Gli indios Warao in pellegrinaggio attraverso le terre di Boa Vista, Roraima (come rifugiati, apolidi o migranti) si svegliano con la Pasqua di padre Josiah K'Okal. E da qui nasce la speranza.

La speranza

Con l'arrivo del 2024, il nuovo anno sul nostro calendario, abbiamo riflettuto profondamente sulla speranza: sia sul potere che genera che sulla disperazione che può consumarci quando sembra scomparire. La speranza ci permette di superare difficoltà apparentemente insormontabili e spesso è l'unica cosa che ci impedisce di arrenderci nei momenti bui di dubbio e insicurezza della vita. Come esseri umani ci aiuta, specialmente nel caso dei migranti, a sopravvivere anche di fronte alle più grandi avversità.

La speranza, nata dalla fede e non dall’ottimismo o la positività, è la base su cui è stato costruito un piccolo progetto dagli indigeni Warao qui nella città di Boa Vista in Roraima (Brasile). È la speranza di poter costruire un mondo in cui i diritti e il benessere di questa e delle future generazioni siano protetti e difesi.

Questa speranza che si basa sulla fede, non solo sull'ottimismo o sulla positività ed è tremendamente potente, perché sa vincere la fragilità soprattutto quando si scontra con la dura realtà del mondo dei migranti.

Questo inizio d'anno è stato particolarmente duro per il popolo Warao perché provato da dure separazioni fisiche, avvenute nel giro di pochi giorni: la partenza di  di padre K'Okal, di Aidamo Felipe Moraleda, dell'ex politico Joel Ramos, dell'amico Regino Reinosa, della giovane Betsi, moglie di José Ángel... e l'elenco potrebbe continuare...

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Battesimo di un bambino Warao a Tucupita, Venezuela. Padre K'Okal, deceduto il 1° gennaio 2024. Foto: IMC Venezuela

Dal pianto all'impegno gioioso

Dietro ognuna di queste persone c'è una storia di sofferenza e di gioia, di dedizione e di progetti: ognuno portava con sé la speranza. E allora, giacché non vogliamo rimanere immobili nel pianto, abbiamo deciso di passare dal ricordo all'impegno: nel nostro servizio missionario con persone in situazioni di mobilità umana cerchiamo di seminare perché la speranza scarseggia tra molti e, con questo piccolo progetto, vogliamo promuovere le tre “P”: Piccolo, Povero e Possibile.

Come disse Martin Luther King: "So, in qualche modo, che solo quando è abbastanza buio si possono vedere le stelle". Credo che questo sia vero. Credo che, se guardiamo bene, possiamo vedere le stelle. Possiamo vedere i segni di speranza che ci mostrano che è possibile rendere il mondo un posto migliore per tutti.

Guardando il cielo abbiamo stelle con nomi: K'Okal, Felipe, Adrismar e così via. Guardando in basso abbiamo stelle: innumerevoli bambini e adolescenti che rappresentano la nostra più grande speranza di costruire un mondo migliore e più santo.

Dobbiamo moltiplicare i nostri sforzi a loro favore nel 2024 e negli anni a venire e per questo stiamo iniziando con un piccolo progetto pastorale che cercheremo di portare avanti all'interno dei centri di accoglienza.

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Celebrazione eucaristica con i migranti Warao a Boa Vista, Roraima. Foto: Juan C. Greco

Formazione a tutti i livelli

Per seminare speranza, ci proponiamo di avviare un percorso di formazione a tutti i livelli; vogliamo camminare con alcuni al fine di rafforzare la fede e questa accompagnata dall’impegni missionario.

Sogniamo anche piccoli gruppi che possano pregare in comunità il Santo Rosario e condividere le loro intenzioni e ringraziamenti; speriamo di riuscire a farlo nelle tre lingue: lo spagnolo (che ci unisce al resto dei rifugiati e dei migranti), il warao (che rafforza la loro cultura) e il portoghese (che ci permette di essere più coinvolti nella realtà della Chiesa locale).

Anche quest'anno non sarà facile e ci saranno delle difficoltà. Ma possiamo scegliere di essere coraggiosi e disposti ad agire con determinazione per mantenere la cultura, la spiritualità, l'ordine e l'equilibrio personale e comunitario. Possiamo investire più forze nei servizi che devono nascere o svilupparsi in modo armonico a beneficio dei poveri.

* Padre Juan Carlos Greco, IMC, Servizio Itinerante per le Persone in Mobilità Umana, Boa Vista -Roraima.

La notizia che cambia la storia

Dagli altoparlanti che poco prima hanno trasmesso la fanfara con l’inno dello Stato della Città del Vaticano, seguito da un cenno dell'inno nazionale italiano, risuona alle 12 in punto la supplica universale che il Papa, seduto ma idealmente in ginocchio, eleva al cielo per la città di cui è vescovo e per il mondo di cui è pastore. Una supplica di pace, quella del Successore di Pietro, per la martoriata Siria, per lo Yemen sofferente, per l’Ucraina devastata, per l’Armenia e l’Azerbaigian in lotta, per il Sahel e il Corno d’Africa teatri di tensioni e conflitti, per la Corea ancora divisa, per tutti i coloro che sono “obbligati a fuggire dalla propria patria in cerca di un avvenire migliore, rischiando la vita in viaggi estenuanti e in balia di trafficanti senza scrupoli”.

“Lo sguardo e il cuore dei cristiani di tutto il mondo sono rivolti a Betlemme”, esordisce il Papa all’inizio del suo messaggio, dopo gli onori militari e il picchetto della Guardia Svizzera. A Betlemme in questi giorni “regnano dolore e silenzio”, ma è risuonato ugualmente “l’annuncio atteso da secoli”: È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.

"Oggi a Betlemme tra le tenebre della terra si è accesa questa fiamma inestinguibile, oggi sulle oscurità del mondo prevale la luce di Dio, che illumina ogni uomo", scandisce il Papa. "La Scrittura rivela che la sua pace, il suo regno".

Proprio nella Scrittura, ricorda Francesco, al Principe della pace, Gesù, si oppone “il principe di questo mondo” che “seminando morte, agisce contro il Signore”. Lo vediamo in azione a Betlemme quando, dopo la nascita del Salvatore, avviene la strage degli innocenti ordinata da Erode. Lo vediamo in azione oggi con le tante “stragi di innocenti nel mondo”, afferma il Papa: “Nel grembo materno, nelle rotte dei disperati in cerca di speranza, nelle vite di tanti bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra. Sono i piccoli Gesù di oggi, questi bambini la cui infanzia è devastata dalla guerra, dalle guerre".

Allora dire “sì” al Principe della pace significa dire “no” alla guerra. E questo con coraggio: dire "no" alla guerra, a ogni guerra, alla logica stessa della guerra, viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse. Questo è la guerra: viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse.

La gente non vuole armi ma pane

Ma per dire “no” alla guerra, sottolinea Francesco, bisogna dire “no” alle armi: “Perché, se l’uomo, il cui cuore è instabile e ferito, si trova strumenti di morte tra le mani, prima o poi li userà. E come si può parlare di pace se aumentano la produzione, la vendita e il commercio delle armi?”.

Oggi, come al tempo di Erode, “le trame del male, che si oppongono alla luce divina, si muovono nell’ombra dell’ipocrisia e del nascondimento”: “Quante stragi armate avvengono in un silenzio assordante, all’insaputa di tanti!”, esclama il Pontefice.

La gente, che non vuole armi ma pane, che fatica ad andare avanti e chiede pace, ignora quanti soldi pubblici sono destinati agli armamenti. Eppure dovrebbe saperlo! Se ne parli, se ne scriva, perché si sappiano gli interessi e i guadagni che muovono i fili delle guerre

Lottare contro la povertà

Infine il Papa si rivolge al Figlio di Dio, “fattosi umile Bambino”,  pregandolo perché “ispiri le autorità politiche e tutte le persone di buona volontà affinché si trovino soluzioni idonee a superare i dissidi sociali e politici, per lottare contro le forme di povertà che offendono la dignità delle persone, per appianare le disuguaglianze e per affrontare il doloroso fenomeno delle migrazioni”.

Dal presepe, il Bambino ci chiede di essere voce di chi non ha voce: voce degli innocenti, morti per mancanza di acqua e di pane; voce di quanti non riescono a trovare un lavoro o l’hanno perso; voce di quanti sono obbligati a fuggire dalla propria patria in cerca di un avvenire migliore, rischiando la vita in viaggi estenuanti e in balia di trafficanti senza scrupoli.

Fonte: Vatican News

Nei miei studi di storia della Chiesa mi è stata chiesta la recensione di un libro non recente di un noto mediovalista italiano, molto conosciuto per le sue pubblicazioni ma anche per l’impegno di divulgazione che ha fatto di lui un personaggio abbastanza conosciuto anche fuori dai limiti della sua specializzazione storica. Si tratta di Alessandro Barbero e il libro di cui parlo è “Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell'impero romano” (Laterza; 10° edizione di aprile 2010).

Voglio condividere alcuni aspetti della sua riflessione storica perché mi sembrano illuminanti anche per noi oggi che ogni giorno tocchiamo con mano le problematiche legate al problema migratorio. Queste le troviamo quasi sempre nella prima pagina dell’agenda politica italiana (e non solo) e sono uno dei temi più discussi e dibattuti in questo primo quarto del XXI secolo. Ebbene non è solo un problema di oggi, anche in una tappa importante della storia dell’Impero Romano la migrazione e la permeabilità della frontiera, il “limes” come lo chiamavano allora, era percepita come un problema.

A partire dal primo secolo dopo Cristo questo Impero era considerato all’esterno prospero, aveva una economia stabile e delle frontiere sufficientemente militarizzate con l’intenzione di gestire i flussi migratori ma i popoli barbari, che si sentivano costantemente minacciati dalla fame e dalla guerra e non riuscivano sopravvivere con le poche risorse a loro disposizione, finivano per bussare, sempre più numerosi, alle porte dell’impero romano. 

Per affrontare questa crisi l’Impero esercitava su di loro diverse strategie: se alcune prevedevano l’allontanamento forzato dal territorio altre invece preferivano l’accoglienza di massa o, in alternativa, si offrivano piccoli aiuti umanitari o si fissavano quote di ingresso. “L’accoglienza dei profughi o il reinsediamento forzato dei popoli sconfitti sono strumenti di cui le autorità romane dell’età giulio-claudia si avvalgano con una certa libertà, rispondendo in innanzitutto a esigenze di sicurezza, e solo secondariamente a opportunità economiche e demografiche” (p. 16).

In realtà le frontiere, spesso erano solo un limite più simbolico che reale, e invece attorno a loro si svilupparono vere e proprie società di confine fondate su scambi commerciali e sfruttamento della forza lavoro delle popolazioni barbare. La linea artificiale che segnava il confine dell'Impero romano, anche se in alcuni punti fortificata e difesa, quasi mai era totalmente impermeabile, anzi tutto il contrario, era lo spazio di incontro di mondi radicalmente diversi ma anche costantemente in dialogo perché in qualche modo avevano bisogno l’uno dell’altro. 

Così che, per esempio, durante il principato di Marco Aurelio e dopo la peste conosciuta con il nome di “antonina”, si complicò la gestione dei confini a causa della riduzione dei militari e della manodopera agraria e allora l’autorità imperiale utilizzò gli strumenti dell’accoglienza sistematica per favorire l’insediamento nel territorio romano; per il ripopolamento delle campagne, impoverite dalla guerra e dalle epidemie, si reclutava manodopera libera fra i popoli barbari. 

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Dal punto di vista commerciale, agricolo e fiscale, l’autorità imperiale decise di affidare la gestione dei vasti territori ai barbari fino al punto che quest’ultimi si arruolarono nell’esercito romanizzandosi e assimilandosi nel “melting pot”. 

Dopo duemila anni, ancora oggi, avvengono situazioni analoghe alle frontiere dell’Unione Europea: rifugiati percossi, derubati, umiliati, espulsi, bloccati alle frontiere e altri ancora vittime di tratta per sfruttamento lavorativo e schiavitù da debito, sempre altamente a rischio di re-trafficking. Nonostante l'inasprimento dei controlli alle frontiere europee, il problema dell'immigrazione è diventato un fenomeno caratterizzato da una complessità crescente. Sono passati duemila anni di storia e le idee sul da farsi sembrano ancora povere e confuse... eppure la storia di questo continente europeo deve tanto e sotto tanti punti di vista ai fenomeni migratori che hanno trasferito in un senso e nell’altro forza lavoro, tecnologie, idee e perfino religioni.

Dal discorso pronunciato nel viaggio apostolico a Marsiglia durante il momento di raccoglimento con i leader religiosi nei pressi del memoriale dedicato ai marinai e ai migranti dispersi in mare.

Cari fratelli e sorelle, grazie per essere qui. Dinanzi a noi c’è il mare, fonte di vita, ma questo luogo evoca la tragedia dei naufragi, che provocano morte. Siamo riuniti in memoria di coloro che non ce l’hanno fatta, che non sono stati salvati. Non abituiamoci a considerare i naufragi come fatti di cronaca e i morti in mare come cifre: no, sono nomi e cognomi, sono volti e storie, sono vite spezzate e sogni infranti. Penso a tanti fratelli e sorelle annegati nella paura, insieme alle speranze che portavano nel cuore. Davanti a un simile dramma non servono parole, ma fatti. Prima ancora, però, serve umanità, serve silenzio, pianto, compassione e preghiera. 

Troppe persone, in fuga da conflitti, povertà e calamità ambientali, trovano tra le onde del Mediterraneo il rifiuto definitivo alla loro ricerca di un futuro migliore. E così questo splendido mare è diventato un enorme cimitero, dove molti fratelli e sorelle sono privati persino del diritto di avere una tomba, e a venire seppellita è solo la dignità umana. Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza: che ognuno si arrangi come può.

Non possiamo rassegnarci a vedere esseri umani trattati come merce di scambio, imprigionati e torturati in modo atroce –lo sappiamo, tante volte, quando li mandiamo via, sono destinati ad essere torturati e imprigionati–; non possiamo più assistere ai drammi dei naufragi, dovuti a traffici odiosi e al fanatismo dell’indifferenza. L’indifferenza diventa fanatica. Le persone che rischiano di annegare quando vengono abbandonate sulle onde devono essere soccorse. È un dovere di umanità, è un dovere di civiltà!

Il Cielo ci benedirà, se in terra e sul mare sapremo prenderci cura dei più deboli, se sapremo superare la paralisi della paura e il disinteresse che condanna a morte con guanti di velluto. In questo, noi rappresentanti di diverse religioni siamo chiamati a essere di esempio. Dio, infatti, benedisse il padre Abramo. Egli fu chiamato a lasciare la sua terra d’origine e «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Ospite e pellegrino in terra straniera, accolse i viandanti che passarono nei pressi della sua tenda (cfr Gen 18): «esule dalla sua patria, privo di casa, fu lui stesso casa e patria di tutti» (S. Pietro Crisologo, Discorsi, 121). E «a ricompensa della sua ospitalità, ottenne di avere una discendenza» (S. Ambrogio di Milano, De officiis, II, 21). Alle radici dei tre monoteismi mediterranei c’è dunque l’accoglienza, l’amore per lo straniero in nome di Dio. E questo è vitale se, come il nostro padre Abramo, sogniamo un avvenire prospero. Non dimentichiamo il ritornello della Bibbia: “l’orfano, la vedova e il migrante, lo straniero”. Orfano, vedova e straniero: questi sono quelli che Dio ci comanda di custodire.

Fratelli, sorelle, affrontiamo uniti i problemi, non facciamo naufragare la speranza, componiamo insieme un mosaico di pace!

Discorso completo

"Vedi, ho buttato via l'orologio - mi fa, mostrandomi l'avambraccio sinistro - ho imparato dagli africani. Qui in Africa, si vive solo il presente, ma intensamente." Parola decisa, quella di padre Pierre, missionario.

In terra africana, infatti, non si è preoccupati del dopo, di ciò che viene in seguito, come da noi... e che ci fa esclamare: 'Presto, ho altro da fare!'  Questo missionario, così, ha cambiato ritmo, ha cambiato campo. Quando incontra qualcuno prende tutto il tempo che serve, lasciando perdere il nostro gioiello al polso, l'orologio! Mi viene da sorridere al paragone, pensando quando -  in vacanza nella mia terra veneta - mi presento alla porta di una parrocchia. "Scusami, stavo proprio uscendo!" mi fa a volte il prete e... scompare! Non prende neppure il tempo di estrarre l'agenda e fissarmi un appuntamento per un altro giorno, come succede all'estero. "Il Signore bussa alla nostra porta," direbbe sant'Agostino" ma noi siamo spesso fuori casa!" In Africa, invece, l'incontro - anche quello imprevisto, - è sacro. Oscar Wilde commenta: "Le cose vere della vita non si studiano nè si imparano, ma si incontrano".

Tempo fa, ascoltavo estasiato, padre Michel, in Marocco da anni, che mi confessa: "Dormo poco, sai, ma nella notte, quando mi sveglio, mi metto in ginocchio davanti all'armadio. Naturalmente, dopo averlo aperto: dentro c' è il Santissimo! " In un Paese dove la preghiera è costante e onnipresente, lo trovo per davvero un bell'esempio, per dire, di inculturazione. Qui, infatti, ti può sorprendere dietro un auto parcheggiata, qualcuno su un tappeto  in preghiera... o il bigliettaio della stazione dei bus scomparso brevemente per lo stesso motivo.

Viviamo spesso al giorno d'oggi in uno spazio interculturale. Dove mondi differenti, modi di vivere diversi si incontrano, si scontrano, si osservano, si imitano o si intrecciano. "I sistemi si oppongono, gli uomini si incontrano" afferma giustamente una massima.

Ma quale è la regola d'oro per vivere in un mondo così complesso e plurale? Fare lo stesso lavoro delle api, suggeriva Antonio Perotti, grande esperto di sociologia. Di un viaggio, un incontro, un' idea differente, un'esperienza nuova... si coglie e si raccoglie il meglio. "Come le api fanno con i fiori, - concludeva - così io di tutto quello che incontro faccio il "mio" miele!"  La differenza, in questo modo, arricchisce per davvero! "La nostra ricchezza è fatta dalla nostra diversità - spiegava il biologo francese Albert Jacquard - l’altro ci è prezioso nella misura in cui ci è diverso".

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Ma per entrare in un mondo fatto di tante differenze, per arricchirsi in fondo dell'altro, quali sono le chiavi?

La prima è l'ascolto. Il decentrarsi. Uscire da sè e dal proprio mondo. Prestare attenzione a ciò che è unico nella vita degli altri. "Ricordando sempre che tu sei unico, - sottolinea qualcuno - esattamente come tutti gli altri!" . Si diventa persone migliori facendo proprie le conoscenze, i risultati, le conquiste degli altri che si incontrano quotidianamente.

Altra chiave è lo stupore. Cioè rimanere nell'immobilità, come in attesa, in suspense, senza ombra di condanna di fronte alla diversità dell'altro. Attitudine questa che gli antichi chiamavano "epochè" sospensione del giudizio. Sorprendersi, stupirsi, è iniziare a capire. "Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, - ripeteva Pablo Picasso, immerso nel mondo dei colori - cogli l’occasione per comprendere".

Altra ancora, l'arte della curiosità. A lungo considerata un comportamento negativo la curiosità è oggi sinonimo di cammino intelligente, di un sentimento che non si arresta davanti al reale, ma guarda le cose diversamente. Come un rabdomante che cerca la sorgente d'acqua, la curiosità cerca il senso sotterraneo, il "perchè" di un comportamento, di una tradizione differente o di un gesto. Per questo essa è tolleranza, apertura alla diversità.

La curiosità semina dubbi. E il dubbio porta alla certezza, compresa quella che si esprime attraverso una grande scoperta scientifica. L'unico modo, così, per andare a fondo delle cose oltre l'apparenza è interrogarsi: cosa, come, perché, quando, quanto, in che senso..."La curiosità e i problemi sono gli allenatori del pensiero". (M.Trevisan)

Infine, una chiave importante è sempre provare qualcosa di nuovo. Essere aperti ad altri punti di vista, assaporare cibi differenti, esotici, accogliere opinioni diverse dalle proprie, accettare che una risposta inaspettata possa rivelarsi preziosa. Essere, infine, disposti a cambiare la vostra stessa idea o atteggiamento. Se necessario.

In tutto questo una grande umiltà, lo spirito del dialogo, il gusto del raccontarsi sanno essere alleati formidabili. Per entrare in una nuova, promettente dinamica: la cultura dell’integrazione, "il rendere normale domani quel che ieri era impossibile".

* Renato Zilio è missionario scalabriniano, lavora in Marocco ed è autorie di "Dio attende alla frontiera" (ed. EMI)

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