Messaggio per i Fratelli Coadiutori Missionari della Consolata

Pubblicato in Missione Oggi

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I Fratelli Carlo Zacquini, Ayres Osmarim, Tracisio Lot e Francesco Bruno a Boa Vista (Roraima). Foto J. Patias

Fratelli carissimi, in occasione della vostra festa, voglio testimoniarvi tutto l’affetto, la vicinanza e la simpatia dell’Istituto. È vero le vocazioni a fratelli stanno diminuendo sensibilmente e tutti ne siamo addolorati. Nel nostro cuore e nel nostro ricordo sono presenti tante belle figure di fratelli coadiutori che, nel silenzio, hanno donato la vita per la missione con amore e generosità.

Il giorno della commemorazione di San Giuseppe Lavoratore, vostra festa voluta dal Fondatore, vogliamo ricordarvi con affetto e, dal momento che il 2022 è l’anno celebrativo del Camisassa, abbiamo recuperato alcune sue testimonianze. Esse descrivono la figura di alcuni fratelli e manifestano quanto grande fosse la sua stima per loro, che essi ricambiavano di cuore.

Come fratelli coadiutori laici, voi realizzate la vostra vocazione missionaria lavorando quotidianamente e con generosità come fecero Giuseppe e Gesù nell'officina di Nazareth, luogo del mistero dell’Incarnazione. Nazareth è il grande mistero dell’assunzione totale della nostra vita da parte di Dio, che si incarna in ogni nostra situazione concreta. Giuseppe, il carpentiere di Nazareth, modello per voi fratelli, ci propone una santità anonima, non ostentata, e non fatta di imprese eroiche, ma che si realizza nel piccolo, nel quotidiano, nell’ordinario.

Si sa che la quotidianità è logorante e che spesso è difficile collegare fede e vita quotidiana, ebbene voi fratelli, in forza della vostra vocazione, ci insegnate che ogni realtà umana può diventare “sacramento”, cioè segno visibile della presenza di Dio. 

Come fratelli, voi ci insegnate ad accettare di vivere la nostra vita lì dove ci è richiesto di farlo, ad accogliere la nostra Nazareth, accettando che non l’eccezionalità o l’eroicità, ma la normalità è il luogo della salvezza e dell’incontro con Dio.

Il Camisassa è accanto ai candidati-fratelli che via via entrano nell’Istituto; ne diventa presto amico e gode del loro affetto. Essi conoscono la sua capacità tecnica e si avvalgono della sua esperienza. 

A fratel Benedetto Falda che era partito giovanissimo per il Kenya e lavorava in condizioni particolarmente dure, scrisse lettere che sono un capolavoro di spiritualità e, nello stesso tempo, veri manuali pratici di lavoro. Leggiamone una, che risale ai tempi eroici dell'inizio delle missioni.

«Torino, 8 marzo 1904 Carissimo Fratel Benedetto, Ho ricevuto ieri la tua lettera del 3 febbraio scorso. Non puoi credere quanto mi abbia fatto piacere sapere che l'andamento alla segheria procede benissimo e tu sei sempre felice del tuo lavoro. Persuaditi che quello è un vero apostolato, tanto quanto il sacerdote che predica. L'impressione che il lavoro fa sugli Akikuyu, il movimento febbrile delle macchine, onora presso di loro il lavoro e sveglia la brama di imitarvi, d'imparare affin di migliorare le loro condizioni di vita. Guarda all’Uganda: è una regione che ha molti cristiani. Questo perché ha visto i Padri Bianchi al lavoro e venne la voglia di imparare. Poi vennero le conversioni, innumerevoli.

Sai, Benedetto, perché ti dico queste cose? Perché tu e quanti sono con te vi persuadiate che, come coadiutori, siete veri missionari, anche facendo il falegname, il muratore, il contadino o altro. Per fare bene la vostra parte dovete lavorare con spirito di fede, volentieri, allegri, concordi e sempre intenti al pensiero che Dio vi vede, intenti a dare il buon esempio. Con spirito di fede: col pensiero che Dio vede, fare le cose come se aveste accanto Gesù e dovesse esaminarvi se fate bene e se vi approvi. 

Volentieri: cioè, come foste mai stanchi; mai perdere tempo! Allegri: sempre col sorriso sulle labbra, mai di cattivo umore. Qualche volta può darsi che non lo siate, ma non fatelo trasparire. E poi, mai tratti duri con gli Africani! Concordi: trattarvi a vicenda con carità, aiutandovi scambievolmente; insomma essere un cuore solo, un'anima sola, come veri fratelli nel Signore Gesù. Buon esempio: gli indigeni hanno occhi semplici, ma tutto vedono, tutto osservano, fanno ciò che voi fate. Sembrano un poco smemorati o disattenti; no, vi studiano dalla testa ai piedi e resta in loro un'impressione che poi dura tutta la vita.

Guai se scandalizzaste uno di loro! Applicate le parole di Gesù al vostro ambiente. Siete osservati più che in Italia ove ognuno fa la sua strada. Se parlo di dare buon esempio, intendo anche cose piccole, come l'impazientirvi, l'essere scortesi o maleducati. Date buon esempio in tutto! Sto facendo la predica! Ma non voglio turbarvi: solo desidero il vostro bene e che sempre lavoriate da veri missionari, anche facendo cose materiali; vorrei dire a te, Benedetto, e agli altri molte cose, come quando ero con voi.

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Fr. Ayres Osmarim a Boa Vista - Roraima. Lavora nella Missione Catrimani. Foto J. Patias

A rileggere con attenzione queste righe, si nota un crescendo meraviglioso di umanità e di affetto sincero verso il fratello lontano. Egli era un giovane di 22 anni, all’interno di una foresta e preso dal duro lavoro della segheria.  La lettera non è finita. Il suo tono cambia bruscamente e si dipana nell’enumerazione di quanto egli ha spedito via mare e nello spiegare come usare la mortasatrice, macchina pericolosa.  Questo segmento della lettera sembra scritta da un espertissimo meccanico che conosce tutti i segreti e le insidie del mestiere e che dà utili suggerimenti ad un compagno di lavoro. È invece l'affettuosa lettera di uno che crede alla Missione la cui natura non solo è annuncio, ma anche testimonianza di vita, sacrificio e fatica.

Mi piace riportare qui anche una testimonianza del fratello Benedetto. Egli, scrivendo al padre Gays circa il Camisassa, afferma che l’affetto e la stima tra i fratelli e il Camisassa erano reciproche. Nel fondare l’Istituto per la missione, Camisassa e il Fondatore, furono un esempio di unità e di comunione, e i fratelli ne furono i primi beneficiari e protagonisti.

In referenza alla sua domanda di mettere in carte quel che ricordo del nostro amatissimo Can. Camisassa, mi permetto di scriverle quel che più mi si impresse nella mia mente. Mi ricordo che mi colpì la sua affabilità, non dico paterna, ma fraterna, anzi, quasi di compagno. Essendo in quei giorni preoccupato di cercare un meccanico per inviare in Africa con le nuove macchine mi ebbe subito caro e mi pose a parte dei suoi progetti condivisi completamente da me, entusiasta dei suoi ideali che feci miei. Si occupò personalmente a farmi avere conoscenze per aver occasione di impraticarmi di segheria. Aveva tracciato progetti d’impianti che poi ai disegni che ne facevo, correggeva colla medesima cura e competenza, come correggerà le bozze del Periodico, andando fine alle minuzie, non con pedanteria, ma con competenza.

Quando arrivai in Missione, ebbi campo di mettere in pratica i consigli praticissimi che Egli mi aveva dato alla partenza, ma pochi mesi dopo il mio arrivo colà mi scriveva una lettera. In quella mi ammoniva amorevolmente che io mi tenevo troppo riservato nello scrivere e mi diceva: «Come va che dopo tanto combinato per quel macchinario, non mi fai parola? Riguardo allo spirituale scrivi sovente al Sig. Rettore, ma pei lavori voglio da te lettere particolareggiate e lunghe e frequenti».

Dopo qualche mese, mi giunsero disegni e particolari di una casa a due piani, che voleva come modello, fosse eseguita per l’abitazione dei Missionari. Ma i particolari erano così minuziosi e copiosi ed eseguiti con tale perizia, che pensavo dove avesse fatto gli studi per essere così pratico di falegnameria e di accorgimenti propri solo a tecnici provetti.

Per il lavoro di Missione aveva un culto speciale - interessandosi della vita nostra di Missione come se non avesse avuto altro scopo nella sua vita.  Ricordo che scrissi un grosso quaderno di usi e costumi kikuyu e glielo inviai per posta. Pochi giorni dopo mi scriveva una lettera entusiasta, animandomi a scrivere altro per il Periodico, dicendomi di aver letto quel quaderno tutto d’un fiato in una notte, e posso immaginarmi con quale fatica Lui, un letterato, a leggere i miei sgorbi! 

Lo rividi nel 1920 nella mia venuta in Italia; dopo 18 anni, mi accorsi che il lavoro e gli anni cominciavano a contare sulla sua forte fibra, ma il suo sguardo e la sua parola era[no] ancora quelle di tanti anni addietro. Ebbi per Lui sempre un’affezione speciale e un’ammirazione illimitata; lo considerai sempre un uomo dalla fede adamantina, anche se qualche volta i suoi metodi urtassero un po’ col metodo della prudenza mondana. 

Carissimi fratelli, la meditazione di queste testimonianze mi porta a sottolineare due cose importanti. La prima è che non esistono risposte magiche alla nostra vita e che la nostra consacrazione, come donazione autentica, è il meglio che possiamo fare e vivere in un quotidiano semplice e autentico. La seconda è che alla vita consacrata e missionaria, come del resto a tutta la Chiesa, si sta richiedendo una vera «conversione», non solo di linguaggio, ma anche di stile di vita. Una simile conversione favorirebbe la connessione con i giovani per proporre loro un cammino di fede e una proposta vocazionale.

Che nessuno vi rubi la gioia di seguire Gesù Cristo e il coraggio di proporlo agli altri come via, verità e vita (Gv 14, 6). Fraternamente, a tutti e ad ognuno: coraggio e avanti in Domino!

*Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata

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Ultima modifica il Domenica, 01 Maggio 2022 18:20

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