Diamo le ali ai missionari

  • Mar 29, 2024
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«Diamo le ali ai missionari» è la parola d'ordine di don Paolo Gariglio, oggi 93enne, e dei suoi amici. Lui ci racconta la nascita della sua peculiare vocazione all’aviazione: “avevo 12 anni e un amico del “Gino Lisa”, l’Aero Club torinese, mi fece sedere sul traliccio dell'aliantino, un trabiccolo trainato da una vecchia Balilla: si elevava a 15 metri e planava in 30 secondi. Io ero un passeggero clandestino ma fu il giorno della mia maxi-felicità: avevo provato il volo. Volevo andare oltre le nubi, con in mano la cloche di un aeroplano vero”. 

Don Paolo Gariglio, nel libro «Missionari con le ali» (Effatà, 2015) racconta la straordinaria avventura. Un volumetto dedicato a padre Aurelio Cannizzaro, missionario in Polinesia, «mio primo allievo pilota nel 1958-60 e poi capo della squadriglia dei piloti missionari Saveriani».

Nel 1958 nasceva il Centro internazionale di Aviazione e motorizzazione missionaria (Ciamm) con due scopi: formare al volo i missionari e le missionarie e aiutarli a procurarsi i vettori. L'Aero Club si schiera subito per avviare la Scuola di volo e accolse i primi preti mentre ci si rivolgeva alla Fiat e all'Aero Club d'Italia per reperire i primi finanziamenti. «Ottenni dalla diocesi l'uso di una parte del Seminario di via XX Settembre per ospitare gli allievi. Gli istruttori Ferruccio Vignoli e Mario Allesi accolsero le prime allieve che furono suore missionarie». Il 23 aprile 1961 il Ciamm è riconosciuto come personalità giuridica. «I primi missionari brevettati piloti e “pilotesse”, raggiunte le missioni, iniziarono l’apostolato con in mano una forza in più: saper volare sopra lande senza fine».

Gli artefici di questo progetto sono due: don Paolo Gariglio, allora viceparroco al Lingotto, e il generale dell’Aviazione militare Francesco Brach Papa. Don Paolo ha la passione per le due ali e nelle ore libere sfreccia nel cielo di Torino su un aereo da turismo con la scritta «Ronzino» sulla fusoliera. Loro due realizzano l’iniziativa pioneristica di dare le ali ai missionari. Il generale è entusiasta e, per finanziarla, scrive ai piloti d’Italia e agli appassionati di volo: «Basta gettare uno sguardo sul mappamondo per scoprire numerose e sterminate regioni. Se venissero costellate da una serie di piccole basi aeree, sarebbero facilmente coperte da una fitta maglia di veloci e tempestive rotte di missionari volanti». 

Le prime allieve sono quattro suore Luigine di Alba: con il velo e l’abito nero lungo seguono con attenzione le lezioni e apprendono velocemente la navigazione aerea. Una di loro dopo il primo volo dichiara: «È più facile che guidare l’auto!». Alla fine del primo corso 21 missionari ottengono il brevetto di volo. Alcuni fanno lezione in Svizzera per allenarsi su velivoli Piper attrezzati con sci, per imparare ad atterrare su campi innevati, corti e accidentati. Durante una cerimonia –con il sindaco Amedeo Peyron e l’avvocato Gianni Agnelli– il cardinale arcivescovo Maurilio Fossati appunta sulle talari l’aquila d’oro. Due delle quattro suore partono per il Bangladesh, un viaggio avventuroso di parecchie settimane a bordo di una nave cargo. Una dichiarerà: «L’aereo ci servì per attraversare il Gange che nel tempo delle piogge, con i suoi rigagnoli, si allargava per 40 chilometri». Il seme rimase attivo e costituì un prezioso servizio per l'evangelizzazione. 

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Peccato che l'avventura del Ciamm dura solo pochi anni a causa dell’improvvida decisione di trasferirlo a Roma, nell'illusione che la capitale della cristianità favorisse il Centro. Non è così: senza la spinta e l’entusiasmo degli ideatori, l’iniziativa finisce per arenarsi. 

L’Aviazione missionaria, comunque, prolifera in diverse regioni. I primi missionari-piloti della scuola torinese costruiscono decine di piccole piste in Africa, Amazzonia e Polinesia e istruiscono altri missionari che piloteranno aerei e idrovolanti. Tra coloro che hanno ottenuto il brevetto c’è il saveriano Siro Brunello: in Amazzonia nel 1964 trova missionari che operano con grande difficoltà: per spostarsi da un villaggio all’altro devono percorrere lunghi sentieri fangosi nella foresta e in canoa lungo i fiumi. La situazione cambia grazie al prete pilota. I missionari riescono a ottenere un «Piper» dall’Aero Club di Paranà, aereo piccolo, due posti stretti, il motore parte facendo roteare a mano l’elica ma svolge egregiamente la sua funzione. Racconta padre Siro: «Tra venti, piogge e la modesta potenza del motore del velivolo abbiamo vissuto qualche avventura».

*Articolo pubblicato in "La voce e il tempo", settimanale della diocesi di Torino.

Paolo Manna è sicuramente stato un missionario che ha saputo precorrere i tempi. Quello che lui diceva e proclamava, una chiesa che fosse davvero tutta missionaria, era una sensibilità molto rara e scarsa. Nella sua vita ha scritto tantissimo e una delle sue preoccupazioni era quella di avvicinarsi ai sacerdoti e ai seminaristi. Lui scriveva ai seminari e spesso le sue lettere non erano lette o erano censurate.

Prima di diventare il missionario che è stato in Italia Paolo aveva vissuto 13 anni di missione in Birmania (Oggi Myanmar). La sua salute non gli ha permesso di stare più tempo. Nel 1907 diceva di se stesso che era un missionario fallito. Poi seppe reagire e tutto lo zelo e l’impegno missionario che profuse nella sua vita è frutto di questa crisi, magari comune in tanti missionari, che seppe superare e trasformare in una opportunità per un progetto perfettamente missionario pieno di buoni frutti che sarebbero poi maturati nella teologia missionaria e nell’ecclesiologia del Vaticano II. La stessa che vediamo nell’orientazione che il papa Francesco oggi sta trattando di dare alla sua chiesa.

Paolo Manna è stato anche un grande formatore. I suoi resti riposano a Ducenta nei pressi di Napoli dove fondò un importante seminario missionario. La comunità del Pime è nata a Milano ma Paolo Manna, nella sua preoccupazione missionaria che rompeva ogni tipo di frontiere, vedeva il bisogno di raggiungere anche i seminari del sud Italia e, in ultima analisi, tutti i seminari del mondo. Rispondendo a un criterio ecclesiologico del suo tempo, affermava che se un parroco aveva spirito missionario... tutta la comunità cristiana avrebbe avuto lo stesso spirito e la stessa preoccupazione per tutta l’umanità.

Alla base del suo impegno e del suo zelo c’erano fondamentalmente due certezze: l’opera evangelizzatrice è prima di tutto nelle mani di Dio, per cui la missione ha una importante dimensione contemplativa, ma poi questa getta le sue radici nel cuore dell’uomo quando questo impara ad avere una profonda sensibilità per ogni fratello che, anche se non cristiano, è al centro delle preoccupazioni di Dio.

Quasi alla fine della sua vita, dopo anni di scritti e riflessioni, Paolo Manna diceva che la missione si può sintetizzare in tre verbi: Andare, Predicare e Rispettare. Il profondo rispetto per le culture è anche quello una caratteristica dello zelo missionario di Paolo Manna.

Giovanni Paolo II, il 4 novembre del 2001, giorno della sua beatificazione, così descriveva la sua santità: “nel Padre Paolo Manna, noi scorgiamo uno speciale riflesso della gloria di Dio. Egli spese l'intera esistenza per la causa missionaria. In tutte le pagine dei suoi scritti emerge viva la persona di Gesù, centro della vita e ragion d'essere della missione. In una delle sue Lettere ai missionari egli afferma: "Il missionario di fatto non è niente se non impersona Gesù Cristo... Solo il missionario che copia fedelmente Gesù Cristo in se stesso... può riprodurne l'immagine nelle anime degli altri" (Lettera 6). In realtà, non c'è missione senza santità, come ho ribadito nell'Enciclica Redemptoris missio: "La spiritualità missionaria della Chiesa è un cammino verso la santità. Occorre suscitare un nuovo ardore di santità fra i missionari e in tutta la comunità cristiana" (n. 90).

*P. Dinh Anh Nhue Nguyen è segretario generale PUM; Sr. Monika Juszka è segretaria nazionale POSI Polonia; Don Armando Nugnes è Rettore del Pontificio Collegio Urbano. Appunti della tavola rotonda tenuta nel Collegio Urbano di Roma il 15 gennaio 2023

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Breve profilo biografico

Il beato Padre Paolo Manna, del PIME, nacque ad Avellino il 16 gennaio 1872 e morì a Napoli il 15 settembre 1952; con la santità della vita e la passione missionaria dell’anima, è stato veramente la coscienza missionaria della Chiesa del ventesimo secolo, un vero cuore missionario per la Chiesa e per il mondo, come il grande apostolo Paolo di cui portava il nome e nel cuore la stessa passione per Gesù Cristo e il suo Vangelo.

Padre Manna donò la vita per l’evangelizzazione dei non cristiani, prima come missionario in Birmania (l’attuale Myanmar), che fu costretto a lasciare per malattia a soli 35 anni. Da allora si dedicò interamente alla diffusione dell’ideale missionario, con la parola e con gli scritti. Nel 1916 fondò l’Unione Missionaria del Clero.

Padre Paolo Manna evangelizzava soprattutto con la stampa. Scrisse diversi libri che sono fondamentali per capire la natura missionaria della Chiesa e l’obbligo per tutti i battezzati di realizzarla. Rifondò Le Missioni Cattoliche, oggi Mondo e Missione, e fondò tre riviste, che animano tuttora la Chiesa verso l’ideale della missione: nel 1914, Propaganda Missionaria, un giornale popolare, con lo slogan che è impegno di vita cristiana: “tutti propagandisti”, oggi diremmo: tutti animatori missionari; nel 1919 pubblicò una rivista per i giovani: Italia Missionaria; nel 1943 l’ultima sua rivista, che indirizza alle famiglie: Venga il tuo Regno. 

“ Dio da tutta l’eternità ha pensato a te. Ha amato te, proprio te. Egli ti ha chiamato all’apostolato per sola sua bontà. Ecco cos’è la vocazione, è questo sguardo di predilezione di Gesù!” Giuseppe Allamano

“ Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore, ascoltino gli umili e si rallegrino. Celebrate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”. Salmo 33

 

Carissimi missionari,

Oggi, 02 ottobre 2015, il nostro confratello padre Malaspina Bartolomeo celebra i suoi 80 anni di professione religiosa; si abbiamo letto bene, 80 anni di professione religiosa!

Che avvenimento straordinario e unico, dono grande per il nostro Istituto, grazia stupenda per il nostro missionario: che Dio Padre buono sia lodato sempre!

Carissimo padre Bartolomeo Malaspina, grazie per il dono della tua vita e della tua testimonianza. Grazie perché c’insegni che chi segue il Signore impara a donare, sapendo che riceverà cento volte di più.

Carissimo, magari quando si arriva a celebrare un giubileo così importante, viene spontaneo lo sguardo retrospettivo e la tentazione di pensare che, giunti nell’anzianità inoltrata, ormai il meglio della vita sia passato. Noi tuoi fratelli ti vorremmo dire che non è vero!

È passato il più, ma non il meglio della vita. Noi crediamo… che il meglio debba ancora venire: “Si direbbe che l’anima dei giusti, come i fiori, emani più profumo verso sera. È vero, verso la sera della vita, ogni anima di Dio profuma del buon odore di Cristo. Perciò noi guardiamo avanti”. (M.me de Stael, scrittrice tedesca!)

Carissimo padre Bartolomeo hai profuso 80 anni di servizio nella vigna del Signore, 80 anni di consacrazione per la missione; ci rallegriamo con te; l’Istituto ti è molto riconoscente, continua a pregare per noi e rimaniamo uniti nel Signore cercando ed accogliendo la sua volontà!

Che la Consolata, il Beato Giuseppe Allamano e Suor Irene Stefani, guidino i tuoi passi e ti accompagnino nel tuo cammino!

Fraternamente uniti e missionari, coraggio e avanti in Domino!

padre Stefano Camerlengo e tutti i Missionari della Consolata!

Roma 01.10.2015, Santa Teresina del Bambino Gesù, patrona dei missionari e della missione!

Le verità fondamentali di «Pinocchio» da Contro maestro Ciliegia. Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio, Jaca Book, Milano, 1977

Che cosa in realtà ha espresso il Collodi nel suo più celebre libro, di là dalle sue intenzioni consapevoli e dichiarate?
Non ha espresso nessuna delle ideologie correnti, che erano tutte ignote ai suoi destinatari e che d'altronde non erano più pacificamente accettate nella profondità della sua coscienza. E sarà sempre una prevaricazione dare di Pinocchio delle spiegazioni ideologiche di qualunque tendenza e di qualunque colore, come di fatto sono state date: conservatorismo moralistico, liberalismo illuministico, pauperismo, marxismo, psicanalismo ecc.
Non le ideologie ma la verità, di sua natura universale ed eterna, è contenuta in questo magico racconto e, servita com'era da un'alta fantasia e da una fresca ispirazione poetica, spiega la sua rapida affermazione e il suo duraturo trionfo.
Ma, per non lasciare nel vago le nostre affermazioni, quali sono specificamente le verità che senza possibilità di discussione, traspaiono nella storia del burattino?
Sono sette quelle che reggono e illuminano tutta la vicenda.

a) Il mistero di un creatore che vuole essere padre

Pinocchio, creatura legnosa, origina dalle mani di chi è diverso da lui; è costruito come una cosa, ma dal suo creatore è chiamato subito figlio. C'è qui l'arcano di un'alterità di natura, superata da uno strano, gratuito, imprevedibile amore.
Il burattino, chiamato sorprendentemente a essere figlio, fugge dal padre. E proprio la fuga dal padre è vista come la fonte di tutte le sventure; così come il ritorno al padre è l'ideale che sorregge Pinocchio in tutti i suoi guai, costituendo infine l'approdo del tormentato viaggio e la ragione della raggiunta felicità.

b) Il mistero del male interiore

In questo libro è acutissimo il senso del male. E il male è in primo luogo scoperto dentro il nostro cuore. Non è un puro difetto di conoscenza, come nell'illuminismo socratico; non è risolto tutto nella iniquità o nella insipienza delle strutture, come nell'ideologia liberalborghese in polemica con l'Ancien Régime o nell'ideologia marxista in polemica con la società liberalborghese. «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive» (Mc 7, 21).
Pinocchio sa che cosa è il suo bene, ma sceglie sempre l'alternativa peggiore (Vedi, c. 9: a scuola o al teatro dei burattini?; cc. 12 e 18: a casa o al campo dei miracoli col gatto e la volpe; cc. 27: a scuola o alla spiaggia a vedere il pescecane?; c. 30: dalla Fata o al Paese dei balocchi? ). Soggiace chiaramente alla narrazione di queste sconfitte la persuasione della «natura decaduta», della «libertà ferita», della incapacità dell'uomo a operare secondo giustizia, espresso nelle famose parole: «Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 19).

c) Il mistero del male esteriore all'uomo

La nostra tragedia è aggravata dal fatto che sono all'opera, esteriormente a noi, le potenze del male. Esse non sono viste come forze impersonali, quasi oggettivazioni delle nostre inclinazioni malvagie o dei nostri squilibri, ma come esseri astuti e intelligenti che si accaniscono inspiegabilmente ed efficacemente contro la nostra salvezza.
Nella fiaba queste forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe e raggiungono il vertice della intensità artistica e della lucidità speculativa nell'Omino, corruttore mellifluo, tenero in apparenza, perfido nella realtà spaventosa e stupenda raffigurazione del nostro insonne Nemico:
«Tutti la notte dormono, e io non dormo mai» (c. 31).

d) Il mistero della mediazione redentiva

L'ideologia illuministica aveva diffuso nel mondo l'orgogliosa affermazione dell'autoredenzione dell'uomo: l'uomo può e deve salvare se stesso, senza alcun aiuto dall'alto.
Tutta la seconda parte del libro (dal c. 16 in avanti, che si potrebbe considerare quasi il Nuovo Testamento di questa specie di Bibbia) è costruita per smentire questa che è l'illusione dominante della nostra cultura. Pinocchio, interiormente debole e ferito, esteriormente insidiato da intelligenze maligne più astute di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo col padre, di riportarlo a casa, di dargli un essere nuovo.
Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l'esistenza di questa salvezza che è donata dall'alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle.

e) Il mistero del padre, unica sorgente di libertà

La scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione è anch'essa una cifra: è il simbolo dell'uomo, che è da ogni parte condizionato, che è schiavo degli oppressori prepotenti e dei persuasori occulti, che è legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua libertà.
Il burattinaio di turno può anche essere soppresso dall'una o dall'altra rivoluzione, ma fino a che la creatura umana resta solitaria marionetta, ogni burattinaio estinto avrà fatalmente un successore.
Pinocchio non può restare prigioniero del teatrino di Mangiafuoco, perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. Il senso del padre è dunque la sola sorgente possibile della liberazione dalle molteplici, cangianti e sostanzialmente identiche tirannie che affliggono l'uomo.

f) Il mistero della trasnaturazione

Pinocchio riesce a raggiungere la sua perfetta libertà interiore e a realizzarsi perfettamente in tutte le sue virtualità soltanto quando si oltrepassa e arriva a possedere una natura più alta della sua, la stessa natura del padre. È la realizzazione sul piano dell'essere della vocazione filiale con la quale era cominciata tutta la storia.
Noi possiamo essere noi stessi soltanto se siamo più di noi stessi, per una arcana partecipazione a una vita più ricca; l'uomo che vuole essere solo uomo, si fa meno uomo.

g) Il mistero del duplice destino

La storia dell'uomo, come è concepita e narrata in questo libro, non ha un lieto fine immancabile. Gli esiti possibili sono due:
se Pinocchio si sublima per la mediazione della Fata nella trasnaturazione che lo assimila al padre, Lucignolo — che non è raggiunto da nessuna potenza redentrice — s'imbestia irreversibilmente. La nostra vicenda può avere due opposti finali: o finisce in una salvezza che eccede le nostre capacità di comprensione e di attesa, o finisce nella perdizione.

Verità cristiane

Queste sette convinzioni, si è visto, sono affermate e concIamate dal libro, e non so come sia possibile con qualche ragionevolezza dubitarne.
Orbene, è anche fuori dubbio che esse siano sette fondamentali verità della visione cristiana, e cioè:

  1. La nostra origine da un Creatore e la nostra vocazione a diventare suoi figli
  2. Il peccato originale e la decadenza della nostra volontà che da sola non sa resistere al male
  3. Il demonio, creatura intelligente e malvagia, che lavora alla nostra rovina
  4. La mediazione salvifica di Cristo, come unica possibilità di salvezza
  5. Il senso di Dio, fondamento della dignità umana e della nostra libertà di fronte a qualsivoglia oppressione
  6. Il dono della vita di grazia, che ci fa partecipi della natura di Dio
  7. I due diversi destini eterni tra i quali siamo chiamati a decidere.

Il Collodi che sazio delle ideologie si rivolge ai ragazzi d'Italia, con felice intuito di artista riscopre nell'anima dei destinatari l'unica concezione della realtà che accomunava tutti gli abitanti della penisola, prima che l'unificazione politica li dividesse nel profondo ed erigesse tra loro le barriere avverse delle ideologie.
I ragazzi italiani del 1881 potevano certo avere padri e zii clericali o anticlericali, cattolici intransigenti o conciliatoristi, filo-sabaudi o repubblicani, liberali o socialisti; ma nessuna di queste contrapposizioni li toccava minimamente. I ragazzi italiani del 1881 avevano come sola chiave interpretativa della realtà la concezione che potevano desumere dalle preghiere delle loro mamme e delle loro nonne, dagli affreschi e dalle vetrate delle loro chiese, dalle spiegazioni del vangelo del loro parroco, dal catechismo studiato per la prima comunione, dalle espressioni popolari della sapienza cristiana. I ragazzi italiani del 1881 non conoscevano ideologie, conoscevano la verità.
E il Collodi, entrando in comunione di spirito con loro in virtù della capacità penetrativa della sua arte, riconquista senza volerlo e probabilmente senza saperlo la verità della sua primissima giovinezza, la verità che aveva dato a sua madre la forza di vivere, la verità che ogni cuore umano non prevenuto percepisce d'istinto come la loro luce che salva. Si è in modo singolare avverata per lui la parola profetica del Signore Gesù: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 4).

Conclusione

E' dunque una lezione di vita che possiamo imparare: le ideologie. possono servire per far politica, per arricchire, per far carnera, per organizzare meglio l'esteriorità della vita terrena, per assicurarsi onori e vantaggi, per avviare rivoluzioni che lasciano la sostanza delle cose come prima, per intraprendere liberazioni che di solito si risolvono in un cambio di schiavitù; ma per la salvezza dell'uomo come uomo non servono. Per la salvezza occorre la verità: la verità sulla vita e sulla morte, sul senso dell'esistenza e sulla sua insignificanza, sulla felicità e sul dolore, sulla possibilità di speranza e sulla disperazione, sulla nostra origine e sul nostro ultimo destino.
La salvezza comincia quando l'uomo si rende conto che la sua vera alienazione sta nel rifugiarsi nell'una o nell'altra ideologia per la paura di misurarsi con la verità, e comincia a capovolgere questo mortificante processo. E' l'insegnamento più elevato e più utile che si possa trarre dalla vicenda umana di Carlo Lorenzini detto Collodi e dal «caso» letterario de «Le avventure di Pinocchio».

Alcuni interrogativi su Pinocchio e sul suo autore.
Conferenza tenuta a Collodi venerdì 16 aprile 1999 dall'Arcivescovo di Bologna, Cardinale Giacomo Biffi, tratto dall'Osservatore Romano del 17 aprile 1999

Devo molto a Pinocchio. Il mirabile burattino mi ha tra l'altro procurato l'onore inatteso dell'attenzione garbatamente critica di Giovanni Spadolini, il compianto storico e uomo politico che tutti abbiamo stimato. Per il centenario della morte di Carlo Collodi, all'Archiginnasio di Bologna, avevo svolto un tema abbastanza singolare e per la verità anche un po' provocatorio: "Pinocchio e la questione italiana". A differenza di altri che hanno reagito "a caldo" e senza diretta conoscenza di ciò che avevo detto, Spadolini molto correttamente si era fatto inviare il testo dell'intervento, e dopo qualche settimana ha reso pubbliche le sue considerazioni in un articolo della Stampa di Torino. Quelle argomentazioni sono state poi riproposte in un capitolo del suo ultimo libro (Il mondo frantumato, Milano 1992); un capitolo intitolato: Burattino d'Italia: l'unità secondo Pinocchio, che è tutto dedicato a discutere le mie posizioni.
Senza dubbio la preoccupazione principale di quelle pagine è di contestare una valutazione del Risorgimento che certo egli non poteva condividere. Ma questa è una discussione che non è il caso qui di riprendere.
Spadolini però esprimeva anche contestualmente alcune persuasioni a proposito di Collodi e di Pinocchio, che si possono sintetizzare in cinque punti.

  1. Per l'intelligenza della personalità e dell'opera del Lorenzini è fondamentale non dimenticarsi della sua adesione al messaggio politico e alla filosofia di Giuseppe Mazzini. È il suo mondo ideale, anche se bisogna riconoscere che con la partecipazione alle due prime guerre d'indipendenza egli si è poi di fatto adeguato a sostenere l'iniziativa sabauda del Regno Sardo, che risulterà vincente (cfr p. 386).
  2. Il pensiero mazziniano è perciò il sostrato teorico dell'inimitabile capolavoro, il quale manifesta il desiderio e la "finalità ideale, tipicamente mazziniana, di una società migliore" (p. 387).
  3. Sicché "la morale di Collodi è la morale dei doveri dell'uomo" (ib.), l'opera in cui Mazzini traccia la sua strada verso la rigenerazione dell'umanità.
  4. Pinocchio è un libro che annuncia questa "redenzione": "la redenzione laica di chi si appoggia sulle proprie forze, di chi fa leva sul libero arbitrio, sullo sforzo individuale, sul lavoro" (ib.).
  5. Nel lavoro si ravvisa appunto il mezzo salvifico decisivo: "solo il lavoro può difendere l'uomo da tutte le tentazioni e da tutte le perdizioni" (ib.).

Le ragioni delle mie riserve nei confronti dell'analisi spadoliniana emergeranno dal seguito di questa mia conversazione, che intende più che altro richiamare l'attenzione su alcuni interrogativi, ai quali non si è ancora data, mi sembra, una risposta esauriente e persuasiva.
Le questioni essenziali saranno due: una prima che concerne la biografia interiore di Carlo Lorenzini e una seconda che indirettamente tocca l'indole della famosa e impareggiabile fiaba. Ne aggiungerei una terza - e mi scuso di dover discorrere di qualcosa che mi riguarda personalmente - circa la mia "lettura teologica" diPinocchio.

La questione della "crisi" di Carlo Lorenzini

Ferdinando Martini ha affermato che il Lorenzini "tornò a Firenze dalla guerra nell'agosto del '48 mazziniano sfegatato". Che valore possiamo dare a questa notizia?
Nell'infanzia era stato educato da una madre religiosissima. Nell'adolescenza era andato a scuola dai preti, alunno per cinque anni del Seminario di Colle Val d'Elsa. Poi fino a diciotto anni frequenta i corsi di retorica e filosofia dei padri scolopi.
Ma tra il 1845 e il 1848 - mentre è impiegato alla libreria Piatti - ha tempo di assimilare le nuove idee di libertà civile e di indipendenza nazionale. Ed è plausibile che il magistero mazziniano si facesse sentire e apprezzare anche nell'atmosfera un po' sonnolenta del Granducato.
Sarà anche stato mazziniano, e dunque repubblicano e federalista. Ma nel 1859 prende la divisa del Re di Sardegna e serve la causa annessionistica e unitaria del Governo Piemontese.
Quando poi torna dalla seconda guerra d'indipendenza, il suo mazzinianesimo si è ormai dissolto. Nel 1860 - Pinocchio comincerà a percorrere le vie del mondo più di vent'anni dopo - su La Nazione il Collodi arriva a scrivere: "Tutto è favola in questo mondo, tutto è invenzione, dall'idea di Mazzini all'Ippogrifo dell'Ariosto... Che il cielo mi perdoni, ma l'anarchia regna nello Zodiaco..." (citato da Bruno Traversetti, Introduzione a Collodi, p. 65, Bari 1993). [È curiosa l'analogia con una frase di Euripide: "Nelle cose divine e nelle umane regna un grande disordine" (Ifigenia fra i Tauri)].
È una confessione sorprendente, e non va trascurata. Se nella prima frase ci rivela lo scolorimento delle sue precedenti convinzioni politiche, la seconda ci dà la misura della sua profonda inquietudine che qui pare raggiungere addirittura una dimensione cosmica e, per così dire, metafisica.
Del resto, facciamo fatica a pensare che tra il padre di Pinocchio e il pensatore ligure potesse istituirsi una consonanza autentica e duratura, tanto i due erano umanamente lontani e diversi; scanzonato e spregiudicato, ma concreto e realistico il primo; serioso, sistematico, intransigente, ma astratto e utopistico l'altro.
Collodi non avrebbe mai scritto un libro intitolato I doveri (e si ha qualche dubbio che potesse mai leggerlo). Il 3 agosto 1860, recensendo la commedia di Pietro Thouar (Dovere), così annotava: "I doveri sono sempre un peso! Ed io, che non sono mai stato troppo appassionato per i pesi né per i doveri, avrei fatto volentieri a meno di sentire per la seconda volta il Dovere e il peso in tre atti del sig. Pietro Thouar" (citato da Renato Bertacchini, Il padre di Pinocchio, Milano 1993, p. 183).
Ma non era solo la visione mazziniana a diventargli sempre più estranea: un po' tutte le idee ispiratrici del sommovimento risorgimentale, che pure avevano affascinato seriamente la sua giovinezza, non lo incantano più.
Beninteso, non rinnega niente del suo passato, non diventa affatto un reazionario; ma i risultati della grande impresa, cui aveva fattivamente contribuito, non gli piacciono. Non arriva a essere un nostalgico dell'Ancien Régime, anche se è stato notato che l'ambientazione del suo più famoso racconto sembra essere quella del casalingo e pacioso mondo del Granducato. Forse faceva capolino inconsciamente in lui anche l'insofferenza toscana nel dover ammettere che in fin dei conti l'Italia l'avevano fatta i "buzzurri". Più profondamente, è deluso della meschinità e della scarsa attenzione all'uomo del nuovo stato; e gli stessi miti dell'illuminismo, perfino l'istruzione obbligatoria per tutti, cadono sotto la sua ironia.
Comunque, a partire dal 1860 il suo malessere è così intenso da trasparire anche all'esterno e da essere percepito da chi gli sta attorno: "Non era più del suo umore di una volta - scrive il nipote Paolo Lorenzini - appariva chiuso, taciturno, malinconico, per quanto avesse sempre pronta la barzelletta e la facezia quando si animava un po'" (citato da E. Petrini in Studi collodiani, p. 486).
È sintomatico che la crisi spirituale e politica del Collodi coincida col suo "ritorno a casa". A partire proprio dal 1860 egli ricomincia a vivere con la madre, cui rimase sempre attaccatissimo. Angelina morirà solo quattro anni prima del figlio nel 1886 quando già il fatale burattino aveva cominciato la sua fortunata corsa nel mondo.
Non sarebbe il caso di studiare un po' più da vicino, accantonando gli schematismi ripetuti e convenzionali, la vicenda interiore del Lorenzini? E in che misura la sua lunga "crisi" sta all'origine della sua decisione - nel 1875 con la traduzione dei Contes di Perrault - di dedicarsi a scrivere per i bambini? Forse anche Le avventure di Pinocchio potrebbero ricevere un po' di luce in più.
Renato Bertacchini ha ben capito la fondatezza e anzi l'ineludibilità della problematica sulla quale ho cercato di attirare l'attenzione. Gli sono grato e gli lascio la parola.

"Le recenti polemiche suscitate dal Cardinale Giacomo Biffi...hanno fatto perdere di vista almeno due punti fondamentali riguardanti la "svolta" collodiana...
La crisi e il "rifugio" nella cosiddetta letteratura infantile che segnano gli ultimi quindici anni di vita e di lavoro del Lorenzini non sono un fatto soggettivo, ma devono iscriversi oggettivamente nella vicenda storica del Risorgimento, in quanto il padre di Pinocchio era deluso dai miti illuministici (alla base del processo risorgimentale), non meno che degli altri, moderni miti professati dal socialismo, dai quali non fu mai persuaso.
Fino allora, da pubblicista, il Lorenzini si era rivolto soprattutto "alla classe di quelli che contano, a quanti erano occupati nell'azione politica"; a un certo momento, il suo pessimismo, o meglio "il pessimismo del suo realismo" lo convince dell'inutilità di un simile orientamento. "Egli decide allora di cambiare destinatari e di spendere le sue fatiche non più per gli adulti, non più per i personaggi importanti sì sulla scena pubblica ma ormai ideologicamente fissati e sclerotizzati senza rimedio, bensì per i ragazzi che possiedono un'umanità ancora nativamente fresca aperta alla verità" (R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio, Milano 1993, p. 203).

La fortuna dell'opera

Le avventure di Pinocchio costituiscono un fenomeno letterario che a prima vista non è agevole giustificare.
L'Italia unita non ha dato all'umanità nessun'altra opera che, per il successo senza confini e la risonanza in ogni cultura, possa essere paragonata a questa.
Ed è libro nato quasi per caso. Anzi, si ha proprio l'impressione che il libro sia stato anche scritto di malavoglia. Apparso a puntate con scadenze irregolari sulGiornale per i bambini di Ferdinando Martini, non si ha notizia che sia stato preceduto da un disegno accuratamente elaborato e rifinito.
Due volte la pubblicazione è stata interrotta, e la prima addirittura con il proposito di non dare altro seguito alla vicenda.
È difficile immaginare peggiori premesse e condizioni più sfavorevoli alla nascita di un capolavoro.
Eppure Pinocchio si è imposto all'attenzione universale, è stato tradotto in quasi tutte le lingue, continua dopo più di un secolo a provocare dotti commenti e disquisizioni sottili. C'è dunque una evidente e strana sproporzione tra le premesse e gli esiti, che incuriosisce e fa riflettere.
Qual è la ragione di tanta fortuna? La domanda non ha ancora trovato una risposta decisiva e convincente.
Innegabilmente il fascino del libro è dato anche dalla freschezza della lingua, asciutta, essenziale, ma sempre scintillante e briosa. Siamo conquistati tutti, piccoli e grandi, dall'originalità e dalla imprevedibilità della trama. Una fantasia inesauribile sorregge l'intera favola e avvince ineluttabilmente chi si pone in ascolto di questo straordinario narratore.
Ma sono spiegazioni che francamente non ci sembrano sufficienti. Quei pregi si ritrovano, magari in misura minore, in altri scritti collodiani che, fossero rimasti soli, non avrebbero assicurato al Lorenzini molta fama oltre gli ultimi decenni dell'Ottocento e di là da un ambito poco più che regionale. Se quelle pagine ancora ci interessano, è perché sono del padre di Pinocchio.
Tanto meno si può indicare tra le cause della riuscita "cosmica" del racconto il suo messaggio etico e il suo valore educativo.
C'è sì del moralismo facile e convenzionale ne Le avventure di Pinocchio. Ma è precisamente l'aspetto del libro che alla mia giovinezza l'aveva reso uggioso e insopportabile. Per fortuna - e me ne sono poi avveduto - è un moralismo alleggerito e superiormente riscattato dal distacco e dall'ironia dell'autore, il quale (è già stato notato) dimostra più simpatia per il suo sfaticato e trasgressivo protagonista che non per il Grillo parlante (il solo di tutta la storia che poteva forse aver letto I doveri di Giuseppe Mazzini).
C'è anche in quelle pagine, doverosamente, l'esaltazione del lavoro. Ma su questo argomento il Lorenzini si è sempre dimostrato allergico a ogni enfatizzazione e a ogni retorica. Proprio nel 1881 - anno di nascita dell'immortale burattino - a chi si congratulava con lui che aveva raggiunto il giorno bellissimo della pensione, rispondeva: "Potrà essere un bel giorno per chi ha sgobbato cento anni, ma per me, che non ho fatto nulla, è un giorno come tutti gli altri".
Si sente una certa condivisione e un'attitudine di simpatia nei confronti del suo accuratamente delineato "ragazzo di strada".
"L'uomo che lavora, dice il ragazzo di strada nella sua arguta ignoranza, non può essere fatto a immagine e somiglianza di Dio: perché Dio lavorò appena sette giorni e sono ormai seimila anni che riposa" (Collodi, Opere, Milano 1995, p. 181).
Penso che il Lorenzini si sarebbe meravigliato - e probabilmente anche divertito - nel sentirsi lodare come il cantore di quella religione del lavoro, "segno distintivo del nuovo laicismo operoso su cui doveva fondarsi lo stato italiano" (Spadolini, c.c., p. 387).
Egli del resto si è sempre compiaciuto di presentarsi non solo come uno scrittore ma anche come un lettore che non aveva propensioni pedagogiche prevalenti: “io chiamo belli i libri che mi piacciono, e se, oltre a piacermi, si provano anche a volermi istruire, chiudo un occhio e tiro via. All'opposto chiamo brutti i libri che mi annoiano...".
Come si può risolvere allora questa questione?
La mia ipotesi è che la forza intrinseca e l'attrazione nascosta di Pinocchio stanno nel fatto che vi si raffigura oggettivamente la realtà delle cose come è davanti agli occhi del Creatore, come è stata rivelata dal figlio di Dio, unico Salvatore e unico vero Maestro, come è da sempre offerta alle genti dalla predicazione ecclesiale.

"Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, una carisma profetico più alto della sua militanza politica. Così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo.
L'ortodossia, che non avrebbe potuto superare con le proprie vesti gli sbarramenti censori della dittatura culturale dell'epoca e della stessa coscienza esplicita dello scrittore, travestita da fiaba eruppe dal profondo dello spirito e risonò apertamente. In quella fiaba gli italiani di istinto riconobbero la loro canzone di sempre e gli uomini di tutti i paesi avvertirono inconsciamente la presenza cifrata di un messaggio universale" (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia, Milano 1998, pp. 16-17).

Legittimità e correttezza di una lettura teologica

È quasi un luogo comune che i massimi libri italiani per l'infanzia - Pinocchio appunto, e il Cuore di De Amicis - siano del tutto areligiosi: non vi compare mai il nome di Dio e meno che meno c'è in essi qualche traccia o qualche flebile eco del culto cristiano. Possiamo convenirne, anche se nessun collodiano degno di questo nome dovrebbe sentirsi lusingato dall'accostamento.
Non meraviglia perciò che un commento teologico a Le avventure di Pinocchio sia stato accolto, fuori dall'area cattolica, con poco entusiasmo e molta sufficienza, in alcuni casi con qualche fastidio e persino con indignazione.
Si è parlato di "libro parallelo", e dunque estrinseco, gratuito e arbitrariamente giustapposto a quello del Lorenzini: un'operazione illegittima di annessione di un autore assolutamente "laico" a una "parrocchia" che non era la sua. Insomma, un ennesimo caso di invadenza clericale.
Per la verità, mi ero dato premura di informare i miei eventuali lettori del carattere innocente e pacifico dei miei intendimenti: lungi da me il pensiero - dicevo - "di incolonnare dietro i santi stendardi uno spirito laico e libero come il Collodi" (G. Biffi, o.c., p. 222).
Con giovanile impertinenza avevo anzi dichiarato che il pensiero dell'autore non mi interessava affatto: mi bastava rendermi conto della stupefacente analogia - di più, della perfetta concordanza - tra la struttura oggettiva del racconto e la struttura oggettiva della visione di fede.
Confessavo di essere stato ammaliato e divertito dal "gioco del Padre che si compiace di caricare del suo messaggio le parole più disparate, anche quelle che a un primo esame sembrerebbero disadatte o lontane" (o.c. p. 223). Che se il Lorenzini fosse stato ateo - scrivevo - "il gioco mi sarebbe piaciuto anche di più, perché sarebbe apparso più scintillante l'umorismo di Dio" (ib).
Il problema è dunque uno solo: quello di appurare la fondatezza di quella "analogia" e di quella "concordanza" di cui si parlava. Il volume da me pubblicato non mira ad altro.
Non potendo qui infliggere l'esposizione analitica dell'intero suo contenuto, mi limiterò a indicare gli elementi più rilevanti e, a mio parere, meno contestabili.

  1. La prima corrispondenza che si impone riguarda la concezione della storia del mondo e dell'uomo. Nell'Orlando Furioso - cui Pinocchio è stato giustamente paragonato per la felice arbitrarietà degli accadimenti e l'indole quasi marionettistica dei personaggi - la vicenda non ha un inizio necessario né una fine obbligata: il poema potrebbe cominciare e concludersi in qualsivoglia punto, senza che l'economia generale dell'opera ne risulti alterata. È la visione del paganesimo greco: la storia è una interminabile tela di Penelope. Qui invece c'è un avvio (creazione e fuga dal creatore) che è la premessa indispensabile e il senso di tutto ciò che poi avviene: c'è lo sviluppo di un dramma in cui si determina la scelta tra due opposti destini (quello di Pinocchio e quello di Lucignolo); c'è una "escatologia" conclusiva (ritorno al Padre e trasnaturazione). Vale a dire, qui c'è esattamente la prospettiva cristiana.
  2. Pinocchio all'origine non è "generato", è "costruito": c'è dunque una eterogeneità di natura col "costruttore". Ma il "costruttore" lo chiama subito "figlio". Il Creatore misteriosamente vuol essere anche "padre", in questo modo viene immessa nella creatura l'aspirazione a oltrepassare l'alterità e a elevarsi ontologicamente. È la verità della "vocazione soprannaturale": colui che è stato fatto dal niente è destinato a partecipare nella vita di grazia alla natura divina
  3. La nostra libertà è una libertà ferita. Pinocchio in tutte le occasioni capisce sempre qual è la cosa giusta da fare e la vorrebbe, ma sceglie infallibilmente la cosa sbagliata. È l'incapacità dell'uomo a operare secondo giustizia in virtù del solo libero arbitrio, come è denunciata da san Paolo: "Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (Rm 7, 29).
  4. La drammaticità della nostra condizione è accresciuta per la presenza attiva di forze estranee che spingono al male. Esse sono raffigurate primariamente dal Gatto e la Volpe, ma raggiungono la migliore e più efficace rappresentazione nell'Omino, corruttore mellifluo che conduce i ragazzi al Paese dei Balocchi. Non c'è in tutta la letteratura della cristianità immagine del demonio più intelligentemente effigiata. Tenero in apparenza, perfido nella realtà, è il nostro insonne nemico: "Tutti la notte dormono, e io non dormo mai" (Pinocchio c. 1).
  5. L'ideologia illuministica aveva diffuso l'orgogliosa affermazione di una possibile "autoredenzione" dell'uomo. Ebbene, tutta la seconda parte di questo libro (dal capitolo 16 alla fine) parrebbe costruita proprio per smentire questa che è l'illusione dominante della nostra cultura. Pinocchio, interiormente svigorito, esteriormente insidiato da esseri maligni più astuti di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza nonostante la sincerità dei suoi sforzi, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo al padre, di riportarlo a casa, di dargli una nuova natura. Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini manifesta appunto questa necessaria mediazione salvifica, che secondo la fede è svolta dal Figlio di Dio fatto uomo, il quale prolunga la sua azione nella storia per mezzo della Chiesa.

Non mi resta allora che rivendicare l'intemerata correttezza metodologica della mia lettura.
A darne una giusta valutazione, il pensiero personale del Lorenzini, le idee diffuse nella società in cui viveva, la cultura all'epoca dominante, non vanno chiamate in causa. Il nocciolo del problema si riduce ad accertare se ci sia o non ci sia questa sorprendente correlazione tra il racconto collodiano, come è in se stesso a prescindere dagli intenti dell'estensore, e la storia della salvezza, come è contenuta e proclamata nell'annuncio evangelico.
Né gli studiosi della vita e delle opere del Collodi né i critici letterari né gli indagatori del nostro Ottocento, propriamente parlando, hanno a questo proposito qualcosa da dire. Competente a giudicare se la struttura oggettiva di una narrazione sia o no conforme alla struttura oggettiva della verità rivelata è il teologo e, in ultima analisi, il magistero della Chiesa.
Senza dubbio, questo modo di accostarsi a Pinocchio abbastanza spregiudicato e divertito non è esente da un certo gusto di cantare fuori dal coro.
Ma proprio per questo - se non mi illudo - non è troppo lontano dallo stile e dall'estro del Collodi. Se è presunzione, posso ancora sperare nella misericordia del Signore e nella vostra.

Libro “laico” o libro “cattolico”?
Dall'Introduzione al Pinocchio illustrato da Mario Ceroli

Una parola che nelle pubblicazioni ricorre spesso a proposito di Pinocchio è l'aggettivo “laico”. È sembrata spesso a molti una qualifica ovvia e indiscutibile: quasi una specie di “dogma”.
Noi non abbiamo difficoltà “a priori” né obiezioni di principio che ci impediscano di ratificarla. E tuttavia riteniamo che anche in questo caso sia più utile non rinunciare a un attento esame e a una valutazione criticamente fondata.

I VARI SIGNIFICATI DI “LAICO”

“Laico” è vocabolo tipicamente ecclesiale. Nasce e tuttora sussiste entro la “societas christiana”: solo in tempi relativamente recenti è trasmigrato per altri lidi. A rischio di apparire pedanti e forse anche uggiosi, tentiamo una breve rassegna dei vari sensi che esso è andato via via assumendo.
Originariamente ed etimologicamente designa colui che, avendo ricevuto il battesimo, appartiene al “popolo di Dio” (in greco: “laòs”). In partenza, esprime dunque un concetto affermativo (che indica “appartenenza”) e di per sé conviene a tutti i cristiani.
Ben presto però il termine fu riservato a quei battezzati che non sono annoverabili né tra il clero né tra i monaci o comunque tra i religiosi. Assunse quindi una connotazione particolare e negativa (in quanto esprimeva una “non appartenenza”).
Da qualche secolo (e segnatamente in Italia) “laico” ha cominciato a denotare colui che si dichiara indipendente dall'autorità, dalla dottrina, dalle direttive della Chiesa, e intende sottrarsi alla sua influenza.
Può arrivare a configurare, nei casi estremi, un'attitudine decisamente anticlericale, antiecclesiale e perfino antireligiosa. Ma in questa ipotesi è più corretto e meno ambiguo parlare non di “laicità”, bensì di “laicismo”.
Infine si può definire “laico” chi, senza essere programmaticamente ostile, nel presentare le idee, i fatti, le persone evita ogni evocazione di natura teologica o cultuale.

L'ATTEGGIAMENTO DEL COLLODI

Come si poneva il Collodi nei confronti della religione e della Chiesa? Non mancano nei suoi scritti giornalistici - ed è ovvio - le punte polemiche contro il potere temporale del papa. C'è anche qualche osservazione contro il celibato ecclesiastico, ed è una cosa normale: è curioso che così spesso gli scapoli impenitenti vogliano a tutti costi far sposare i preti. Nel complesso però bisogna riconoscere che non emerge mai in lui un vero e proprio anticlericalismo e, meno che meno, una disistima per la fede cristiana.
“Non sono un miscredente - disse un giorno alla madre. - A Dio ci credo. Stia tranquilla che ci credo”.
Anche le pagine di Pinocchio confermano queste notizie. Se non ha ambizioni teologiche, né presenta preti e frati, il libro di Collodi non si mette nemmeno in opposizione religiosa, non trasuda quell'anticlericalismo che fa capolino continuamente in altri scrittori per l'infanzia del tempo. Quella del Lorenzini era una religiosità silenziosa, che stava fedele alla sublimità del Cristianesimo.

“LAICITÀ” DI PINOCCHIO

Si può allora parlare di una “laicità” di Pinocchio? Si può e si deve, se con ciò si intende sottolineare l'assenza nel libro di ogni elemento ecclesiastico e cultuale nonché di ogni esplicito riferimento alle tematiche religiose.
E non è certo una latitanza casuale: descrivere nell'Italia dell'Ottocento le borgate, il paesaggio, la vita associata, senza che nel racconto compaia mai nemmeno incidentalmente un campanile, un parroco, un rito, non poteva che essere il risultato di una intenzionalità. L'unico cenno di religiosità si trova - ripetuto alla lettera due volte - nel comportamento dei pescatori che assistono alla scomparsa in mare prima di Geppetto e poi del burattino: “Brontolando sottovoce una preghiera si mossero per tornare alle loro case” (cap. XXIII). Ma il particolare ha motivazioni puramente artistiche, per la concretezza della scena rappresentata.
A parte ciò, non c'è traccia di qualche estrinseca utilizzazione del “divino” o del “religioso”: del “surnaturel plaqué”, come dicevano un tempo i teologi francesi. In questo senso la “laicità” di Pinocchio è incontestabile.
Ma è una “laicità” analoga, per intenderci, a quella del racconto evangelico del “figlio prodigo”, dove (a differenza di quel che avviene in altre parabole di Gesù) non si ricordano né Abramo né Mosé né i profeti né i sacerdoti né il tempio. O alla “laicità” del Cantico dei Cantici, che pure ha nutrito la letteratura mistica di ogni tempo.

“CATTOLICITÀ” DI PINOCCHIO

Pinocchio è un libro “cattolico”? Se con questo termine si intende alludere alla letteratura edificante o apologetica o catechetica che così viene talvolta denominata, bisogna rispondere senza esitazione di no. Per altri due aspetti si può dare invece un giudizio positivo.
In primo luogo, se ci si rifa all'origine del nome: “cattolico” significa etimologicamente “secondo il tutto” (“kath'olon”). Si può quindi intendere con questo aggettivo una visione delle cose, una mentalità, una proposta di comportamento e di vita che rifugga per quanto è possibile da ogni parzialità e da ogni selezione arbitraria tra le “verità sostanziali”.
Pinocchio è “cattolico” perché in esso coesistono e reciprocamente si integrano e si equilibrano il realismo disincantato nel valutare le tristi situazioni di fatto che inevitabilmente si incontrano e la fiducia nella possibilità di raggiungere un destino di gioia; la consapevolezza della debolezza umana e la speranza di un aiuto decisivo dall'alto; il senso della giustizia e il primato della misericordia; il coraggio tanto di guardare in faccia al male quanto di credere nella vittoria finale del bene. E così via.
Ma in un senso ancora più rigoroso questo libro può essere considerato “cattolico”, ed è per la perfetta corrispondenza tra il racconto collodiano e la storia della salvezza come è proclamata nell'annuncio evangelico, tra la struttura della sua vicenda e la struttura intrinseca all'ortodossia, tra le “verità sostanziali” che esso propone e i caposaldi dell'insegnamento della Chiesa.

CONCLUSIONE

Gesù ha detto: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25). Queste cose: cioè i misteri del Regno di Dio, dell'uomo e del suo destino.

Proprio nel decennio in cui nascevano Le avventure di Pinocchio uomini straordinariamente dotti e perspicaci elaboravano e facevano conoscere le loro dottrine: Friedrich Nietzsche pubblicava le sue opere più importanti ed enunciava l'ideologia del “superuomo” e della “volontà di potenza”; uscivano i volumi di “Das Kapital” di Karl Marx; Sigmund Freud portava a termine il suo percorso accademico. In quegli anni venivano così poste dai “sapienti” e dagli “intelligenti” le premesse del mare di lacrime che nel secolo ventesimo avrebbe irrigato la terra.

All'opposto, in Carlo Lorenzini si è in modo singolare pienamente avverata un'altra parola profetica del Signore: “Se non diventere come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli” (Mt 18, 3). Il Collodi si è fatto piccolo coi piccoli, e in tal modo ha potuto diventare annunciatore del Regno, maestro di vita, seminatore di consolazione e di gioia.

Fonte http://www.gliscritti.it/

Il 16 Aprile scorso abbiamo iniziato un nuovo servizio missionario presso la splendida chiesa in stile neogotico del “Corpus Domini” vicino a Porta Pia, nella città di Roma. Il fatto che la chiesa sia dedicata a Gesù Eucaristia lo viviamo come un incoraggiamento da parte del nostro Padre Fondatore che ci ha esortato ad essere “sacramentini” e a fare dell’Eucaristia il punto vitale di riferimento dal quale attingere il fuoco della missione.

In questa chiesa aperta al pubblico, che per molte generazioni (dal 1889) è stata e continua ad essere punto di riferimento nel cammino della fede, momento forte della vita comunitaria è l’adorazione eucaristica quotidiana partecipata assiduamente.

Il mese di maggio lo abbiamo vissuto, in sintonia con la Chiesa nel mondo, all’insegna della devozione mariana e partecipando con la preghiera alla beatificazione di Suor Irene Stefani.

Nel mese di giugno, anche se siamo arrivati da poco tempo, non potevano tralasciare la festa della nostra Patrona, la Vergine Consolata e così l’11 giugno, iniziando la novena, l’icona della Consolata entra per la prima volta nella chiesa del Corpus Domini. La comunità dei fedeli ha accolto con molta gioia e affetto filiale l’immagine della Consolata ammirandone il suo dolce volto.

Le preghiere missionarie e le riflessioni quotidiane sulla consolazione hanno aperto il cuore dei partecipanti allo spirito della missione. Una lampada, simbolo della luce del Vangelo e della fede da testimoniare, con dei nastri che rappresentavano i cinque continenti sono serviti a richiamare l’universalità della missione.

Il 20 giugno abbiamo concelebrato la solenne messa della Consolata. L’assemblea ha partecipato con gioiosa e profonda devozione. I nostri nuovi amici non solo hanno accolto l’icona nella chiesa, ma soprattutto hanno accolto nel loro cuore la Vergine Maria con il dolce titolo di Consolata.

Possa la Vergine Consolata infondere serenità nel cuore di ognuno e consolazione in ogni famiglia nell’affrontare con fede le sfide della vita quotidiana. A Lei, nostra Madre premurosa, e al Beato Padre Fondatore, affidiamo la nostra nuova presenza missionaria nella città e diocesi di Roma.

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