Il porporato, della congregazione dei Missionari della Consolata, ragiona sugli aspetti positivi e di gratitudine suscitati dall’esperienza missionaria. «Si vede all’opera lo Spirito Santo»

«Una delle parole chiave del cristianesimo, forse la prima, è “grazia”, il ricevere, in Cristo, qualcosa di non dovuto, addirittura la vita divina, la comunione con Dio. Per questo la nostra esistenza diventa graziosa e si accompagna al rendimento di grazie, movimento del cuore che riconosce la grazia originaria, che ci precede». Inizia con queste parole la riflessione sulla gratitudine del cardinale Giorgio Marengo, missionario della Consolata, residente dal 2003 in Mongolia dove per 14 anni è stato parroco nel villaggio di Arvaiheer.

La vita missionaria quali speciali motivi di gratitudine offre?

Attraverso l’accompagnamento di uomini, donne, bambini che si volgono al Signore provenendo da esperienze molto lontane dal cristianesimo, si ha la grande grazia di vedere lo Spirito Santo all’opera nella vita delle singole persone e di interi gruppi umani. La considero un’esperienza bellissima, impagabile, che per me è motivo di gratitudine profonda. Il fondatore dei missionari della Consolata, il Beato (presto santo) Giuseppe Allamano, riteneva che la missione ad gentes fosse qualcosa di “eminentissimo”: usava il superlativo proprio per indicare il grado di intensità con cui si coglie lo Spirito all’opera e si assiste allo sbocciare della fede nel cuore delle persone. Vi è anche un secondo speciale motivo per cui essere sommamente riconoscenti: la vita missionaria allarga gli orizzonti del cuore e della mente. Ci si immerge in culture, tradizioni, usi, costumi diversi e ciò costituisce un enorme arricchimento sul piano umano.

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 Chiesa rotonda a forma di ger a Arvaikheer in Mongolia. Foto: Archivio IMC

Le persone che incontrano Gesù per la prima volta e nelle quali poi sboccia la fede mostrano una speciale forma di gratitudine?

Sì: quando le persone incontrano Gesù e cominciano a seguirLo, rileggono tutta la loro vita alla luce del Vangelo e si rendono conto di come il Signore le ha aspettate, come ha preparato le condizioni affinché venissero a Lui, come riscrive il loro sguardo sul futuro. Diventano persone estremamente luminose e infinitamente grate. Ricordo una signora di Arvaiheer, una delle prime a ricevere il battesimo: aveva abbracciato la fede con grande entusiasmo e riconosceva – con immensa gratitudine – come, grazie alla fede, tutto per lei fosse cambiato, come, ad esempio, non temesse più come prima la morte perché ora sapeva Chi e cosa l’attendeva. La riconoscenza spontanea e gioiosa di chi inizia la propria storia con Gesù ci può insegnare a rammentare la reale grandezza del dono della fede.

I cattolici mongoli non si sentono smarriti e tristi per il fatto di essere pochi come invece accade a molti cattolici in Europa. Certo, loro non hanno un passato di fede con cui confrontarsi, ma a prescindere da ciò, la loro esperienza insegna qualcosa in ordine alla gratitudine verso il Signore?

Penso di sì. Quando si vive con intensità il momento presente riconoscendo in esso il dono della fede e la presenza del Signore, è possibile superare il senso di sconforto e di smarrimento che può nascere per il fatto di essere pochi. Bisogna però riscoprire la profondità, la bellezza, la forza del dono della fede, e la felicità e la gratitudine per averlo ricevuto: così sapremo poi trovare le forme più adatte per adeguarci a una diversa condizione storica. Penso inoltre che sarebbe opportuno ricordare un fatto: quanti patiscono per essere diventati una minoranza rimpiangono un passato di grandi numeri che è stato un fenomeno circoscritto, in Italia, a un periodo determinato, caratterizzato dall’abbondanza di vocazioni sacerdotali, dalla nascita di numerose diocesi e di strutture assistenziali e sociali. Ma nei suoi duemila anni di storia, la Chiesa – nel mondo – è sempre stata realtà piccola, è sempre stata lievito nella pasta. L’importante, appunto, è essere lievito, è la fedeltà al Vangelo.

In un contesto come quello occidentale, governato dalle leggi del mercato, che spinge a ottimizzare energie e risorse e premia efficienza e risultati, esiste la tentazione di farsi sopraffare dall’ansia del raccolto che fa perdere la letizia della semina e la gratitudine per l’invio a seminare? Come si vince questa tentazione?

Sì, la tentazione esiste, specie nel contesto occidentale, dominato dall’efficientismo, che inevitabilmente condiziona la mentalità di tutti. Sono convinto però che questa sia una tentazione radicale che può maturare in qualsiasi contesto sociale: c’è infatti sempre il rischio, nell’opera di evangelizzazione, di concentrarsi sui passi successivi da compiere perdendo così la capacità di apprezzare la pienezza e la ricchezza del momento presente e tutte le abbondanti grazie e consolazioni che il Signore dà ad ogni passo compiuto, anche quando esso è molto faticoso. Inoltre c’è sempre il rischio di trasformare la propria dedizione in un idolo e di credere dunque che tutto dipenda da noi. Per mettersi al riparo dal rischio di perdere la letizia della semina e la gratitudine per l’essere inviati penso sia necessario percorrere una strada: cercare e ritrovare la verità più profonda di noi stessi recuperando e riscoprendo il valore di esperienze come, ad esempio, quella della vera amicizia, della preghiera o di una vita semplice, anche un po’ spartana. Queste esperienze di base aiutano a cogliere la verità più profonda della nostra vita: tutto ciò che siamo lo abbiamo ricevuto, tutto è grazia, è dono.

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 Il cardinale Marengo presenta al Papa alcuni malati ospiti della Casa della Misericordia in Mongolia.18 settembre 2023. Foto: OSV

È cercando di voler bene, di spendere le nostre qualità migliori affinché altri siano felici e compiuti, che noi onoriamo quanto ricevuto da Dio?

Sì. Come si legge in un salmo, noi non potremo mai ripagare il Signore per il dono della vita, non potremo mai onorare completamente quanto riceviamo da Lui, però la forma più adeguata per farlo è cercare di voler bene come, a nostra volta, siamo amati da Dio, quindi con gratuità, fedeltà, perseveranza. E con il per-dono, il super dono che fa realmente rinascere. In Mongolia quando le persone, con la fede, scoprono che la vita non è determinata da un fato immutabile, ma che esiste il perdono, che la vita può sempre ricominciare per la grazia di Dio, provano una grande felicità. Qui il sacramento della confessione è molto amato.

Cosa vorrebbe dire a chi, magari sul finire della vita, guardandosi indietro, avverte con dispiacere e rammarico di non essere stato all’altezza dei doni ricevuti da Dio e dagli altri? Di non averli onorati come meritavano?

L’icona che mi viene in mente è quella del buon ladrone che sulla croce, con umiltà, dice a Gesù “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. E Gesù risponde: “oggi sarai con me nel paradiso”. Chi sente di non aver onorato come meritavano i doni ricevuti, forse anche di averli sprecati, ha sempre una duplice possibilità: fare questo umile movimento del cuore verso il Signore riconoscendo le proprie mancanze e credere che la Sua misericordia sia più grande degli sprechi fatti. Niente è perduto, finché abbiamo respiro possiamo volgerci al Signore: davanti a Lui un giorno sono come mille anni e mille anni come un giorno. La nostra umiltà e la nostra umiliazione sono la porta aperta al Suo agire, al lasciare che il Signore sia il Signore.

A chi vorrebbe dire grazie?

A tre categorie di persone: ai miei genitori, a mia sorella e ai miei familiari, che mi hanno fatto crescere e sostenuto; ai tanti sacerdoti esemplari che ho incontrato e a quanti – insegnanti ed educatori – mi hanno formato; e infine a tutti coloro che, nel corso della vita, mi hanno perdonato. Anche questi ultimi, dandomi una seconda possibilità, hanno avuto un ruolo determinante nella mia vita.

* Cristina Uguccioni, giornalista dell’Avvenire. Originalmente pubblicato in: www.avvenire.it. Mercoledì 24 luglio 2024

Iran. Droni e petrolio vendesi

  • , Mar 05, 2024
  • Pubblicato in Notizie

Le elezioni 2024 rafforzano la teocrazia sciita.

Nonostante le foto diffuse dall’Agenzia di stampa della Repubblica islamica (Irna) sembrino mostrare il contrario, venerdì 1 marzo l’Iran – paese con 88 milioni di abitanti – è andato alle urne senza alcun entusiasmo, segnando la più bassa partecipazione di votanti dalla rivoluzione del 1979: il 41 per cento degli aventi diritto. In gioco c’erano i 290 seggi del Parlamento (Majlis) e gli 88 dell’Assemblea degli esperti. Quest’ultima è l’organo clericale cui spetta la scelta della Guida suprema, attualmente rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei (85 anni).

Come ampiamente previsto, anche senza attendere i risultati del secondo turno (sarà a maggio), hanno vinto i conservatori e gli ultra conservatori, agevolati dall’assenza – per divieto o per boicottaggio – non solo dei candidati progressisti ma anche di gran parte di quelli moderati.

iran donne AL voto 1marzo2024

Donne iraniane al voto venerdì 1 marzo 2024 in una foto diffusa dall’Agenzia di stampa statale. Foto Maryam Almomen – IRNA

Il popolo iraniano sta vivendo anni bui sotto il giogo della casta sciita al potere. Dopo le manifestazioni di piazza del 2022 (proteste guidate dalle donne), la violazione dei diritti civili e la carcerazione o l’uccisione degli oppositori sono una prassi consolidata.

Per la teocrazia iraniana non mancano, però, le note positive. Nonostante un’inflazione elevata (40 per cento annuo), l’economia resiste (più 4,2 per cento nel 2023), sospinta dai legami sempre più stretti con la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin, paesi che lo scorso 1° gennaio hanno accolto l’Iran in seno al gruppo dei Brics. La produzione di petrolio, grande ricchezza del Paese, è in crescita (2,99 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2023, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia) con la quota d’esportazione quasi interamente acquistata dalla Cina. In questo momento storico il maggiore successo economico (e politico) del Paese è però dato dalla vendita di un micidiale prodotto tecnologico per uso militare: i droni, i veicoli aerei senza pilota (Unmanned aerial vehicles, Uav). I droni iraniani – come lo «Shahed 136» o il «Mohajer-6» – sono venduti soprattutto alla Russia per la sua aggressione all’Ucraina, ma anche in Africa (Etiopia, Sud Sudan e Fronte Polisario del Sahara occidentale) e in America Latina (Venezuela e Bolivia).

Inoltre, essendo il Paese sponsor delle milizie sciite in Libano (Hezbollah), in Yemen (Houti) e in Iraq, i droni di fabbricazione iraniana sono un’arma sempre più utilizzata nell’esplosiva regione mediorientale.

* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Pubblicato nel sito: www.rivistamissioniconsolata.it

Sul numero di febbraio del mensile de L'Osservatore Romano, la testimonianza del cardinale Giorgio Marengo, IMC, prefetto apostolico di Ulaanbaator, di come le donne siano state, nella parrocchia di Arvaikheer, le prime ad essere state battezzate e di come, esattamente come al sepolcro, siano "arrivate per prime, portando con sé i mariti, i figli e i padri"

Il dono della missione è al cuore della Chiesa. Da quel mattino di pietra rotolata via dal sepolcro, passando per l’esperienza vibrante della Pentecoste, la comunità credente si è sentita guidata a condividere l’immensa gioia della risurrezione e ad offrire a persone di ogni cultura la possibilità concreta di sperimentare questa nuova realtà nella propria vita. Erano uomini e donne in quel primo nucleo di discepoli-missionari e sono ancora uomini e donne a continuare nell’oggi la stessa dinamica di annuncio e testimonianza. La vita missionaria può aiutare ad avere uno sguardo ampio e arricchente sul maschile e femminile nella Chiesa.

La mia esperienza al riguardo è molto positiva e ne ringrazio. Fin dall'infanzia, la compresenza del maschile e del femminile ha fatto parte della normalità della vita quotidiana, a cominciare dalla famiglia – nella quale con mia sorella c’è sempre stato un rapporto molto costruttivo e arricchente - poi nella scuola e attraverso lo scoutismo (ragazzi e ragazze), che ha segnato i miei anni più giovani. Dopo la maturità classica, sono entrato tra i Missionari della Consolata, Istituto fondato dal beato Giuseppe Allamano per formare religiosi e religiose per la missione ad gentes. Un unico fondatore diede vita a una congregazione dal volto maschile e femminile, impartendo gli stessi insegnamenti agli uni e alle altre, pensando precisamente a una famiglia, nel pieno rispetto della diversità, ma nella convinzione che per il raggiungimento del fine ultimo (la prima evangelizzazione) ci vogliano uomini e donne consacrati a Dio per questo scopo. Non solo gli uni o le altre, ma insieme.

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Donne partecipano a una celebrazione presieduta dal cardinale Marengo. Sussurrare il Vangelo in Mongolia.

E che il beato Allamano avesse ragione l’ho toccato di persona dal primo giorno in cui ho messo piede in Mongolia; anzi, prima ancora, visto che ci fu una preparazione prossima alla partenza in cui ci venne data la possibilità di conoscerci tra noi e approfondire l’ispirazione originaria del nostro carisma. Nel primo gruppo della Consolata in Mongolia eravamo in cinque: tre suore, un altro sacerdote e io. Una missione come questa, caratterizzata da condizioni estreme - numero molto ridotto di cattolici rispetto all'intera popolazione (meno dell’1 per cento), clima che oscilla tra i -40 gradi in inverno e i +40 gradi in estate, una lingua difficile da imparare - richiede una certa abnegazione e molta sincerità con se stessi. I tratti del carattere, sia buoni che cattivi, appaiono sotto la luce trasparente del cielo della Mongolia, che si tratti di un uomo o di una donna. In questa esperienza di deserto, lavoriamo insieme, uomini e donne, nella diversità delle vocazioni, ma in un’armonia essenziale, perché ci sentiamo umili, uguali nella nostra indigenza di fronte al compito affidatoci (l’annuncio del Vangelo), che può essere realizzato solo nella fede, con tempi lunghi e in piena libertà, sia che siamo sacerdoti, religiose o vescovi.

Per me, la missione condivisa è stata e continua ad essere una fonte di umanizzazione integrale. È anche una delle condizioni per la vitalità della missione, perché il rispetto e la stima reciproci che i missionari e le missionarie hanno tra loro fanno parte della testimonianza data in nome del Vangelo. Nella remota parrocchia di Arvaikheer, dove sono stato per diversi anni, i primi gruppi di battezzati erano formati interamente da donne. Come al sepolcro, le donne sono arrivate per prime, portando con sé i mariti, i figli e i padri. Molte donne portano anche il peso delle loro famiglie da sole. Durante l’adorazione eucaristica, nella chiesa rotonda a forma di ger, preghiamo insieme, religiosi e religiose, tutti intorno al Santissimo Sacramento. Nella diversità dei rispettivi ruoli, portiamo avanti insieme il discernimento e il lavoro missionario, trovando nella preghiera la fonte viva del nostro essere figli e figlie di Dio.

* Cardinale Giorgio Marengo, IMC, Prefetto apostolico di Ulaanbaatar (Mongolia). Pubblicato nel sito www.vaticannews.va

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Durante la visita in Mongolia, Papa Francesco benedice Tsetsege, 69 anni, nella sua ger. È la donna che ha trovato la Signora del Cielo. Foto: Vatican Media

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Le speranze di padre Pietro Han, IMC, di arrivare un giorno alla riconciliazione fra le due Coree

La foto si può considerare un simbolo: si vede padre Pietro Han insieme a due suore che mimano il gesto di un abbraccio che racchiude un paesaggio alle loro spalle. Un’istantanea che potrebbe essere archiviata come la testimonianza di un bel momento di fraternità ma che in realtà nasconde un profondo messaggio.

Quelli che si intravedono alle spalle delle suore e del sacerdote, membro dell’Istituto Missioni Consolata, non sono i luoghi ameni di una felice scampagnata ma i campi verdi e le montagne brulle di uno dei paesi più impenetrabili e misteriosi della Terra: la Corea del Nord. E quell’abbraccio sorridente immortalato in una zona di confine della Corea del Sud sta a significare solo una cosa: il desiderio di riconciliazione dell’intera penisola coreana che dagli inizi degli anni ’50 vive tagliata in due da una guerra congelata che si teme possa riprendere da un momento all’altro.

20240224Corea2Sapere che il religioso e le due suore ritratti nella foto si trovavano al confine per partecipare a un pellegrinaggio per la pace non è un dettaglio di poca importanza ma rappresenta uno dei principali pezzi del complesso puzzle del cammino verso l’unità e la pacificazione che la Chiesa coreana sta tentando da anni di mettere insieme, anche se con difficoltà, accelerate e, molto spesso, brusche frenate. Ne sa qualcosa proprio padre Pietro Hann, della diocesi di Incheon, che è membro della Commissione di riconciliazione nazionale, nata grazie alla partecipazione degli istituti religiosi maschili e le società di vita apostolica: «La commissione, che è in stretta collaborazione con la nostra Conferenza episcopale, è stata fondata nel 2015 dopo l’esperienza di sette organizzazioni religiose impegnate a dare aiuto ai nordcoreani rifugiati al sud e a sostenere la popolazione della Corea del Nord», spiega a «L’Osservatore Romano». Una delle attività fondamentali della commissione, che opera su base diocesana ed è composta da quindici comitati di riconciliazione, è la preghiera. Ed è merito anche di questo organismo se, ormai da qualche anno, alle 21 di ogni giorno, in tutte le chiese si recita un’orazione per la pace seguita da un canto mariano e il Gloria.

«La nostra commissione — aggiunge padre Han — si impegna a portare avanti un costante movimento di preghiera che coinvolge leader e semplici fedeli. Con la nostra testimonianza di fede mettiamo in evidenza la necessità dell’unità e della riconciliazione nazionale. Inoltre, è forte la nostra collaborazione con altre associazioni per condividere le informazioni essenziali necessarie allo svolgimento dei nostri progetti».

Che il lavoro della commissione e di tutta la Chiesa coreana si possa paragonare a un vero e proprio cammino quaresimale lo si capisce, però, da un’altra foto. Quella scattata durante l’annuale pellegrinaggio per la pace al confine con la Corea del Nord che mostra delle suore sedute, forse anche stanche, provate. Davanti ai loro occhi si staglia l’orizzonte abitato da quei fratelli separati per i quali tutte loro, insieme a ogni cristiano del Sud, sono disposte ad affrontare pericoli, sconfitte e dolore, anche nel silenzio e nel nascondimento che la prudenza richiede e come ogni deserto insegna.

Hann è convinto che la Quaresima della Chiesa coreana passi anche attraverso il perdono reciproco dei torti subiti, la cancellazione dell’odio: «Il cammino verso la pace deve eliminare l’ira da ogni cuore seguendo il percorso della Croce di Gesù e mettendo in pratica i suoi insegnamenti: accettare il nemico come fratello». Nel deserto quaresimale che dura ormai da oltre sette decenni, la Commissione di riconciliazione nazionale non lascia indietro nessuno. Le persone che riescono a fuggire dal duro regime dittatoriale — i “defezionisti nordcoreani”, come li definisce la Conferenza episcopale — vengono assistite e sostenute non solo dal punto di vista spirituale ma anche materiale. Inoltre, ricorda il religioso, «portiamo assistenza umanitaria direttamente in Corea del Nord anche se ora, per via del deterioramento delle relazioni, i nostri canali sono stati interrotti». L’educazione all’unificazione è un altro obiettivo essenziale della commissione che sta sperimentando delle borse di studio destinate ai giovani rifugiati nordcoreani.

È nel profondo della sua anima che padre Pietro Han coltiva quella che lui stesso considera più di una speranza: «La possibilità concreta che la maggiore interazione con il Nord possa trasformarsi in uno strumento per diffondere meglio il Vangelo».

Fonte: www.osservatoreromano.va (Pubblicato il 21 febbraio 2024).

Dopo qualche giorno dedicato alla spiritualità, la seconda parte dell'incontro dei Missionari della Consolata che lavorano in Asia è stata caratterizzata dalla Conferenza Regionale che si è svolta dal 15 al 18 ottobre 2023. In particolare il martedì 17 ottobre si è eletto il nuovo Superiore Regionale: P. Clement Kinyua Gachoka. Lui svolgerà il suo servizio insieme con coloro che già facevano parte del consiglio: P. Kyoung Ho (Pietro) Han, come Vice Superiore Regionale, e P. Dieudonné Mukadi come Consigliere. La conferenza si è conclusa la sera di mercoledì 18 ottobre con un intervento della Direzione Generale che ha sottolineato l'importanza del promuovere lo spirito di fraternità e l'impegno a favore della missione. In particolare p. James Lengarin, Superiore Generale, ha sottolineato l'unicità della regione asiatica e la necessità di una riflessione personale e comunitaria sulla nostra identità e missione ad gentes. 

Dopo la conferenza alcuni missionari sono ritornati nelle loro comunità e luoghi di lavoro ma il gruppo dei più giovani, con meno di dieci anni di ordinazione, si sono recati al Seminario Maggiore Cattolico di Taipei, dove hanno iniziato un incontro di formazione permanente di tre giorni. Si trattava di condividere le sfide che la missione dell'Asia offriva loro e pensare anche a possibili risposte, strategie e soluzioni.

In un primo momento abbiamo ascoltato le nuove esperienze di p. Matthews Odhiambo IMC, di p. Raphael dell'arcidiocesi di Taipei e di Augustine, un laico cristiano convertito dal buddismo. 

Sabato 21 ottobre è stata l'occasione di una gita di carattere culturale nella città di Taipei: abbiamo visitato il Tempio di Confucio; il Chiang Kai-shek Memorial Hall (costruito in onore di Kai Shek, lider nazionalista cinese e artefice dell'attuale -e conflittiva- "indipendenza" di Taiwan) e anche l'iconico edificio Taipei 101, il più alto di Taiwan e uno dei più alti al mondo.

Domenica 22 ottobre, giornata missionaria mondiale, abbiamo partecipato alla Messa con gli immigrati filippini a Zhongli, nella diocesi di Hsinchu. Con loro abbiamo celebrato questa domenica con respiro universale e il padre Kenneth Oriando nell'omelia ha detto: "Grazie al Battesimo, tutti siamo missionari; anche voi migranti dalle Filippine, dovete usare il dono della fede che avete ricevuto dallo Spirito Santo per testimoniare Cristo a Taiwan. Oggi, voi e noi sacerdoti siamo missionari a Taiwan". Il gruppo ha poi condiviso il pranzo con gli immigrati e sono ripartiti per la Corea e la Mongolia i missionari che lavorano là.

È stato un momento meraviglioso per pregare, pianificare, condividere, scherzare e sognare insieme come fratelli. Il salmista dice meglio: "Quanto è bello e piacevole quando i fratelli vivono insieme nell'unità!" (Salmo 133). Grazie a tutti.

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