Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13

La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata a diventare profeti oppure apostoli è inscindibile dalla missione a cui sono inviati, anzi la chiamata deve necessariamente sfociare nella missione.

Amos è consapevole che il Signore l’ha chiamato per una missione: “profetizzare”, così come gli apostoli, sono chiamati ed inviati “partirono, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”.

Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due

In un primo momento, in Mc 3,14-15, questi sottolinea quali sono le due funzioni dei dodici: essere con Lui e predicare.  Dice infatti che Gesù chiamò e “ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare”. La prima funzione dei Dodici è quella di costituire la comunità di Gesù, di creare una relazione d’amicizia: “essere con lui” e la seconda è quella di partecipare alla Sua missione, attraverso il mandato missionario di predicare, annunciare la venuta del regno di Dio.

Ora ritorna non solo il concetto della chiamata in sé, ma anche della dimensione comunitaria della medesima: vengono chiamati ad essere con lui, a fare comunità con lui, a vivere con lui e a fare l’esperienza profonda con lui. L’essenza della missione, in questo aspetto, è essere con lui. Per fare un’esperienza di intimità col Signore, un’esperienza d’amore per potere in seguito anche andare a testimoniare quest’amore vissuto insieme. La prima missione, dunque, è testimoniare il “vivere insieme a Gesù”, “il vivere insieme con gli altri”, imparare a vivere insieme. Questo è il valore di “chiamare a sé”. I discepoli sono chiamati ad essere con Gesù e a vivere con Lui e assieme a Lui ed altri a costituire una comunità, comunione di vita con Gesù, quel rapporto personale con lui che ha il primato su tutto il resto

Oltre alla dimensione comunitaria della vocazione, Gesù ne sottolinea un’altra: quella comunitaria della missione, dell’invio: prese a mandarli due a due, in comunità, in un piccolo gruppo. Quelli che erano stati chiamati a vivere insieme con Gesù, ora sono mandati due a due e non solitari poiché l’essere in comunione in Cristo è ciò che conta. Se la vocazione, che ha una dimensione comunitaria è inscindibile dalla missione, essa anche ha una dimensione comunitaria: una chiamata vissuta insieme per sfociare in una missione vissuta insieme.

Inviati due a due non solo perché in due ci si sostiene e ci si difende meglio ma anche perché si possa testimoniare insieme. Una cosa è testimoniare da solo, un’altra è testimoniare in due: una testimonianza comunitaria che rivela una doppia testimonianza: il vivere insieme l’amore ma anche testimoniare la presenza di Gesù in mezzo a loro. Infatti, Egli aveva detto che “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Si esclude dunque l’individualismo e il protagonismo che, secondo Papa Francesco sono due espressioni forti della mondanità spirituale.

Gesù li invia con una missione e con due raccomandazioni per il viaggio missionario: la prima si riferisce all’essenzialità della vita e la seconda è sulla relazione a creare.

Il discepolo in viaggio non deve prendere nient’altro che il bastone. Non è permesso avere dei bagagli, sarebbero un impedimento, dei pesi inutili. Solo il bastone, nessuna scorta di viveri e di denaro, sandali e una sola tunica. Gesù raccomanda di prendere il bastone in riferimento al bastone di Mosè con cui ha aperto il mar Rosso per la traversata del popolo eletto, per la sua liberazione; il bastone anche in riferimento alla croce di Gesù. Infatti, Egli stesso aveva detto che chi voleva seguirlo deve rinnegare se stesso e prendere la propria croce, strumento della morte dell’uomo mondano e della sua liberazione.

Il discepolo non deve avere sicurezze umane, fiducia nei propri mezzi: appunto né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa. Deve avere fiducia solo in Cristo, nella sua Parola, ma devo essere un uomo libero. Ecco perché non può nemmeno indossare due tuniche e deve solo calzare i sandali, che nell’Esodo, erano il simbolo degli uomini liberi. Si può anche dire che “il fatto di non portare niente nel viaggio, dà la possibilità ai discepoli di creare relazioni con le persone che va a incontrare … non hai cibo, non hai riparo e questo crea una condizione di bisogno dell’altro”.

Il discepolo è inviato nelle case e come ben comprendiamo, la casa “è un luogo di vita, incontri e di relazioni”. Gesù invita i discepoli ad avere degli atteggiamenti di relazione, essi dovevano rimanere ospiti nella prima casa in cui fossero stati accolti e dovevano vivere insieme in modo stabile e creare delle relazioni che coinvolgano e non andare di casa in casa. Inoltre, “la casa è un luogo intimo” e Gesù ci chiede di essere in intimità con lui ma anche con i fratelli. Infatti, Gesù afferma che “dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì”. Il verbo rimanere rinvia non solo fermarsi ma anche e soprattutto sostare, prendersi del tempo in quella casa.

Il discepolo è invitato ad entrare nelle case non per un suo bisogno o bisogno di chi incontra ma per sostare con l’altro, per esserci davvero con chi incontra. In una società di molta fretta non rimaniamo con gli altri. C’è il bisogno di rimanere, di esserci nelle relazioni ed esserci è anche costruire, alimentare.

Il discepolo missionario deve focalizzare l’attenzione su che cosa vuol dire oggi annunciare il Vangelo, che è sempre annuncio di pace, deve essere consapevole che il Maestro lo ha chiamato ad andare e raccontare, magari anche solo nella parrocchia vicino a casa e che infine lo vuole libero, leggero, senza appoggi e senza favori, sicuro solo dell’amore di Colui che lo invia ad essere forte solo della Sua parola che deve annunciare. Deve, inoltre, sapere rimanere sia nelle case che nelle relazioni.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Ez 2, 2-5; Sl 122; 2 Cor 12, 7-10; Mc 6,1.6

Sia Gesù, sia il Profeta, sia San Paolo si trovano, nel loro percorso missionario, ad affrontare delle realtà e delle persone difficili ed ostili al loro impegno apostolico. Addirittura, molte di esse sono loro connazionali che dovrebbero sapere “che almeno un profeta si trova in mezzo a loro” e cioè che Dio ha parlato e che continua a parlare tramite i suoi inviati. Quest’incredulità è motivo di meraviglia anche in Gesù che infatti, afferma l’Evangelista, “si meravigliava della loro incredulità”.

Tornare nella sua patria, tra i suoi

Dopo un periodo di evangelizzazione incentrata sul mare e le sue rive, mentre Gesù è circondato dalle folle e dai suoi discepoli, ritorna nella sua città, il piccolo villaggio di Nazaret. Già in Mc 1,9, l’evangelista aveva presentato questo villaggio come il luogo di origine di Gesù. È straordinario che l’evangelista preferisca usare il termine solenne e ricco di evocazioni “patria” riferendosi ad un piccolo paese, ad una borgata. Con esso, l’autore vuole indicare che la reazione di rifiuto non era circoscritta solo ai suoi, ma all’intero popolo d’Israele, a quella “genia di ribelli” di cui aveva parlato Dio nella prima Lettura. Dunque Gesù arrivato nella sua patria, come ogni sabato, si reca nella sinagoga e si mette ad insegnare.

Già nella profezia di Ezechiele, Dio aveva detto: “dice il Signore Dio” cioè il Signore è un Dio che “dice”, che parla, che ha qualcosa da dire al suo popolo, che desidera un interlocutore. Gesù, figlio di Dio, l’Emmanuele, Dio con noi, sta cercando un interlocutore tra i suoi. Ma come ha ben espresso Giovanni, “venne tra i suoi e i suoi non l’hanno ricevuto”, così fu tra la sua gente. Marco afferma che gli ascoltatori ed interlocutori di Gesù erano  pieni di stupore, per quello che Gesù insegnava ma, dalle domande che si facevano, dimostrano che sia l’insegnamento, sia Gesù erano motivo di scandalo. Loro sono passati dunque dallo stupore allo scandalo. Due atteggiamenti opposti: mentre lo stupore è un atteggiamento di partenza  che può sfociare sia nella fede sia nell’incredulità, lo scandalo, invece, che significa inciampo, è un ostacolo, un impedimento alla fede. Gesù suscita stupore, ammirazione, tutto questo dovrebbe sfociare nella fede e invece  suscita l’incredulità dei suoi connazionali.

Chi è costui? Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi  compiuti dalle sue mani? A queste domande, Marco aveva già dato la risposta: “inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”. I compaesani di Gesù, scandalizzati, non lo riconoscono come connazionale; il suo linguaggio è ben lontano dalla loro comprensione. Quegli ascoltatori dovevano arrivare a riconoscere che Gesù viene da Dio, ma  come è possibile venire da Dio se è un semplice carpentiere e i suoi famigliari vivono in mezzo a tutti noi? Ed è giustamente questo che non  aiuta a riconoscerLo come proveniente da Dio. Loro cercano la risposta in quello che conoscono e non in quello che non conoscono. Loro conoscono che Egli è “falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi” ma non erano in grado di cogliere la manifestazione di Dio nella quotidianità di Gesù; in quella sapienza straordinaria e in quei prodigi mai visti. Non sono capaci di cogliere la presenza del profeta in mezzo a loro. Gesù si meraviglia e chiama con termine preciso il loro atteggiamento “incredulità”. Non solo cogliere ma anche accoglierlo.

Mentre noi cerchiamo sempre altri segni, altri prodigi, non ci accorgiamo che il vero Segno è Lui, Dio fatto carne, è Lui il più grande miracolo dell’universo: tutto l’amore di Dio racchiuso in un cuore umano, in un volto d’uomo, un volto della quotidianità. Questo ci fa pensare che “credere nel Dio dell’ordinario è importante perché possiamo realizzare lo straordinario”.

È quest’uomo che si meraviglia per il disprezzo e la non accoglienza, Egli si meraviglia della loro chiusura, la loro cecità di cuore, una chiusura che impedisce di vivere, e che condurrà il Figlio dell’Uomo a essere l’uomo dei dolori che ben conosce il patire (Is 53,3). L’incredulità dei connazionale di Gesù crea in Lui stupore e meraviglia. Gesù si meraviglia sia per la fede, sia per la non fede, si meraviglia della nostra incredulità davanti ai fatti. La nostra mancanza di fede è così  incredibile che il Signore stesso si meraviglia. Sebbene fosse uno di loro e avessero ascoltato i suoi insegnamenti e visti i prodigi che compiva… neppure con questi segni, hanno creduto… sono proprio testardi e con un  cuore talmente indurito che non si apre neppure alla vista delle meraviglie di Dio.

Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando

La Sua missione sembrava, con l’incredulità dei suoi, un fallimento. Invece è stata motivo per una ripartenza ad annunciare la buona notizia. Si trasforma dunque in una felice diffusione: “percorreva i villaggi insegnando”. La chiesa per secoli  ci ha insegnato un Dio degli  altari e non delle case e delle strade … un Dio, come  ha ben detto Papa Francesco, della sacrestia. Gesù si è fatto uno di noi e passava di villaggio in villaggio.

Non è stato accolto ma non ha tralasciato di compiere ancora guarigioni, anche di pochi, anche di uno solo. È stato respinto dai suoi ma non si è depresso, chiuso ma ha continuato a mostrare il suo amore. Non si è mai arreso. 

Il discepolo missionario è consapevole che “la mancanza di fede è un ostacolo alla grazia di Dio. Molti battezzati vivono come se Cristo non esistesse:  ripetono i gesti e i segni della fede, ma ad essi non corrisponde una reale adesione alla persona di Gesù e al suo Vangelo. Ogni cristiano  - tutti noi, ognuno di noi - è chiamato ad approfondire questa appartenenza fondamentale, cercando di testimoniarla con una coerente condotta di vita, il cui filo conduttore sempre sarà la carità”, come ha ben sintetizzato Papa Francesco.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10, Mc 4,26-34

La fiducia, la speranza e il coraggio in Dio sono le parole tematiche che impregnano tutte le tre letture.

Mentre il popolo d’Israele si trovava in una situazione umiliante e d’ insopportabile sofferenza, in esilio, sotto il giogo babilonese, Dio si fece sentire, attraverso il profeta Ezechiele, con un rassicurante messaggio di speranza: “un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro… e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; e diventerà un cedro magnifico” e poi dirà “e innalzo l’albero basso, faccio germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò”.

Tale messaggio infuse fiducia e coraggio al popolo di Dio, così il popolo era venuto a sapere che Dio era capace di capovolgere la situazione: il ramoscello diventare un cedro magnifico, l’albero basso venire innalzato. Se tale è il caso siamo invitati dunque ad essere pieni di fiducia, come afferma Paolo, nella seconda lettura. Mentre Gesù, con le due parabole del Vangelo, quella del seme che cresce da solo e del minuscolo granello di senape che cresce fino ad avere rami molto grandi, ribadisce l’invito ad avere fiducia in Dio che è una forza vitale capace di capovolgere la situazione.

Il Regno di Dio è come il seme gettato nella terra

Per spiegare la bellezza e la grandezza del regno di Dio, Gesù usa il linguaggio della quotidianità di un contadino della Palestina del tempo. Da osservatore attento, Egli paragona il regno di Dio ad un seme gettato nella terra che germoglia e cresce silenzioso, da solo e senza intervento dell’uomo.

L’uomo, secondo Gesù, getta soltanto il seme, pertanto che egli dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce senza un intervento umano, l’uomo non sa neppure come faccia la pianta a crescere da sola. Egli non è preso da ansia, fretta, inquietudine e dalla preoccupazione di andare a scavare e vedere ancora il seme per avere la certezza che stia germinando anzi sa che se lo facesse, rischierebbe di fare seccar il seme.

Il contadino sa che il seme ha, in se stesso, un dinamismo, una forza vitale che lo fa germogliare e crescere gradualmente: dallo stelo, alla spiga, al frutto che verrà raccolto. Il dinamismo vitale ha la capacità di rendere il ramoscello, da secco che era, in un cedro “magnifico” che si impone con i suoi rami e i suoi abbondanti frutti tanto che gli uccelli vanno a riposarsi sotto di esso, come il caso del granello di senape. Se la crescita è affidata a questa forza segreta e infallibile, all’azione di Dio, non rimane che attendere con fiducia e speranza.

Qualcuno mi scrisse che colpisce, in questa parabola, “la lentezza dinamica che fa da sfondo. Mentre oggi siamo pieni di frenesia e questa ci consuma ... abbiamo dimenticato la lentezza dinamica della crescita di un albero, del crescere e del maturare del grano ... a volte ci sfugge anche la lentezza dinamica del crescere dei nostri figli ... dinamicità non è frenesia”. In tal caso, non occorre essere agitati, sempre di corsa, affannati come al giorno d’ oggi.

Il granello di senape, una pianta coltivata in Palestina che ha semi molto piccoli “come la punta di uno spillo”, è caratterizzata da estrema piccolezza, ma da grande dinamismo. Gesù fa osservare che quel seme di estrema piccolezza “quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”. Dal poco e con il poco, inizia il regno di Dio che si svilupperà gradualmente raggiungendo la piena realizzazione: quello di essere “più grande di tutte le piante dell’orto” e di avere “rami così grandi da ospitare gli uccelli del cielo”.

Mentre all’uomo viene chiesto solo di gettare il seme, tutto il resto viene affidato a Dio da cui tutto dipende e compete: far crescere e fruttificare. Bisogna dunque fidarsi, gettarsi nella mani di Dio, bisogna avere fede in Dio, mettere Dio al centro di tutto. Tale atteggiamento è difficile se ci mettiamo noi al centro e tutto vogliamo controllare, convinti che tutto dipenda da noi. Il voler controllare costantemente crea un blocco alla forza creatrice e proprio quando noi abbassiamo la guardia lei è libera... con il controllo non creiamo.

L’uomo deve imparare a lasciare che Dio possa fare la sua parte, come dinamismo e forza vitale. È Lui che capovolge le situazioni. Nel contempo, la parabola ci fa pensare che il regno di Dio è un regno di collaborazione dove ognuno fa la sua parte. Ognuno può fare la sua parte solo quando gli altri hanno fatto la loro, questo è un regno di condivisione.

Queste parabole sono state raccontate nel contesto del regno di Dio, il quale richiede fede, speranza, fiducia in Dio. La sua crescita non dipende da noi ma dalla sua forza, la forza dello Spirito Santo.

Un vero discepolo missionario vive nella fede e nella fiducia; egli è paziente e, come afferma Papa Francesco, lascia perdere l’ansia, la fobia di tenere tutto sotto controllo, il voler programmare e capire tutto.

“Egli prende sul serio la fede in Cristo e vive di fede, immerso in un cammino di perfezione nell’amore, che giunto al termine del suo sviluppo, diventato albero, costituisce un esempio per gli altri, un sostegno, una protezione, un punto di riferimento, un refrigerio dalle fatiche della vita quotidiana”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Gn.3,9-15; Sal.129; 2Cor.4,13-18.5,1; Mc. 3,20-35

Gesù ha commesso un’autentica follia. Di fronte al rifiuto da parte di Israele che addirittura ha deciso di assassinarlo Gesù rompe e istituisce dodici discepoli, dodici come le tribù che componevano Israele. Gesù compone il nuovo Israele.

Di fronte a questa clamorosa rottura di Gesù con l’istituzione religiosa ecco la reazione della famiglia e dell’istituzione. Scrive l’evangelista Marco al capitolo 3, versetti 20-35, che I suoi sentito questo, cioè sentita questa rottura di Gesù con l’istituzione, escono per andare a prenderlo, letteralmente catturarlo, è lo stesso verbo della cattura di Giovanni Battista e di Gesù, poiché dicevano è fuori di sé, cioè è pazzo perché poteva essere soltanto una pazzia.

L’evangelista per giustificare questa accusa di pazzia inserisce anche l’accusa da parte degli scribi che sono scesi niente meno da Gerusalemme, la sede dell’istituzione religiosa, gli scribi sono i massimi responsabili del sinedrio, che sentenziano costui è posseduto da Beelzebùl.

Chi è Beelzebùl? C’era una divinità filistea chiamata Beelzebub che era il dio delle mosche e i farisei, per impedire il culto verso questa divinità, c’era anche un re, il re Acazia che era andato a perpetrare la guarigione, l’avevano trasformato in Ba al zĕbūl, cioè il dio del letame, non solo non protegge dalle mosche, ma le attira. L’accusa che fanno gli scribi è sottile: attenti a Gesù, non possono negare che Gesù non guarisca le persone, ma le guarisce per infettarle ancora di più.

Allora Gesù li convoca e dimostra l’inconsistenza del loro discorso dicendo come può Satana scacciare se stesso? Se Satana scaccia se stesso è finito. E poi, ecco la sentenza molto dura in verità, quindi quello che Gesù afferma è sicuro, tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche le bestemmie che diranno. I peccati frutto di ignoranza, di fragilità saranno perdonati, ma, dichiara Gesù, ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna.

E poi Gesù continua Poiché dicevano è posseduto da uno spirito immondo, ecco il motivo. Cos’è questo peccato contro lo Spirito Santo? È quello che già il profeta Isaia aveva dichiarato, sono coloro che chiamano bene il male e male il bene. Cioè questi scribi capiscono, loro lo sanno, è gente colta, gente che conosce la Bibbia. Sanno che se Gesù agisce così lo fa per la forza che gli viene da Dio, ma non possono ammetterlo perché se lo ammettono crolla tutto il loro prestigio e il loro dominio che c’hanno sulla gente. Allora diffamano Gesù. Allora dicono che quello che è bene, l’attività che Gesù sta facendo, è male per mantenere il proprio prestigio. Ma perché non saranno mai perdonati? Perché mai chiederanno perdono. Quando Gesù ha perdonato il paralitico gli stessi scribi hanno sentenziato: bestemmia, cioè è reo di morte.

In questo frangente scrive l’evangelista giunsero sua madre e i suoi fratelli, quindi tutto il clan familiare e stando fuori, stando fuori significa che non hanno compreso l’insegnamento di Gesù, ritenendo di avere un potere su di lui lo mandano a chiamare. Ma, sottolinea l’ evangelista, c’è un impedimento. Tutto attorno a Gesù era seduta la folla, e il termine che adopera Marco indica una folla mista di persone impure, di persone pagane e gli dissero: ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano, il verbo cercare nel vangelo di Marco ha sempre una connotazione negativa nei confronti di Gesù.

Ed ecco la risposta tremenda, terribile da parte di Gesù Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Cioè quelli là fuori? Quelli che si vergognano di me, del pazzo di casa? E girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, quindi non vede né la madre, né i fratelli che sono rimasti fuori, Gesù afferma ecco mia madre e i miei fratelli.

E poi l’invito, l’invito rivolto al suo clan familiare, in particolare alla madre e ai fratelli chi compie la volontà di Dio costui è mio fratello, sorella e madre. A Nazareth il clan familiare di Gesù è vittima dell’insegnamento degli scribi, pensano veramente non solo che Gesù sia matto, ma che sia un posseduto. Gesù vuole arrivare a far comprendere che i veri posseduti sono i rappresentanti dell’istituzione religiosa che, per non perdere il proprio prestigio, dicono che l’azione di Gesù è negativa e fa male.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

Es 24,3-8; Sal 115; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26

Una nuova ed eterna Alleanza

Vorrei prendere il concetto dell’Alleanza come il concetto chiave che ci permette di riflettere sulle letture della Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.

L’autore della Lettera agli Ebrei, infatti, partendo dalla passione e morte di Cristo – sacrificio di Cristo -, considerate come offerta incondizionate di se stesso per la salvezza dell’umanità, chiama Cristo come mediatore della nuova ed eterna Alleanza. Infatti, Cristo dirà “questo è il mio sangue dell'alleanza”. La novità di questa Alleanza sancita con il sangue di Cristo, come sottolinea la Lettera agli Ebrei, è in contrapposizione all’antica Alleanza, come letta nel libro dell’Esodo: mentre nella Nuova Alleanza Gesù consegna volontariamente se stesso, nell’Antica si offrivano in olocausto gli animali. Il segno della nuova Alleanza è il corpo e il sangue di Cristo, il quale ci invita a prenderne per mangiare e bere.

Prendete: questo è il mio corpo e questo è il sangue dell’Eterna Alleanza

La consapevolezza dell’importanza di quella Pasqua, l'ultima per Gesù, spinge i discepoli a celebrarla in modo ineccepibile, anticipando una desiderata ed accurata preparazione. “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?”, chiesero i discepoli a Gesù.  Per Lui, c’era una stanza pronta: una grande sala al piano superiore, già arredata e pronta. Lì avrebbero preparato la cena per tutti loro. È in questa sala che Gesù, durante la cena, dirà: “prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue dell'eterna alleanza”.

Al piano terra, forse si trovava la sala di soggiorno, sala dello svago sempre fremente dell’agitazione che la vita quotidiana porta con sé. Gesù sceglie la sala al piano superiore per allontanarsi dalla distrazione e dall’agitazione giornaliera e mondana. Gesù preferisce che tutto avvenga in un luogo intimo, facendo riferimento alla sala interna ed intima degli uomini: il cuore che è il luogo più intimo dell’essere umano, il luogo dove Dio deve compiere la sua Alleanza con gli uomini, come ben profetizzò Geremia: “porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). La nuova Alleanza, in Cristo, è scritta nel cuore. Dobbiamo dunque allontanare il cuore dall’agitazione della vita quotidiana per entrare nell’intimità dell’incontro con Cristo e far risuonare quel comando di Gesù: “prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue dell'eterna alleanza”.

Pendere è il primo gesto di Gesù, in quell’ultima cena

Egli prese il pane e il calice e lo presentò ai discepoli, accompagnato dall’imperativo: “prendete”. Prendete e cioè tendete la mano, apritela e riceverete in dono questo pane, nel riceverlo come dono, siete in comunione con me. Questo verbo vuole sottolineare che quel pane preso viene donato diventando così segno dell’amore e del dono di sé. A noi viene chiesto soltanto di prendere, un gesto alquanto passivo, poiché è Cristo che dà e si dà, è Lui che si fa presente.
In questo verbo “prendere”  si intravede tutto il bisogno di Cristo di entrare in una comunione senza ostacoli, senza paure, senza secondi fini: è un dono, prendetelo pure.

Si tratta di prendere il suo corpo – soma in greco - che significa la persona intera con la sua attività, storia e vita. Gesù chiede ai discepoli di prendere non solo quel “pezzo di pane”, ma la sua vita, la sua storia, il suo modo di vivere, il suo progetto di vita e tutto quanto la sua vita ha mostrato: l’amore, dunque Gesù invita i suoi ad essere come lui nella vita. “Prendete questo è il mio corpo, segno del mio amore per l’umanità”.

E il sangue suo sarà versato per la moltitudine

Si ricordi che Gesù, a Giacomo e Giovanni, che gli chiesero di sedersi uno a destra e l’altro a sinistra, chiese loro: “potete bere il calice che io sto per bere, o ricevere l’immersione nella quale io devo essere immerso?” (Mc 10,38). Bere il calice è essere partecipi del Suo Regno caratterizzato dall’amore e servizio all’altro; cioè, essere disposti a dare la propria vita per amore a Dio e dedicarci a servire i nostri fratelli, con lo stesso atteggiamento misericordioso che ebbe Gesù. Bisogna sottolineare che l'evangelista non dice che i discepoli mangi(a)no il pane, mentre sottolinea che beva(o)no il calice. Questo significa che non si può condividere il destino di una persona, nel caso di Gesù, se non si è disposti a dare se stessi agli altri.

La nuova ed eterna alleanza è l’amore, è scritta nei nostri cuori e viene simbolizzata dal pane e dal vino, corpo e sangue di Cristo. Dobbiamo sempre predisporci a prenderne, per nutrirci spiritualmente, per poter essere capaci di divenire pane spezzato per il bene dell’umanità, per essere in comunione con Dio e con i fratelli.

Il discepolo missionario è consapevole che l’Eucaristia, come ha giustamente sottolineato Papa Francesco, “ci permette di non disgregarci, perché è vincolo di comunione, è compimento dell’Alleanza, segno vivente dell’amore di Cristo che si è umiliato e annientato perché noi rimanessimo uniti. Partecipando all’Eucaristia e nutrendoci di essa, noi siamo inseriti in un cammino che non ammette divisioni. Il Cristo presente in mezzo a noi, nel segno del pane e del vino, esige che la forza dell’amore superi ogni lacerazione, e al tempo stesso che diventi comunione anche con il più povero, sostegno per il debole, attenzione fraterna a quanti fanno fatica a sostenere il peso della vita quotidiana, e sono in pericolo di perdere la fede”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

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