”. La Siria si trovava allora dinanzi all’eventualità di una guerra feroce, già radicalizzata da oltre un anno e acuita dopo l’attacco a civili con gas nervino. Il conflitto, fortunatamente, non deflagrò mai. Dalla Piazza cuore della cristianità, il giorno prima, si era alzato un grido silenzioso.

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Il Papa durante la recita del Rosario a Santa Maria Maggiore

“Abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. La violenza, la guerra portano solo morte, parlano di morte! La guerra è sempre una sconfitta per l’umanità”

Insieme per RD Congo e Sud Sudan

Ancora il Papa, con eguale vigore e preoccupazione, il 23 febbraio 2017 aveva invocato un’azione immediata dei cristiani, declinata appunto nella preghiera e nel digiuno, per il Sud Sudan e la Repubblica Democratica del Congo. Le due nazioni africane, che il Pontefice ha visitato personalmente nel gennaio e febbraio 2023, erano e sono tuttora piagate da fame, sfruttamento, emigrazione, violenze. Era il primo venerdì di Quaresima e Papa e Curia avevano terminato gli Esercizi Spirituali. Francesco quel giorno aveva invitato ad unirsi all’evento anche i cristiani di altre Chiese e seguaci delle altre religioni, “nelle modalità che riterranno più opportune, ma tutti insieme”. 

La Chiesa unita per il Libano, un Paese "messaggio... martoriato"

Stessa formula usata per invitare i fratelli e le sorelle di altre confessioni nella grande giornata per il Libano, indetta per il 4 settembre 2020, quando il mondo si rialzava a fatica dalla devastante prima ondata di pandemia di Covid-19 ed, esattamente un mese prima, aveva assistito attonito alla esplosione nel porto di Beirut. Un evento di cui il Paese dei Cedri - già appesantito da una crisi politica, sociale ed economica, ora sotto attacco dai raid israeliani e per questo definito dal Papa “un messaggio… martoriato" - paga ancora le conseguenze . Francesco aveva annunciato la Giornata universale per il Libano due giorni prima, all’udienza generale del 2 settembre. Con a fianco un sacerdote che teneva in mano la bandiera libanese, il Papa si appellava a politici e leader religiosi: "Impegnarsi con sincerità e trasparenza nell’opera di ricostruzione, lasciando cadere gli interessi di parte e guardando al bene comune e al futuro della nazione"

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La comuntà congolesa di Roma riengrazia il Papa Francesco per la vicinanza e preghiera. Via della Conciliazione, 11 febbraio 2018. Foto: Jaime C. Patias

In preghiera per l'Afghanistan

Ancora nel 2021, il 29 agosto, in quell’estate drammatica per l’Afghanistan, travolto dal violento ritorno al potere dei talebani, da attentati e dalla fuga disperata di centinaia di persone arrivati ad arrampicarsi anche sugli aerei in decollo, Francesco dal Palazzo Apostolico per l’Angelus – ma anche dalla più ampia finestra virtuale del suo account su X @Pontifex – tornava a domandare ai fedeli del mondo di raccogliersi in preghiera e astenersi dai pasti.

Rivolgo un appello a tutti a intensificare la preghiera e a praticare il digiuno. Preghiera e digiuno, preghiera e penitenza, questo è il momento di farlo. Sto parlando sul serio, intensificare la preghiera e praticare il digiuno, chiedendo al Signore misericordia e perdono.

Il dramma dell'Ucraina

Resta impressa poi nella memoria collettiva la giornata del 2 marzo 2022, un Mercoledì delle Ceneri, in cui il Papa chiese alla Chiesa universale di intensificare il digiuno e la preghiera da rivolgere soprattutto alla Vergine Maria, Regina della Pace, perché “preservi il mondo dalla follia della guerra”. Parole drammaticamente realistiche a neppure una settimana dal primo attacco russo su Kyiv, che ha dato inizio all’orrore – ormai perdurante da circa due anni – in Ucraina.

“Prego tutte le parti coinvolte perché si astengano da ogni azione che provochi ancora più sofferenza alle popolazioni, destabilizzando la convivenza tra le nazioni e screditando il diritto internazionale”

Era quello il primo di migliaia di appelli elevati al cielo in questi anni di guerra a favore del “martoriato” Paese, affidato insieme alla Russia al Cuore Immacolato di Maria in una celebrazione a San Pietro, il 25 marzo dello stesso anno, partecipata da migliaia di fedeli in presenza in Basilica o virtualmente collegati dal mondo.

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La consacrazione di Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria

La veglia a San Pietro nell'"ora buia" per la terra di Gesù

Da ultimo una giornata per “fermarsi” e invocare il dono della pace attraverso l’orazione e astensione dal cibo, il Papa l’ha indetta il 27 ottobre 2023, venti giorni dopo l’orrore deflagrato in Terra Santa e nei giorni conclusivi della prima sessione del Sinodo. In quella occasione, il Papa volle organizzare una veglia in Basilica - denominata “Pacem in Terris”, dal titolo della storica enciclica di Giovanni XXIII di cui ricorrevano i 60 anni - a cui presero parte i membri dell’assise ma anche esponenti delle altre confessioni cristiane e di altre fedi. Quella sera, il Papa, in una cerimonia intima e partecipata, si pose ai piedi della “Madre” chiedendone l'intercessione per il mondo che attraversa “un’ora buia”.

Ora, Madre, prendi ancora una volta l’iniziativa; prendila per noi, in questi tempi lacerati dai conflitti e devastati dalle armi. Volgi il tuo sguardo di misericordia sulla famiglia umana, che ha smarrito la via della pace, che ha preferito Caino ad Abele e, perdendo il senso della fraternità, non ritrova l’atmosfera di casa. Intercedi per il nostro mondo in pericolo e in subbuglio. Insegnaci ad accogliere e a curare la vita – ogni vita umana! – e a ripudiare la follia della guerra, che semina morte e cancella il futuro.

Il Papa: preghiamo per uno stile di vita sinodale e per la missione della Chiesa

Intenzione di preghiera di ottobre diffusa attraverso la Rete Mondiale di Preghiera del Papa.

* Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va

A dieci anni dalla visita di Francesco per VI Giornata della Gioventù Asiatica, da Daejeon la testimonianza di padre Diego Cazzolato, missionario della Consolata.

Illustra l'opera di prossimità ai nuovi poveri, i migranti, che arrivano da soprattutto da Filippine e Nigeria, l'impegno a favore del dialogo interreligioso e la speranza che con la GMG del 2027 a Seoul le nuove generazioni trovino stabilità, accompagnamento, guide sapienti e attente

Ritrovare lo slancio che Papa Francesco aveva impresso nella popolazione della Corea del Sud in occasione del viaggio che, dieci anni fa, dal 13 al 18 agosto del 2014 lo aveva portato in quella regione del mondo per la VI Giornata della Gioventù Asiatica. Questo il messaggio che oggi padre Diego Cazzolato, missionario della Consolata da oltre trent’anni nel Paese asiatico, condivide con Radio Vaticana – Vatican News. Dalla sfida del dialogo interreligioso a quella del sostegno ai nuovi poveri - i tanti migranti che giungono dalle Filippine ma anche dalla Nigeria -, l’opera di questi religiosi tiene viva la speranza per una riconciliazione interna e per una fratellanza universale.

Guarda il video sul viaggio del Papa in Corea

La consolazione di Francesco e le molte conversioni

Daejeon, dieci anni dopo la visita del Pontefice per la VI Giornata della Gioventù Asiatica. Padre Cazzolato vive qui dal 1988 e se li ricorda molto bene i momenti in cui ebbe modo di incontrare il Papa in quel viaggio apostolico: nella Messa allo stadio, poi in un grande centro per disabili e nella celebrazione conclusiva. “È stato molto bello perché qualche mese prima era successa una grande tragedia che aveva scosso profondamente il cuore dei coreani. C’era una nave traghetto che trasportava studenti delle superiori che andavano in gita in un’isola semi tropicale al sud della Corea. Per cause ancora non pienamente identificate quella nave affondò e morirono 360 ragazzi e ragazze di 17-18 anni. Il Papa con il suo arrivo effettivamente è riuscito a ridare pace e speranza a tutto il popolo. È stata una visita provvidenziale”.

Ancora si compiace, il religioso, per il bel modo in cui la televisione nazionale trasmise integralmente quei momenti, per i gesti e le parole di Francesco che volle incontrare anche alcuni genitori di figli annegati. “È riuscito a dare una certa consolazione al Paese e tutti glielo riconoscono tuttora”, sottolinea. E rileva che quella fu una occasione propizia da cui nacquero molte conversioni: “C’è stato un aumento considerevole dei catecumeni, infatti in diversi sono rimasti molto toccati e hanno deciso di diventare cattolici”.

La speranza di una riconciliazione

Nel ricordo lieto che padre Diego ha di quelle giornate alberga tuttavia l’amarezza, espressa senza infingimenti, per una sorta di occasione per così dire 'sfumata' nel tempo: “Allora c’erano molte speranze anche riguardo alla riconciliazione tra le due Coree. Il presidente cattolico che subentrò alla presidente in carica in quel momento fece di tutto per aprire vie di dialogo e offrire opportunità di unione. Da un paio di anni a questa parte, purtroppo, quel lavoro di ricucitura è andato completamente distrutto soprattutto da parte dell’atteggiamento di chi governa la Corea del Nord ma anche dal governo attuale che riafferma la contrapposizione con la Corea del Nord più che la ricerca di una pacificazione. In questo momento direi che le relazioni sono al loro punto più basso nella storia degli ultimi 50 anni”.

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La fede cristiana e il servizio accogliente per i migranti

Missionari tra i migranti, i “nuovi poveri”

Il missionario italiano trapiantato in Corea dà conto di come nel tempo è cambiata la prossimità umana e spirituale ai coreani: “All’inizio il nostro desiderio era stare accanto ai poveri, evangelizzare i poveri. Eravamo riusciti ad avere una presenza molto semplice in uno dei quartieri periferici della grande città di Seoul dove allora i poveri si radunavano a vivere in case malfatte, senza tanti servizi però con un minimo di dignità umana ed economica. Poi, i piani governativi di ammodernamento di quelle zone - prima con le Olimpiadi dell’88, poi con i Mondiali di calcio del 2002 – le hanno di fatto smantellate e i poveri sono andati via”. Si rimodula pertanto la missione che si orienta verso “i nuovi poveri”. Sono i migranti che, riferisce padre Cazzolato, arrivano da tante parti del mondo in cerca di un po’ di sicurezza economica. “Ce ne sono tanti! La maggior parte dalle Filippine, poi un grosso gruppo arriva dalla Nigeria. Dall’America Latina, in particolare dal Perù, arrivavano di più in passato, ora sono stati quasi tutti rimpatriati. Poi c’è il sud est asiatico: Vietnam, Timor-Leste, Cambogia, Thailandia, alcuni dalla Mongolia”.

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La comunità cristiana accoglie i piccoli

Quella frontiera asiatica dove il Papa torna per dare impulso al dialogo

Sì, la Mongolia, quella terra sconfinata dove il Papa si è recato esattamente un anno fa, confermando la volontà di abbracciare chiese minuscole ma calorose. Lo sguardo costante alla frontiera asiatica, dove Papa Bergoglio è in procinto di tornare a settembre, “è importante perché si fa presente nelle periferie, perché è segno di entusiasmo. Sono molto incuriosito dalla tappa in Indonesia – confida Cazzolato -, il Paese con più alto numero di musulmani, dove le relazioni tra cristianesimo e islam non sono facilissime. Credo che il Papa darà ancora impulso al dialogo”.

Di dialogo si intende padre Diego: a questo ambito si dedica la sua comunità a Daejeon. “Entriamo in contatto con leaders e fedeli di altre religioni, soprattutto con buddisti e confuciani o di altre religioni autoctone della Corea. Cerchiamo di creare relazioni di pace tra tutti e di ricerca insieme della verità”. Ammette che dopo una stagione più entusiasta si sta vivendo ora una stagione più di “bassa marea” ma, dice, “andiamo avanti”.

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L'impegno in parrocchia

Verso la GMG 2027, serve una proposta per lo scoraggiamento dei giovani

Che ne è di quei giovani che dieci anni fa incontravano in Corea la guida della Chiesa cattolica universale? Il missionario non nega che oggi i giovani, in generale, “cercano la verità fuori dalle chiese, dalle parrocchie, dai templi buddisti”. Esprime lo stato di forte preoccupazione che hanno per il proprio futuro, per un lavoro che non è più così sicuro. A dispetto degli elevati livelli di progresso tecnologico che il Paese ha raggiunto sul piano internazionale, le nuove generazioni “fanno fatica a trovare un impiego, si sentono abbastanza abbandonati dagli adulti e hanno un estremo bisogno di guide capaci che li sostengano. E devo dire che non sempre, come cristiani, riusciamo a provvedere a questa necessità”. La speranza è riposta nei preparativi della GMG del 2027 che in Corea avrà luogo e per la quale, dice padre Diego, si sta pensando a molte iniziative. “Il mood tra i ragazzi è di grande scoraggiamento. Speriamo si riallaccino i rapporti con la gioventù che negli ultimi anni si sono persi. Serve una proposta buona, seria”.

* Antonella Palermo - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in:www.vaticannews.va/it

«Monsignore ma non troppo» (1)

È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.

Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.

Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.

Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.

La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.

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Nuovi, diocesi e vescovo

Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.

Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.

La nuova diocesi

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La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.

In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.

Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.

Cercando la pace

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Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.

Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.

Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».

Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.

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Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.

Una sfida infinita

Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.

Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.

Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.

Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.

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Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio

Le armi della pace

L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.

Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».

Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».

E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.

Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».

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Villaggio abbandonato per guerre tribali

Risultati

«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».

Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».

Una Chiesa sempre più incarnata

L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.

All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.

Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.

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Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012

Scuola e salute

Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.

Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.

Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.

I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.

Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.

Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.

Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace. (1 – continua)

* Padre Gigi Anataloni, IMC, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

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Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione

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