L'ospitalità quotidiana... comincia dalla pizza

Pubblicato in Missione Oggi

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Sono passati quasi tre mesi da quando le due famiglie dell’Afghanistan sono arrivate da noi: dono, impegno e benedizione per tutta la comunità. Io, in particolare, mi sono inserita nella banda dei piccoli di casa: sono sette, dai 4 ai 14 anni. Insieme ne combiniamo tante: italiano, condivisioni, giochi, lavori, sorprese…

Questi piccoli mi stanno insegnando molto e, sovente, mi ritrovo a riflettere su alcuni loro gesti che indicano come dovrebbe essere una vita fatta di un amore semplice e profondo per chi ho accanto. È tutta questione di pezzi di pizza, mani tese e ginocchia sbucciate.

Adesso mi spiego meglio… andiamo con ordine!

Un giorno, avevamo appena finito di lavorare con l’italiano e ci eravamo dati appuntamento, dopo dieci minuti, per una sfida a pallavolo. Quando sono uscita nel giardino, i ragazzi erano in festa perché stavano mangiando un pezzo di pizza. Appena mi hanno vista, si sono dispiaciuti perché non era rimasta pizza per me e allora hanno iniziato a togliere dalla loro porzione dei pezzetti sbocconcellati, per condividerli. Correvano e me li posavano in mano; uno di loro è andato in casa, ha tagliato la crosta e me l’ha data. La più piccola di tutti aveva quasi finito il suo pezzo, ha tolto il formaggio di sopra e me lo ha dato gridando: “Sister, è per te!”. Mi ha proprio commossa il loro donare con gioia, il loro cuore che ha subito fatto spazio per me, la loro soddisfazione vedendo che ora potevamo mangiare e godere di quella pizza tutti insieme. Così dovrebbero essere le relazioni in comunità; da questa pronta gioia dovrebbero essere caratterizzati il nostro stare insieme e il nostro servizio. Così mi vengono in mente le parole di san Paolo: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia. Del resto, Dio ha potere di far abbondare in voi ogni grazia perché, avendo sempre il necessario in tutto, possiate compiere generosamente tutte le opere di bene» (2Cor 9,7-8). Mi sento chiamata a dare proprio così, a crescere sempre più nel donarmi qui ed ora, mettendocela tutta e mettendomici tutta; proprio come questi piccoli mi hanno mostrato! Chiamata ad avere un cuore pronto a fare subito spazio per l’altro; un cuore che vede, ama e agisce.

Ecco allora il secondo scorcio: era una giornata umida e piovigginava, tornavo da aver accompagnato una sorella alla stazione e, vicino al cancello principale, ho incontrato i bambini che aspettavano lo scuolabus insieme ai loro genitori. Ho fermato la macchina e sono scesa a salutarli: era da un po’ che non ci vedevamo. Ci siamo fatti festa, ma uno di loro è rimasto fermo dov’era, tenendo la mano di suo papà. Sembrava intento a pensare a qualcosa, profondamente assorto. All’improvviso mi ha teso la mano come per dirmi: “Vieni qui!”; l’ho afferrata, sono approdata accanto a lui e lui mi ha indicato il cielo. Stava per iniziare a piovere, loro erano sotto la tettoia e io no. Neanche io me n’ero accorta, ma lui l’aveva visto! L’altra piccola del gruppo ha colto al volo il piano del bambino e, senza che nessuno le avesse detto niente, è corsa in casa a prendere il suo ombrellino rosa per darmelo. Sono rimasta senza parole. Una perfetta intesa nella carità, per ripararmi. Emergono la capacità di guardare oltre, la preziosità di uno sguardo premuroso e attento; di una presenza che diventa rifugio e custodia dell’altro. È il vedere qualcosa in più che fa sentire profondamente l’altro che è accanto a te. Questo mi spinge a cercare di cogliere le opportunità che mi si presentano di tendere la mano e di essere riparo per chi incontro; c’è tanto bisogno di mani tese! Allo stesso tempo, sento tanta gratitudine perché molte volte vengo io stessa riparata. Attraverso lo stare con questi bambini faccio concreta esperienza di quello che papa Francesco ci ricorda spesso: il Signore consola con la tenerezza. Aggiungerei che il cuore vive una dolce pienezza e un’ondata travolgente di vita ed energia che spinge perché altri possano fare l’esperienza di un amore così, piccolo, concreto e infinitamente grande, che parla di Dio.

Eccoci dunque arrivati all’ultimo episodio: il ginocchio sbucciato.

Vado all’università tutti i giorni tranne il venerdì e, a volte, ritorno quasi alle 19 di sera, quando è ormai buio. Con i bambini ci vediamo molto meno di prima perché i nostri orari non coincidono quasi mai. Una sera, dopo essere entrata nel cortile di casa, mi fermo per aspettare che il cancello si chiuda e colgo un movimento fuori dalla casetta vicino alla chiesa. Il mio pensiero va subito ai bambini e dico a me stessa che, dopo aver parcheggiato, avrei fatto un salto a salutarli. Non faccio in tempo a pensarlo che vedo sbucare due dei ragazzi che cantano e accompagnano la macchina fino a quando non l’ho parcheggiata. Scendo e li saluto, iniziamo a dirci com’è andata la giornata e mi raccontano che uno dei due è caduto e si è sbucciato un ginocchio. Al centro di una gamba del suo pantalone, infatti, troneggia un bel buco. Solo dopo mi dicono come se l’è fatto: hanno visto arrivare la macchina, sono schizzati fuori di casa e hanno corso come dei matti per venire fino lì…In tutto questo movimento, uno dei due è caduto e si è sbucciato il ginocchio. L’altro lo ha subito tirato su, quasi di peso, e gli ha detto di continuare a correre altrimenti non mi avrebbero raggiunta.

Questo è un altro speciale esempio che ci indica la preziosità del correre instancabile verso l’altro, anche quando è buio, del fare di tutto per cercarlo, raggiungerlo e…gioire perché c’è, perché in qualche modo è prezioso ai miei occhi; perché finalmente vi siete trovati! Questo episodio alimenta anche la speranza e la consapevolezza che accanto a noi c’è sempre Qualcuno che ci rialza quando cadiamo, che ci corre a fianco e che ci dice di non temere quando siamo feriti, perché l’amore più grande passa attraverso le ferite. Fuor di metafora, mi sembra significativo ricordare qui alcune parole lette in un libro: «Chi vuole vivere, nel pieno significato della parola, conosce la necessità della rottura e delle morti in cui si ha l’impressione di perdere tutto. Non c’è vita senza spogliamento, poiché non c’è vita senza amore, né amore senza abbandono di ogni possesso, senza gratuità assoluta, dono di sé nella fiducia più disarmata. Amare non è forse preferire l’altro alla propria vita?».

Questa è la gioia della vita: correre e amare l’altro in Dio; sbucciandosi le ginocchia.

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Suor Francesca ci racconta la sua esperienza con i piccoli delle famiglie afgane ospitate nella comunità  delle Missionarie della Consolata di Nepi 

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