Eritrea. Trent’anni di Afewerki

  • , Lug 21, 2024
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I rapporti tra il paese del Corno d’Africa e l’Italia

L’Italia e l’Eritrea tornano amiche? Quale senso ha il riavvicinamento del governo di Roma a quello di Asmara?

La domanda è rimbalzata più volte tra giornalisti, analisti, studiosi a partire da gennaio quando il presidente eritreo Isaias Afewerki – al potere ininterrottamente dal 1993 – si è recato in Italia, su invito del governo italiano, per partecipare al Vertice Africa-Italia, tenutosi a Roma per promuovere partenariati in vari settori come l’economia, le infrastrutture, la sicurezza alimentare, l’energia, la formazione professionale e la cultura.

Sotto il profilo politico i nuovi rapporti tra Roma e Asmara sono complessi da leggere. Durante la sua visita, Afewerki ha incontrato il premier italiano Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e hanno discusso del rafforzamento dei legami bilaterali e hanno esplorato le opportunità di investimento in Eritrea. A giugno, poi, una delegazione italiana di alto livello ha visitato l’Eritrea, guidata dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, con la partecipazione di varie personalità, tra cui la presidente della Commissione esteri e difesa del Senato, Stefania Craxi.

Questa visita si colloca nel contesto del cosiddetto «Piano Mattei», la strategia italiana volta a stabilizzare e sviluppare l’area del Corno d’Africa. «È difficile valutare gli effetti di queste visite – spiega Uoldelul Chelati Dirar, eritreo, professore all’Università di Macerata -. Dal punto di vista economico, l’Eritrea è un mercato piccolo, solo cinque milioni di persone, le leve economiche sono tutte in mano pubblica, non essendoci un tessuto di piccole e medie imprese. Difficile quindi valutare quali vantaggi reciproci ci possano essere in questo senso. Anche se in Eritrea, come nel resto del Corno d’Africa, c’è un generale apprezzamento per i prodotti italiani e per la capacità italiana di costruire infrastrutture (ponti, strade, dighe, ecc.)».

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La situazione attuale in Eritrea è caratterizzata da «sfide» significative in termini di diritti umani, relazioni internazionali e sviluppo economico. Il governo eritreo continua a essere accusato di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, rapimenti e repressione della libertà di religione.

La leva militare obbligatoria, che spesso si traduce in un servizio di durata indefinita, coinvolge anche minorenni, e le punizioni collettive per i familiari di disertori o evasori di leva sono ancora praticate. Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch denunciano queste pratiche, sottolineando come il sistema di coscrizione abbia un impatto devastante sull’istruzione e la vita dei giovani eritrei.

«Nei rapporti internazionali – continua il prof Ueoldelul Chelati Dirar – il governo eritreo da sempre gioca su più tavoli senza mai legarsi strutturalmente a nessuno. Stringe rapporti con i Paesi del Golfo, poi con gli Usa, poi, ancora, con l’Iran e ora con l’Italia. Questa politica spregiudicata ha assicurato longevità. La diplomazia dev’essere concreta. Quindi, l’Italia, avviando un dialogo, può creare un rapporto con un attore importante del Corno d’Africa. Detto questo non so quanto possa incidere sulle dinamiche dell’Eritrea e della regione. L’Italia non ha una continuità nella sua politica estera. Anche se la posizione di Roma sempre prudente è apprezzata dalle capitali dell’Africa dell’Est».

* Enrico Casale, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

Presenta il libro «Cappuccini bresciani in Rezia» del padre Sandro Carminati, Missionario e studioso scomparso nel 2019

È stato presentato, il sabato 13 aprile 2024, nella sala consiliare del municipio di Casto, l’agile volume postumo di padre Sandro Carminati, IMC, dal titolo «Cappuccini bresciani in Rezia» (1622 1830), curato da Alberto Vaglia per le edizioni dell’Associazione Amici della Fondazione Civiltà Bresciana.

20240417CarminatiPadre Sandro, originario del Savallese, è stato autore di importanti studi dedicati tanto a Organtino Gnecchi Soldi, sacerdote gesuita, padre della cristianità giapponese, quanto al cappuccino padre Angelico da Savallo, missionario in Tibet nei primi decenni del Settecento. Dopo essere stato lui stesso missionario per lunghi anni in America Latina, prima in Colombia e poi in Equador, nel 2005 rientrò in Italia svolgendo compiti di rilievo per l’Ordine della Consolata nelle sedi di Torino e Rovereto, fino a essere nominato superiore del Centro missionario di Bedizzole.

Colpito da un male incurabile, sul finire dell’estate 2009, quando avvertì che non sarebbe stato in grado di pubblicare il suo ultimo lavoro dedicato alla missione cappuccina nella regione svizzera della Rezia, padre Carminati affidò la ricerca ad Alberto Vaglia, presidente dell’Associazione Amici della Fondazione Civiltà Bresciana, con preghiera di dare alle stampe il dattiloscritto. Dopo la scomparsa del sacerdote, avvenuta nel novembre 2019, Alberto Vaglia si spese non poco per giungere alla pubblicazione dell’interessante studio, con l’auto di alcuni esperti.

A distanza di qualche anno, l’opera di padre Sandro vede ora la luce. Il testo è frutto di una puntuale ricerca storica, che ripercorre le vicende legate alla missione cappuccina in Rezia, portata avanti dai religiosi della provincia bresciana.

Nelle pagine fresche di stampa, è dato un volto a umili religiosi che hanno speso gli anni migliori della loro vita nel servizio missionario, come d’altro canto fece padre Sandro dal 1984 al 2005. Il volume, arricchito da non poche immagini, riporta l’interessante elenco dei cappuccini bresciani operanti in questa regione della Svizzera, oltre a un breve cenno bibliografico dedicato all’autore, venuto a mancare troppo presto.

* Pubblicato originalmente in Giornale di Brescia, Sabato13 aprile 2024

Descritto come un missionario appassionato e vivace, padre Antonio Bianchi, IMC, è mancato a Nairobi, Kenya, domenica 14 aprile 2024.

Secondo padre Peter Makau, Superiore dei Missionari della Consolata della Regione Kenya/Uganda, padre Bianchi soffriva di una lieve infezione polmonare e, data l'età avanzata, è morto circa alle ore 14.20, dopo aver pranzato.

Nato il 13 giugno 1922 a Verbania, giorno della festa di Sant'Antonio di Padova, sulle rive del Lago Maggiore, a nord-ovest di Milano, padre Bianchi era il più anziano Missionario della Consolata nel mondo, avendo compiuto 101 anni, di cui 82 di professione religiosa e 78 di sacerdozio.

In un'intervista rilasciata al CISA (Catholic Information Service for Africa) nel 2023, mentre festeggiava il suo 101° compleanno, il missionario entrato nell’Istituto 84 anni fa, ha dichiarato: «Non sapevo, 83 anni fa, che avrei incontrato tante persone intorno a me per festeggiare una vita che ho scelto di vivere. Avevo 17 anni quando sono entrato nei Missionari della Consolata. Ora le mie ossa sono deboli, ma sono sempre stato felice. Ho trovato superiori molto comprensivi e collaborativi, che mi hanno sostenuto nelle mie debolezze».

20240415Bianchi2Padre Bianchi è stato ordinato sacerdote il 15 agosto 1945 a Rosignano, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Fu subito destinato in Portogallo, dove arrivò nel settembre del 1946 come uno dei primi missionari della Consolata a lavorare nel Paese. In un primo momento a Fatima, nella formazione, ma poco dopo fu nominato parroco della parrocchia di Castanheira do Ribatejo, nel comune di Vila Franca de Xira, servendo quella porzione del popolo di Dio dal 5 ottobre 1946 al 13 dicembre 1954. La parrocchia, situata in una zona piuttosto scristianizzata, era priva di un parroco residente da diversi anni.

Da Lisbona, padre Albino Braz racconta che i Missionari della Consolata furono ben accolti dalla popolazione e il Consiglio della frazione di Castanheira aveva perfino deciso di dedicare una strada a padre Bianchi. Il 13 giugno 1949 (proprio il giorno del suo compleanno) fondò la “Gioventù di Castanheira”, un'Associazione sportiva, culturale e ricreativa. Nel 2019 - quando questa associazione compiva 70 anni - hanno scritto di lui: «Padre Bianchi, con spirito missionario, ha portato nella nostra terra la solidarietà, la gioia di vivere insieme, l'unità, la soddisfazione di realizzarsi e il rispetto per gli altri. Sono valori che vogliamo veder rinascere attraverso le attività che sviluppiamo».

La missione in Kenya

Padre Bianchi era arrivato in Kenya nel 1955, all'età di 33 anni, durante la lotta per l'indipendenza. In questo Paese africano ha trascorso la maggior parte della sua vita missionaria, lavorando in varie missioni e dedicandosi soprattutto alla pastorale e all'evangelizzazione. Inizialmente era stato assegnato a Ngandu-Murang'a, oggi diocesi, ma all'epoca, terreno favorevole ai combattenti Mau Mau; in seguito, venne ricollocato a Ichagaki, sempre nella diocesi di Murang'a.

«Era un posto molto bello, con montagne e pianure. C'era molta gente di etnie diverse che si mescolavano e vivevano insieme in modo naturale. Andavamo in giro a piedi per vedere le persone e affrontare le sfide. Me lo sono goduto appieno», ha ricordato padre Bianchi, nel 2023.

Nel 1956 tornò a Ngandu, dove il suo più grande contributo fu l'educazione delle bambine, che era stata ignorata. Vi lavorò per tre anni e con “un piccolo contributo” vide la creazione di una scuola secondaria femminile, l'attuale “Bishop Gatimu Ngandu Girls High School”.

Conoscendo bene la lingua kikuyu e con una memoria raffinata, il tenero missionario italiano ha rivelato che la conoscenza della lingua locale agikuyu gli aveva permesso di concentrarsi meglio sul lavoro pastorale nel Kenya centrale: parrocchia di Rumuruti, nella diocesi di Nyahururu e parrocchia di Makima, in diocesi di Embu.

«Un sacerdote è tale perché cresce con il suo popolo. Non soltanto preghiere o attività religiose, ma ogni gesto contribuisce a perfezionare la vita del popolo... Il Kenya ha prosperato negli anni nonostante le sfide del tribalismo e della corruzione. Esorto i kenioti a non attaccarsi a questi condizionamenti privati, ma a concentrarsi su questioni che riguardano le persone nelle comunità. Sostenere le scuole e costruire più collegi e università», diceva all'epoca.

Padre Peter Makau elogia padre Bianchi come un grande missionario, con il cuore per la gente e per la Madre Terra, un religioso che ha sempre incoraggiato i confratelli a essere felici, nonostante le sfide della vita.

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Padre Antonio Bianchi con il Mons. Vigilio Pante, vescovo emerito di Maralal nel Kenya. Foto: Arnold Neliba -The Seed Magazine

Va inoltre ricordato che padre Bianchi è stato una figura importante anche per Verbania, sua città natale, in Italia, e di cui è diventato cittadino onorario nel 2005, «per la sua vocazione e il suo impegno nelle missioni religiose e nel sostegno ai più poveri del mondo», come si legge nel discorso di conferimento del titolo.

Nel giorno del suo 100° compleanno, ricordando gli anni trascorsi in Portogallo, ha confessato di amare molto questo Paese, di essere particolarmente devoto della Madonna di Fatima e di non dimenticare tutto l'affetto e le grazie che vi ha ricevuto, in particolare dai suoi parrocchiani di Castanheira do Ribatejo.

È morto due mesi prima del suo 102° compleanno, proprio nella III domenica di Pasqua, giorno in cui il Vangelo ci invitava a testimoniare il Cristo vivo, Cristo risorto. Questa è stata senza dubbio la sua vita missionaria e apostolica. Ha vissuto la sua vocazione in modo esemplare, tutto per Gesù, tutto per il Vangelo. Che riposi in pace, tra le braccia del buon Dio, che ha tanto amato e servito.

* Paschal Norbert, giornalista del “Catholic Information Service for Africa (CISA), a Nairobi, in Kenya.

Diamo le ali ai missionari

  • , Apr 19, 2023
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«Diamo le ali ai missionari» è la parola d'ordine di don Paolo Gariglio, oggi 93enne, e dei suoi amici. Lui ci racconta la nascita della sua peculiare vocazione all’aviazione: “avevo 12 anni e un amico del “Gino Lisa”, l’Aero Club torinese, mi fece sedere sul traliccio dell'aliantino, un trabiccolo trainato da una vecchia Balilla: si elevava a 15 metri e planava in 30 secondi. Io ero un passeggero clandestino ma fu il giorno della mia maxi-felicità: avevo provato il volo. Volevo andare oltre le nubi, con in mano la cloche di un aeroplano vero”. 

Don Paolo Gariglio, nel libro «Missionari con le ali» (Effatà, 2015) racconta la straordinaria avventura. Un volumetto dedicato a padre Aurelio Cannizzaro, missionario in Polinesia, «mio primo allievo pilota nel 1958-60 e poi capo della squadriglia dei piloti missionari Saveriani».

Nel 1958 nasceva il Centro internazionale di Aviazione e motorizzazione missionaria (Ciamm) con due scopi: formare al volo i missionari e le missionarie e aiutarli a procurarsi i vettori. L'Aero Club si schiera subito per avviare la Scuola di volo e accolse i primi preti mentre ci si rivolgeva alla Fiat e all'Aero Club d'Italia per reperire i primi finanziamenti. «Ottenni dalla diocesi l'uso di una parte del Seminario di via XX Settembre per ospitare gli allievi. Gli istruttori Ferruccio Vignoli e Mario Allesi accolsero le prime allieve che furono suore missionarie». Il 23 aprile 1961 il Ciamm è riconosciuto come personalità giuridica. «I primi missionari brevettati piloti e “pilotesse”, raggiunte le missioni, iniziarono l’apostolato con in mano una forza in più: saper volare sopra lande senza fine».

Gli artefici di questo progetto sono due: don Paolo Gariglio, allora viceparroco al Lingotto, e il generale dell’Aviazione militare Francesco Brach Papa. Don Paolo ha la passione per le due ali e nelle ore libere sfreccia nel cielo di Torino su un aereo da turismo con la scritta «Ronzino» sulla fusoliera. Loro due realizzano l’iniziativa pioneristica di dare le ali ai missionari. Il generale è entusiasta e, per finanziarla, scrive ai piloti d’Italia e agli appassionati di volo: «Basta gettare uno sguardo sul mappamondo per scoprire numerose e sterminate regioni. Se venissero costellate da una serie di piccole basi aeree, sarebbero facilmente coperte da una fitta maglia di veloci e tempestive rotte di missionari volanti». 

Le prime allieve sono quattro suore Luigine di Alba: con il velo e l’abito nero lungo seguono con attenzione le lezioni e apprendono velocemente la navigazione aerea. Una di loro dopo il primo volo dichiara: «È più facile che guidare l’auto!». Alla fine del primo corso 21 missionari ottengono il brevetto di volo. Alcuni fanno lezione in Svizzera per allenarsi su velivoli Piper attrezzati con sci, per imparare ad atterrare su campi innevati, corti e accidentati. Durante una cerimonia –con il sindaco Amedeo Peyron e l’avvocato Gianni Agnelli– il cardinale arcivescovo Maurilio Fossati appunta sulle talari l’aquila d’oro. Due delle quattro suore partono per il Bangladesh, un viaggio avventuroso di parecchie settimane a bordo di una nave cargo. Una dichiarerà: «L’aereo ci servì per attraversare il Gange che nel tempo delle piogge, con i suoi rigagnoli, si allargava per 40 chilometri». Il seme rimase attivo e costituì un prezioso servizio per l'evangelizzazione. 

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Peccato che l'avventura del Ciamm dura solo pochi anni a causa dell’improvvida decisione di trasferirlo a Roma, nell'illusione che la capitale della cristianità favorisse il Centro. Non è così: senza la spinta e l’entusiasmo degli ideatori, l’iniziativa finisce per arenarsi. 

L’Aviazione missionaria, comunque, prolifera in diverse regioni. I primi missionari-piloti della scuola torinese costruiscono decine di piccole piste in Africa, Amazzonia e Polinesia e istruiscono altri missionari che piloteranno aerei e idrovolanti. Tra coloro che hanno ottenuto il brevetto c’è il saveriano Siro Brunello: in Amazzonia nel 1964 trova missionari che operano con grande difficoltà: per spostarsi da un villaggio all’altro devono percorrere lunghi sentieri fangosi nella foresta e in canoa lungo i fiumi. La situazione cambia grazie al prete pilota. I missionari riescono a ottenere un «Piper» dall’Aero Club di Paranà, aereo piccolo, due posti stretti, il motore parte facendo roteare a mano l’elica ma svolge egregiamente la sua funzione. Racconta padre Siro: «Tra venti, piogge e la modesta potenza del motore del velivolo abbiamo vissuto qualche avventura».

*Articolo pubblicato in "La voce e il tempo", settimanale della diocesi di Torino.

Paolo Manna è sicuramente stato un missionario che ha saputo precorrere i tempi. Quello che lui diceva e proclamava, una chiesa che fosse davvero tutta missionaria, era una sensibilità molto rara e scarsa. Nella sua vita ha scritto tantissimo e una delle sue preoccupazioni era quella di avvicinarsi ai sacerdoti e ai seminaristi. Lui scriveva ai seminari e spesso le sue lettere non erano lette o erano censurate.

Prima di diventare il missionario che è stato in Italia Paolo aveva vissuto 13 anni di missione in Birmania (Oggi Myanmar). La sua salute non gli ha permesso di stare più tempo. Nel 1907 diceva di se stesso che era un missionario fallito. Poi seppe reagire e tutto lo zelo e l’impegno missionario che profuse nella sua vita è frutto di questa crisi, magari comune in tanti missionari, che seppe superare e trasformare in una opportunità per un progetto perfettamente missionario pieno di buoni frutti che sarebbero poi maturati nella teologia missionaria e nell’ecclesiologia del Vaticano II. La stessa che vediamo nell’orientazione che il papa Francesco oggi sta trattando di dare alla sua chiesa.

Paolo Manna è stato anche un grande formatore. I suoi resti riposano a Ducenta nei pressi di Napoli dove fondò un importante seminario missionario. La comunità del Pime è nata a Milano ma Paolo Manna, nella sua preoccupazione missionaria che rompeva ogni tipo di frontiere, vedeva il bisogno di raggiungere anche i seminari del sud Italia e, in ultima analisi, tutti i seminari del mondo. Rispondendo a un criterio ecclesiologico del suo tempo, affermava che se un parroco aveva spirito missionario... tutta la comunità cristiana avrebbe avuto lo stesso spirito e la stessa preoccupazione per tutta l’umanità.

Alla base del suo impegno e del suo zelo c’erano fondamentalmente due certezze: l’opera evangelizzatrice è prima di tutto nelle mani di Dio, per cui la missione ha una importante dimensione contemplativa, ma poi questa getta le sue radici nel cuore dell’uomo quando questo impara ad avere una profonda sensibilità per ogni fratello che, anche se non cristiano, è al centro delle preoccupazioni di Dio.

Quasi alla fine della sua vita, dopo anni di scritti e riflessioni, Paolo Manna diceva che la missione si può sintetizzare in tre verbi: Andare, Predicare e Rispettare. Il profondo rispetto per le culture è anche quello una caratteristica dello zelo missionario di Paolo Manna.

Giovanni Paolo II, il 4 novembre del 2001, giorno della sua beatificazione, così descriveva la sua santità: “nel Padre Paolo Manna, noi scorgiamo uno speciale riflesso della gloria di Dio. Egli spese l'intera esistenza per la causa missionaria. In tutte le pagine dei suoi scritti emerge viva la persona di Gesù, centro della vita e ragion d'essere della missione. In una delle sue Lettere ai missionari egli afferma: "Il missionario di fatto non è niente se non impersona Gesù Cristo... Solo il missionario che copia fedelmente Gesù Cristo in se stesso... può riprodurne l'immagine nelle anime degli altri" (Lettera 6). In realtà, non c'è missione senza santità, come ho ribadito nell'Enciclica Redemptoris missio: "La spiritualità missionaria della Chiesa è un cammino verso la santità. Occorre suscitare un nuovo ardore di santità fra i missionari e in tutta la comunità cristiana" (n. 90).

*P. Dinh Anh Nhue Nguyen è segretario generale PUM; Sr. Monika Juszka è segretaria nazionale POSI Polonia; Don Armando Nugnes è Rettore del Pontificio Collegio Urbano. Appunti della tavola rotonda tenuta nel Collegio Urbano di Roma il 15 gennaio 2023

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Breve profilo biografico

Il beato Padre Paolo Manna, del PIME, nacque ad Avellino il 16 gennaio 1872 e morì a Napoli il 15 settembre 1952; con la santità della vita e la passione missionaria dell’anima, è stato veramente la coscienza missionaria della Chiesa del ventesimo secolo, un vero cuore missionario per la Chiesa e per il mondo, come il grande apostolo Paolo di cui portava il nome e nel cuore la stessa passione per Gesù Cristo e il suo Vangelo.

Padre Manna donò la vita per l’evangelizzazione dei non cristiani, prima come missionario in Birmania (l’attuale Myanmar), che fu costretto a lasciare per malattia a soli 35 anni. Da allora si dedicò interamente alla diffusione dell’ideale missionario, con la parola e con gli scritti. Nel 1916 fondò l’Unione Missionaria del Clero.

Padre Paolo Manna evangelizzava soprattutto con la stampa. Scrisse diversi libri che sono fondamentali per capire la natura missionaria della Chiesa e l’obbligo per tutti i battezzati di realizzarla. Rifondò Le Missioni Cattoliche, oggi Mondo e Missione, e fondò tre riviste, che animano tuttora la Chiesa verso l’ideale della missione: nel 1914, Propaganda Missionaria, un giornale popolare, con lo slogan che è impegno di vita cristiana: “tutti propagandisti”, oggi diremmo: tutti animatori missionari; nel 1919 pubblicò una rivista per i giovani: Italia Missionaria; nel 1943 l’ultima sua rivista, che indirizza alle famiglie: Venga il tuo Regno. 

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