L’incontro con lo scrittore, filosofo e professore Daniel Munduruku è avvenuto presso la scuola Calamandrei, a Firenze, a fine marzo. Grazie all’impegno della Casa do Brasil di Firenze, realtà ideata dalla ricercatrice e linguista Ana Luiza de Souza, nel 2014, un gruppo di educatrici volontarie tenaci lavora sodo per trasmettere ai bambini italo-brasiliani, attraverso letture e giochi, la storia linguistico-culturale del Brasile, con l’obiettivo di garantire lo sviluppo emotivo e cognitivo dei piccoli, ovviamente nel rispetto della diversità e della società multiculturale in cui vivono.
Daniel Munduruku, circondato da una platea di bambini e genitori attenti, ci saluta nella sua lingua, il munduruku, appartenente al tronco linguistico “tupi”. Utilizzando il linguaggio semplice dei grandi maestri del racconto quando si rivolgono a piccoli lettori e piccole lettrici, lo scrittore spiega che, nella sua lingua, il tempo futuro non esiste, ma si fa fede soltanto al passato e al presente.
Con un tono di voce caldo, coinvolgente, accompagnato da un sorriso rassicurante, Daniel riesce a catapultarci in Amazzonia, per approfondire un po’ le dinamiche che tengono salde la società munduruku. Senza alcun bisogno di supporto elettronico o immagini proiettate, ci addentriamo nel cuore della Foresta: siamo accanto a un bambino indigeno, che sta compiendo i primi passi; lo vediamo sorvegliato a vista dagli adulti, tutti responsabili della sua incolumità. Ci immergiamo successivamente nel lato oscuro della notte, cercando di capire i misteri che si celano dietro “quando nessuno esce”; impariamo un po’ di più sul significato profondo dei dipinti cerimoniali sul corpo dei guerrieri e sulle piume colorate, che rallegrano gli ornamenti portati dallo scrittore, sul capo, e che scendono poi, a cascata, tra i suoi capelli.
Daniel ci spiega che, nella cultura indigena, il ballo e il canto hanno un significato profondo, legata al senso di gratitudine verso la Madre Terra. “Cantiamo e dipingiamo i nostri corpi in diversi momenti della nostra vita”, chiarisce lo scrittore, “per imitare la bellezza della Natura, che si esprime negli esseri viventi”. Sottolinea che la gratitudine andrebbe insegnata ai bambini anche nelle scuole, affinché capiscano “l’importanza di vivere in un pianeta così bello” e la propria responsabilità “nella manutenzione di questa bellezza.”
Nel suo racconto della quotidianità, all’interno di una comunità indigena, emergono i valori trasmessi dagli anziani ai bambini, affinché resistano alle avversità della vita. “Applichiamo i principi della solidarietà, del mutuo aiuto, della generosità e dell’abbondanza per tutti, da almeno cinquantamila anni, e portiamo un immenso rispetto per la saggezza dei nostri anziani”, ricorda lo scrittore, visibilmente emozionato, aggiungendo che “gli indigeni non si etichettano mai come ‘padroni del mondo’, anzi: si riconoscono come una piccola parte che, unita ad altre, lo sorregge”.
Il viaggio immersivo nelle sue carezzevoli parole cattura adulti e bambini, concludendosi con una spiegazione sul sistema politico-gerarchico delle comunità indigene, oggigiorno, quasi sempre in mano alle donne, per via della migrazione di massa dei giovani maschi verso le città.
Con alle spalle circa 65 libri pubblicati e tre lauree in Filosofia, Storia e Psicologia, oltre a un Phd in Educazione, Daniel Munduruku porta avanti, con coraggio e tenacia, la sua lotta per la decolonizzazione delle menti, fuori e dentro le università, forte della tradizione orale dei popoli indigeni, per i quali “l’oralità non si traduce soltanto nelle parole che escono dalla bocca”, ma in una “coreografia che fa ballare il corpo”. In uno dei suoi libri, riporta che i grandi raccontastorie agiscono come gli sciamani: fanno magie con le loro parole, affinché “corpi fisici e spirituali danzino, al loro suono”.
Per gli sciamani, infatti, la pioggia cade perché si supplica, il fuoco brucia perché “la voce commossa delle mani lo invita a fare” e, infine, il vento porta notizie da lontano, perché ascolta l’appello umano, come se la Natura ne fosse attratta, sedotta dalla parola.
Recatosi in Europa, dietro indicazione dell’Astrid Lindgren Memorial Award, premio letterario internazionale destinato ad autori attivi nel campo della letteratura per l’infanzia, in uno dei suoi tanti libri, dal titolo “O banquete dos deuses: conversa sobre a origem e a cultura brasileira”, Daniel Munduruku scrive: “È comune che si chieda ai popoli indigeni cos’è la vita per loro. Oso dire che l’indigeno non fa questo tipo di domande, perché le congetture portano con sé l’angoscia. Nel pensiero di un popolo, c’è il presente e tutto ciò che esso comporta in termini di costi e benefici. Il presente, però, è legato al passato, e non un passato fisico, bensì uno memoriale, delle gesta dei creatori, degli eroi e dell’inizio dei tempi.”
Dipingendo il capitalismo come “un mostro” che inghiottisce inesorabilmente interi biomi, veniamo tutti proiettati nel futuro, costretti così ad accumulare ricchezze per un domani ipotetico, al quale forse non arriveremo, facendo fede ai nostri desideri e alle nostre fantasie più recondite.
“Non c’è un’alternativa ambientale alle catastrofi provocate dal capitalismo”, afferma con convinzione, “ma è possibile comunque lavorare sull’alternativa umana, sulla mentalità di persone che considerano, a ogni costo, il progresso una necessità e una virtù” trattandosi, in realtà, “di una strada senza ritorno, con delle conseguenze gravissime per la vita e la salute umana”.
Grazie al supporto di Tucum Italia, un progetto ideato dall’educatrice Nair Pires, incentrato sulla sensibilizzazione e promozione della cultura delle popolazioni indigene, il viaggio di Daniel Munduruku è poi proseguito verso il Veneto, dove ha tenuto conferenze presso l’Università di Padova e alla Ca’ Foscari, a Venezia.
* Claudiléia Lemes Dias è scrittrice e saggista, autrice del libro “Morfologia delle passioni”. Foto: Tucum Italia.
Manifestazione nella 21esima edizione dell'Accampamento Terra Livre, la più grande assemblea di comunità indigene del Brasile, che quest’anno ha mobilitato, dal 7 al 13 aprilea Brasilia, circa 10.000 partecipanti, compresi i leader di nove Paesi del bacino amazzonico. Foto: Eline Luz/ANDES-SN
Gli indigeni a raccolta attaccati dalla polizia
Una folta rappresentanza dei popoli indigeni del Brasile si è data appuntamento a Brasilia – dal 7 all’11 aprile – per dare vita alla ventunesima edizione dell’«Acampamento terra livre» (Atl). Il raduno – organizzato dall’«Articolazione dei popoli indigeni del Brasile» (Apib), associazione che comprende sette rappresentanze regionali – è avvenuto in un periodo storico particolarmente grave per i popoli autoctoni a causa dei ripetuti attacchi ai loro diritti, formalmente sanciti dalla Costituzione del 1988 e dai trattati internazionali.
Se da una parte c’è un presidente aperto alle istanze indigene come Lula, dall’altra c’è un Congresso dominato dai «ruralisti» (latifondisti, proprietari terrieri, imprenditori dell’agrobusiness, imprenditori del settore minerario) che vedono nei popoli indigeni un ostacolo ai loro interessi particolari. L’obiettivo di questo gruppo è uno solo: impossessarsi a qualsiasi costo delle terre occupate dalle popolazioni indigene per sfruttarle a piacimento.
La ministra dell'ambiente Marina Silva tra Sônia Guajajara, ministra dei popoli indigeni (a sinistra), e Joênia Wapichana, presidente della Funai (a destra), durante un incontro all'«Acampamento terra livre» (Atl). Foto: Fabio Rodrigues-Pozzebom - Agência Brasil.
Negli ultimi anni, gli attacchi ai diritti costituzionali dei popoli indigeni hanno trovato la massima espressione nell’emanazione della legge 14.701/2023, nota come Lei do marco temporal («Legge del limite temporale»), concernente il riconoscimento, la demarcazione, l’uso e la gestione delle terre indigene. Una norma – si noti bene – emanata dal Congresso che prima ha ignorato il giudizio di incostituzionalità del Supremo tribunale federale (Stf) e poi ha respinto i veti posti dal presidente Lula.
La legge è, dunque, vigente trovando su fronti opposti i popoli indigeni e il Congresso a maggioranza ruralista. Per cercare di trovare una soluzione consensuale, il ministro Gilmar Mendes del Supremo tribunale federale ha formato una Commissione speciale di conciliazione. Tuttavia, il Consiglio indigenista missionario (Cimi), organo meritorio legato alla Conferenza episcopale brasiliana (Conferência nacional dos bispos do Brasil, Cnbb), da oltre cinquant’anni a fianco dei popoli indigeni, ha commentato che la conciliazione proposta «potrebbe comportare conseguenze ancora più gravi per i popoli rispetto alla stessa Legge 14.701».
"Acampamento terra livre 2025". Foto: @edinigfekanhgag
È in questo clima di incertezza e di opposizione frontale che circa ottomila indigeni (questa è stata la stima) si sono ritrovati nella capitale brasiliana. Le giornate sono state però segnate da un brutto evento. Il 10 aprile, durante una marcia programmata («A resposta somos nós», la risposta siamo noi), la polizia (sia quella nota come legislativa sia quella militare) ha attaccato un gruppo di indigeni, colpiti con gas lacrimogeni e spray al peperoncino. Le autorità hanno accusato i manifestanti di aver tentato di occupare spazi non autorizzati. Gli organizzatori hanno respinto l’accusa, replicando che si è trattato di un atto deliberato della polizia. Il fatto è riuscito a sviare l’attenzione pubblica dalle questioni poste dai popoli indigeni, evidenziando nel contempo il pesante clima anti indigeno vigente nel paese.
Tutto questo è stato raccontato anche nel comunicato finale dell’Apib, testo che si apre con un’affermazione e un’accusa incontestabili: «Noi indigeni siamo sempre stati qui! Abbiamo resistito all’invasione dei nostri territori e al genocidio perpetrato contro i nostri antenati e contro di noi per 525 anni». La conclusione è – invece – un grido, forse un po’ enfatico, ma sicuramente pieno di orgoglio e di speranza: «La nostra lotta è per la vita, per la Madre terra, per la Costituzione e per il futuro dell’intera umanità».
* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it
La Conferenza dei Religiosi del Brasile (CRB) ha annunciato la partecipazione speciale di Suor Simona Brambilla, MC, Prefetta del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, alla 27ª Assemblea Generale Elettiva, che si terrà dal 7 all'11 luglio 2025 a Brasilia (DF). Si tratta di una presenza storica considerando che la missionaria della Consolata è la prima donna Prefetta di un Dicastero vaticano.
Nell'ambito del programma, il 7 luglio si svolgerà un'attività speciale aperta a tutti i religiosi e le religiose. La presenza di Suor Simona sarà un segno forte della vicinanza, dell'ascolto e dell'attenzione del Dicastero per tutta la vita religiosa consacrata in Brasile, che conta 35.000 religiosi e religiose in tutto il Paese. La sua partecipazione rappresenta un gesto di comunione e di speranza, in sintonia con il cammino sinodale vissuto dalla Chiesa e con le sfide della missione nel nostro tempo.
La CRB nazionale accoglie la presenza di Suor Simona Brambilla con profonda gratitudine e riconosce in questo gesto un vero e proprio impulso a continuare a coltivare la speranza, la profezia e la fedeltà al Vangelo.
L'Assemblea elettiva, che si svolgerà dall'8 all'11 luglio, avrà come tema “La vita religiosa consacrata: sentinella di speranza in tempi di crisi” e riunirà i Superiori e Superiore Maggiori di diversi Istituti e Congregazioni presenti in Brasile.
CRB Regionale di Bahia/Sergipe durante un incontro sul Sinodo sulla sinodalità e la vita consacrata. Foto: CRB
Il tema scelto per la 27ª Assemblea Generale della CRB - “Vita religiosa consacrata: sentinella di speranza in tempi di incroci” - è nato dal discernimento collettivo sul momento storico che stiamo vivendo come umanità, come Chiesa e, in particolare, come consacrati e consacrate in Brasile.
I tempi di incroci evocano periodi segnati da incertezze, rotture, cambiamenti profondi e sfide. Sono tempi in cui le strutture consolidate non rispondono più efficacemente alle nuove realtà; la fede è chiamata a tradursi in profezia, mistica e in coraggio, ascolto e impegno. Il mondo sta attraversando crisi ambientali, sociali, politiche, economiche e spirituali. Anche la Chiesa sta vivendo un processo di rinnovamento, riprendendo in profondità la chiamata alla sinodalità e ascoltando il grido del popolo e della terra. Papa Francesco ci invita ad essere sinodali.
In questo contesto, la vita religiosa consacrata è chiamata ad essere una sentinella, cioè colei che veglia nelle notti più buie, che rimane attenta ai segni di speranza e che annuncia e intravede nuovi orizzonti anche quando tutto sembra ancora avvolto dalle ombre. La sentinella non fugge dalla notte: la abita con fiducia e fede. Così anche i consacrati e le consacrate che, in mezzo alle traversate di oggi, sono presenza profetica, solidale e orante, attenta ai piccoli, ai dimenticati, ai feriti della storia.
Suor Simona Brambilla nell'assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi nell'Aula Paolo VI a Roma. Foto: Jaime C. Patias
La speranza, in questo orizzonte, non è mero ottimismo o illusione: è un atto profondamente evangelico e rivoluzionario. È la speranza del Signore risorto, che si manifesta nella fermezza di comunità che resistono con tenerezza, nell'audacia di progetti che generano vita e dignità, nella fedeltà di consacrati e consacrate che restano con la gente anche nei luoghi più vulnerabili e dimenticati.
Essere sentinella della speranza significa avere fiducia che lo Spirito di Dio continui a operare, ispirando nuove forme di vita comunitaria, nuovi modi di evangelizzare, nuovi linguaggi di comunicazione e di vicinanza. Significa guardare alle sfide con realismo, ma senza perdere di vista la promessa: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5).
Per questo motivo, l'Assemblea si configura come un momento di ascolto e discernimento, di lettura dei segni dei tempi, di rinnovamento della fede e di riscoperta della forza originaria della consacrazione: la sequela radicale di Gesù, povero, casto, obbediente, misericordioso e servo.
Ispirati da Papa Francesco, che ci ricorda che “la speranza non delude” (Rm 5,5), e stimolati dall'Anno Santo, siamo chiamati a riscoprire la speranza cristiana come fiducia incrollabile nell'amore di Dio.
* Ufficio per la comunicazione della CRB Nazionale.
Una veglia il 10 gennaio nella basilica di San Bartolomeo all’Isola, a Roma, per la religiosa americana uccisa per la sua battaglia per i diritti delle popolazioni indigene e contro la deforestazione nel Brasile.
La teologa Laurie Johnston: “in lei la missione cristiana andava oltre la spiritualità personale, includendo l’impegno per i dimenticati, per le vittime del degrado ambientale e delle disuguaglianze sociali”
Suora, missionaria, martire, ma soprattutto una donna impegnata contro la deforestazione e per i diritti delle popolazioni autoctone brasiliane, suor Dorothy Stang “è stata un esempio di come mettere in pratica l’Enciclica di Papa Francesco Laudato sì, ecco perché era una persona scomoda e perché, vent’anni fa, è stata uccisa a colpi di pistola da una serie di criminali”, spiega la professoressa Laurie Jonhston, docente di teologia presso l’Emmanuel College di Boston, che il 10 gennaio, ha partecipato alla veglia, presieduta da monsignor Fabio Fabene, segretario del Dicastero delle Cause dei Santi, in memoria di suor Dorothy nel Santuario dei Nuovi Martiri di San Bartolomeo all’Isola e organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio.
Durante l’evento sono state consegnate due preziose memorie di suor Dorothy Stang, religiosa della congregazione di Nostra Signora di Namur, nata a Dayton, Ohio, nel 1931 e uccisa nel 2005 ad Anapu, nel Pará brasiliano: un pugno di terra proveniente dal luogo dell’assassinio e una maglia indossata dalla suora americana, la cui figura è stata ricordata nel recente Sinodo per l'Amazzonia. Terra e maglia, elementi simbolo di dedizione e sacrificio, di chi si sporca le mani restando attaccato alla quotidianità, necessari per una persona che, per diffondere il suo messaggio, è partita dalle basi: ha insegnato agli indigeni il rispetto e l’importanza della foresta, che non va aggredita e calpestata bensì va protetta e amata perché patrimonio di tutti, specie di chi la abita. Suor Dorothy ha tenuto corsi e incontri per formare le donne contadine, ha fatto studiare i diritti sociali, le politiche pubbliche per la salute, la maternità e la sessualità. Senza mai dimenticare l’importanza della Bibbia, volta a scoprire e ad approfondire il protagonismo delle donne negli strumenti necessari a compiere la liberazione di un popolo.
La tomba di Suor Dorothy Stang ad Anapu nello Stato di Pará in Brasile
Generare consapevolezza, aprire spazi, lottare per la giustizia. “Forse proprio per la sua dedizione a certi impegni suor Dorothy era diventata una persona scomoda, da rimuovere”, commenta Johnston. L’omicidio avviene il 12 febbraio 2005. Come suo solito, suor Dorothy si stava recando a fare visita ad alcune famiglie di contadini nella foresta. Aveva già ricevuto minacce di morte, fino ad allora, però, aveva sempre risposto “non scapperò, né abbandonerò la lotta di questi agricoltori, che vivono senza protezione, in mezzo alla foresta”. Con un sorriso, suor Dorothy, aggiungeva che “nessuno uccide una vecchia signora di più di 70 anni”. Eppure, quella mattina, la banda di giovani armati rifiutò persino i soldi offerti in cambio della vita. Lo scontro con la popolazione locale era arrivato a livelli insopportabili e le capacità di suor Dorothy avevano generato risultati tanto stravolgenti quanto fastidiosi. Così, sei colpi di pistola sparati dai nemici della natura, della popolazione locale, del creato, uccisero suor Dorothy.
Ricordarla oggi, vent’anni dopo, è quindi ancora più importante perché, indica la professoressa, “specie nell’anno del Giubileo, occorre riaffermare la centralità della missione cristiana nella società contemporanea”. Il messaggio di suor Dorothy, dunque, “è perfettamente in linea col pontificato di Papa Francesco che, nel luglio 2023, ha istituito la Commissione dei nuovi Martiri, testimoni della fede e nel 2015 aveva dedicato la seconda enciclica del suo pontificato al creato”. La figura di suor Dorothy ricorda come “la missione cristiana si estende oltre l'impegno personale. Include l’impegno per i dimenticati, per le vittime del degrado ambientale e delle disuguaglianze sociali”.
Dall’Ohio, dove suor Dorothy era nata, alla basilica di San Bartolomeo all’Isola, luogo di memoria per i martiri moderni, conclude Johnston, “le testimonianze di violenze terribili e le debolezze umane s’intrecciano con storie di speranza, mostrando che è possibile creare comunità capaci di vivere in armonia con l’ambiente e con gli insegnamenti di Dio”.
* Guglielmo Gallone - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
Nel giorno dell'Epifania, il 6 gennaio 2025, due novizi colombiani hanno iniziato il loro anno di formazione nel Noviziato Continentale Sant'Oscar Arnolfo Romero dei Missionari della Consolata, nel cuore dell'Amazzonia brasiliana.
Il maestro, padre José Martín Serna, IMC, accompagnerà i due giovani, Jhon Anderson Guerrero Useche e Sergio Andrés Warnes Alcazar.
L'inizio ufficiale è avvenuto con una celebrazione Eucaristica presso la sede del Noviziato, situata nella zona nord di Manaus e presieduta da padre Julio Caldeira, IMC, consigliere Regionale in Brasile, e concelebrata dai missionari che lavorano a Manaus, i padri Gabriel Oloo, Martin Serna, Manoel Monteiro (Neo) e Antony Murigi.
In questa tappa del Noviziato, secondo le Costituzioni dell’Istituto (nn. 96-98), “il novizio approfondisce le ragioni della sua vocazione di missionario della Consolata e intensifica il processo di maturazione attraverso una speciale esperienza di unione con Dio, fino a donarsi totalmente a Lui per la missione, con la Professione Religiosa”.
Sergio Andrés Warnes Alcázar, 24 anni, nato a Cartagena de Indias (nei Caraibi colombiani), ha iniziato il suo percorso vocazionale presso il seminario diocesano di San Carlo Borromeo, dove ha scoperto la sua passione per il servizio e la missione e ha deciso di dedicarsi alla missione ad gentes, entrando nell'Istituto Missioni Consolata (IMC).
Il suo desiderio è quello di “seguire le orme di Gesù e portare il Vangelo a chi ne ha più bisogno, con determinazione e amore per la missione”. A tal fine, “in questa nuova tappa, porto nell'anima la fiamma e la ferma determinazione di essere un missionario della Consolata; per dirla con San Giuseppe Allamano, la fiamma arde, e in questo Noviziato mi impegno a farla bruciare con amore”, conclude Sergio.
Anderson e Sergio, novizi dell'IMC 2025 a Manaus in Brasile
Jhon Anderson Guerrero Useche ha 26 anni ed è nato a San Vicente del Caguán (Caquetá), nell'Amazzonia colombiana. Ha studiato presso il Collegio dei Fratelli di La Salle, dove ha sviluppato una grande passione per Gesù e la missione. Dopo aver studiato filosofia, ha iniziato il suo percorso formativo con i Missionari della Consolata.
Jhon Anderson esprime grande gioia perché “mi sento legato alle radici del Fondatore, San Giuseppe Allamano e alla sua proposta di missione e consolazione”. Il giovane Anderson dice di voler “vivere questo anno di Noviziato a Manaus, con grande gioia e speranza camminando con i missionari della Consolata”.
Dal 2021 il Noviziato Continentale si trova nel cuore dell'Amazzonia a Manaus e ha come protettore sant'Oscar Arnulfo Romero, profeta dei poveri e martire per la giustizia e la pace. I novizi sono accompagnati anche dall'équipe missionaria IMC del Gruppo di Manaus che lavorano nell’Area Missionaria Famiglia di Nazareth e nella Parrocchia di Santa Luzia.
Nel passato, questo Noviziato ha già funzionato nella città di Bucaramanga, Colombia (1981 - 1994) e a Martin Coronado, Argentina (1995-2019).
Chiediamo a Maria Consolata, nostra cara Madre, e a San Giuseppe Allamano, nostro Padre e Fondatore, di aiutare e sostenere i due novizi in questo importante anno di grazie e benedizioni, nell'ambito del Giubileo 2025, “pellegrini di speranza”.
* Padre Júlio Caldeira, IMC, missionario a Manaus (AM).