La Corte di Giustizia dello Stato del Paraná (Brasile) ha tenuto dal 3 al 5 luglio l'incontro sulla Giustizia Riparativa e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. La prof.ssa Diana Sosa, che appartiene al gruppo “Consolata Intergentes” delle Missionarie della Consolata in Argentina, spiega la relazione tra la giustizia riparativa e la “pedagogia allamana”.

Questo evento è stato organizzato con la finalità di celebrare un decennio di esistenza della Giustizia Riparativa nel sistema giudiziario dello stato brasiliano del Paraná. La sua celebrazione ha messo in evidenza il contatto che esiste fra Giustizia Riparativa e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile stabiliti nel 2015 dalle Nazioni Unite.

Hanno partecipato importanti specialisti internazionali come le professoresse Grazia Mannozzi (Italia), Diana Sosa (Argentina) e la dott.ssa Katie Masfield (Stati Uniti) insieme a ricercatori e specialisti brasiliani che hanno prodotto un amplio scambio di esperienze e conoscenze.

La prof.ssa Diana Sosa –che appartiene alla Piattaforma “Consolata Intergentes” promossa dalle Missionarie della Consolata dell'Argentina a favore delle Politiche Sociali– è stata invitata ad aprire il Congresso con una conferenza con il seguente titolo: “Tre formule, tre forme e tre dimensioni necessarie per pensare alla Giustizia Riparativa”.

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Nella sua presentazione ha messo in evidenza come i concetti di “sostenibile” e “riparativo” hanno rotto molte delle logiche tradizionali legate allo sviluppo e la giustizia e offrono la novità di soluzioni proattive e creative a molti dei problemi che l'umanità soffre oggi. Il punto di fusione di questi nuovi paradigmi, che implicano fondamentalmente responsabilità e solidarietà, è la “cura” che si esprime in diversi modi come la “cura di sé”, la “cura dell'altro” e la “cura dell'ambiente”. La “etica della cura” diventa indispensabile e necessaria se si vogliono promuovere pratiche riparative e i progetti (dello Stato e di organizzazioni religiose e della società civile) devono essere pianificati rispettando tre dimensioni: la partecipazione; l’impegno in diversi fronti (come educazione, disuguaglianze, genere, popolazioni indigene, città sostenibili, ecc.) e le buone pratiche nelle relazioni interpersonali.

Prof.ssa Diana Sosa, cos'è la giustizia riparativa e come può contribuire agli obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2030 delle Nazioni Unite?

La giustizia riparativa è uno strumento importante per la trasformazione sociale e per la costruzione di comunità più giuste e connesse. Attraverso l'ascolto attivo, promuove il dialogo, incoraggia la responsabilità e crea spazi in cui tutte le voci sono ascoltate e valorizzate. Le pratiche riparative cercano di riparare i danni subiti da reati o crimini, ripristinando il tessuto sociale colpito.

Nel paradigma della giustizia riparativa, questo processo è conosciuto con il nome delle “tre erre”: Responsabilizzare, Riparare/Ripristinare e Reintegrare. Curiosamente, anche lo sviluppo sostenibile può essere espresso con tre erre: Ridurre, Riutilizzare e Riciclare.

Credo che le “tre erre” della Giustizia Riparativa siano del tutto equivalenti alle “tre erre” dello Sviluppo Sostenibile.

Ridurre significa utilizzare la minor quantità di risorse naturali per preservarle per le generazioni future, è un'azione di prevenzione, insomma è la Responsabilità nel linguaggio della Giustizia Riparativa.

Lo stesso accade con il Riutilizzo, che implica dare un nuovo valore alle risorse per poterle utilizzare nuovamente e prolungarne la vita utile; anche nella Giustizia Riparativa i legami ripristinati acquisiscono un nuovo valore, generando nuove relazioni e ricostruendo la fiducia: questo è ciò che significa Riparare e Ripristinare.

Nel Riciclaggio si prendono le risorse scartate e si trasformano e si reinseriscono nel circuito produttivo; lo stesso con la giustizia riparativa: le persone che hanno commesso crimini/reati, una volta assunte le proprie responsabilità e riparato il danno, possono reintegrarsi in modo costruttivo alla società".

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Perché il paradigma della giustizia riparativa è così vicino alla pedagogia allamaniana?

La pedagogia allamana fa parte di una pedagogia affettiva e basta leggere alcune lettere dell'Allamano per scoprire, nella gestione dei problemi e nel rapporto con i suoi missionari, le note di una prassi riparativa: instaura dialoghi e trattative, riconosce il valore del conflitto, cerca di responsabilizzare gli offensori (Lettera del 7 dicembre 1908 a padre Giovanni Battista Rolfo, vol. V, p. 154-155, n. 570); incoraggia la reciprocità, aiuta il recupero dell'altro (Lettera del 7 febbraio 1906 a Fratel Benito Falda, vol. IV, p. 490-491, n. 456); cerca il ripristino dei legami e risolve guardando al futuro (Lettera del 18 maggio 1919 a Mons. Gaudenzio Barlassina e ai Fratelli del Kaffa, vol. VIII, p. 365, n. 1282), cerca di riallacciare i rapporti con la famiglia e la comunità (Lettera del 17/09/1908 al seminarista Mauricio Domingo Ferrero, vol. V, p. 137, n. 561).

Con il criterio “occhio per occhio e dente per dente” finiremo ciechi e sdentati. La punizione, in tutte le sue espressioni, non sembra essere una strada che ha portato felicità al mondo e spesso non ha nemmeno prodotto giustizia. Sicuramente i principi della giustizia riparativa possono illuminare i nostri modi di vivere e di relazionarci con gli altri per rendere reale il nuovo comandamento che Gesù ci ha lasciato: “amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mt 22,37-39).

* Padre Donald Mwenesa, Equipe di comunicazione IMC dell’Argentina.

Nel primo discorso presso il Centro Congressi di Trieste, Francesco sottolinea che “l’indifferenza è un cancro della democrazia”, forte l’invito alla partecipazione che va allenata – afferma il Papa - con solidarietà e sussidiarietà perché la fraternità fa fiorire i rapporti sociali. Preoccupa l'astensionismo elettorale

È un discorso sottolineato da molti applausi quello che Papa Francesco rivolge ai partecipanti alla 50.ma Settimana sociale dei cattolici sul tema: “Al cuore della democrazia. Partecipazione tra storia e futuro” che si chiude in questa domenica, 7 luglio, a Trieste. Giunto poco prima delle 8 nella città di frontiera tra l’Italia e i Balcani, il Pontefice intreccia il suo discorso con il ricordo personale, parlando del nonno che aveva combattuto sul Piave e che per primo gli aveva fatto conoscere Trieste. 

Francesco si sofferma poi sulla parola “cuore” che declina accanto al termine “democrazia” e citando il Beato Giuseppe Toniolo la lega al bene comune.

È evidente che nel mondo di oggi la democrazia non gode di buona salute. Questo ci interessa e ci preoccupa, perché è in gioco il bene dell’uomo, e niente di ciò che è umano può esserci estraneo.

Da qui l’appello ad una assunzione di responsabilità per “costruire qualcosa di buono nel nostro tempo”, dando “attenzione alla gente che resta fuori o ai margini dei processi”.

Una crisi trasversale

Ricordando la Nota Pastorale con cui nel 1988 la Chiesa italiana ha ripristinato le Settimane sociali, il Papa sottolinea la concordanza con la visione promossa dalla Dottrina Sociale della Chiesa, che guarda alle “dimensioni dell’impegno cristiano" e ad "una lettura evangelica dei fenomeni sociali” non solo per l’Italia ma per l’intera società umana.  

Così come la crisi della democrazia è trasversale a diverse realtà e Nazioni, allo stesso modo l’atteggiamento della responsabilità nei confronti delle trasformazioni sociali è una chiamata rivolta a tutti i cristiani, ovunque essi si trovino a vivere e ad operare, in ogni parte del mondo.

Cuore ferito

La crisi della democrazia è vista dal Papa come un cuore ferito. "Costruzione e intelligenza" mostrano un cuore “infartuato” ma preoccupano le diverse forme di esclusione sociale.

Ogni volta che qualcuno è emarginato, tutto il corpo sociale soffre. La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani, i vecchi. Questa è la cultura dello scarto.  Il potere diventa autoreferenziale, - è una malattia brutta questa -  incapace di ascolto e di servizio alle persone.

Preoccupazione per l'astensionismo

Ricordando le parole di Aldo Moro per cui lo Stato è democratico se a servizio dell’uomo, Francesco sottolinea come la democrazia è tale se ci sono le condizioni per esprimersi e partecipare. 

Nel frattempo a me preoccupa il numero ridotto della gente che è andata a votare. Cosa significa quello? Non è il voto del popolo solamente ma esige che si creino le condizioni perchè tutti si possano esprimere e possano partecipare. 

Una democrazia da allenare

“La partecipazione – afferma il Papa - non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va ‘allenata’, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche”. Il Papa insiste poi sull’apporto che il cristianesimo può dare allo sviluppo culturale e sociale europeo nell’ambito di una corretta relazione fra religione e società:

…promuovendo un dialogo fecondo con la comunità civile e con le istituzioni politiche perché, illuminandoci a vicenda e liberandoci dalle scorie dell’ideologia, possiamo avviare una riflessione comune in special modo sui temi legati alla vita umana e alla dignità della persona. Le ideologie sono seduttrici. Qualcuno le comparava come a quello che a Hamelin suonava il flauto; seducono, ma ti portano a negarti.

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In ascolto di Papa Francesco

L'indifferenza è il cancro della democrazia

Fecondi restano i principi di solidarietà e di sussidiarietà. “La democrazia richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal ‘fare il tifo’ al dialogare”. "Ogni persona ha un valore; ogni persona è importante". 

Tutti devono sentirsi parte di un progetto di comunità; nessuno deve sentirsi inutile. Certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone ...Mi fermo alla parola assistenzialismo. L’assistenzialismo, soltanto così, è nemico della democrazia e è nemico dell’amore al prossimo. E certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone sono ipocrisia sociale. Non dimentichiamo questo. E cosa c’è dietro questo prendere distanze dalla realtà sociale? C’è l’indifferenza, e l’indifferenza è un cancro della democrazia, un non partecipare.

Partecipare con creatività

Papa Francesco, parlando del cuore risanato,  elenca numerosi esempi di segni dell’azione dello Spirito Santo che sono espressione di creatività. Ricorda, ad esempio, chi assume nella propria attività una persona con disabilità o le comunità energetiche rinnovabili che promuovono l’ecologia integrale. "Tutte queste cose  - afferma - non entrano in una politica senza partecipazione. Il cuore della politica è fare partecipe. E queste sono le cose che fa la partecipazione, un prendersi cura del tutto; non solo la beneficenza, prendersi cura di questo …, no: del tutto!".

La fraternità fa fiorire i rapporti sociali; e d’altra parte il prendersi cura gli uni degli altri richiede il coraggio di pensarsi come popolo…In effetti, «è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo». Una democrazia dal cuore risanato continua a coltivare sogni per il futuro, mette in gioco, chiama al coinvolgimento personale e comunitario. Sognare il futuro. Non avere paura di quello.

Non una scatola vuota

L’esortazione del Papa è a non cercare soluzioni facili, ma ad appassionarsi al bene comune e come cristiani “avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico”.

Ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale.

Una voce che denuncia e il "fiuto" del popolo

I cattolici, sottolinea Francesco, non devono accontentarsi di "una fede marginale o privata", hanno qualcosa da dire, “non per difendere i privilegi”, ma perché devono essere “voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce”, agendo senza la pretesa di essere ascoltati ma avendo “il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico”. “Questo – afferma il Papa - è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause”. "Una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni". 

Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte. E questa è una cosa importante nel nostro agire politico, anche dei pastori nostri: conoscere il popolo, avvicinarsi al popolo. Un politico può essere come un pastore che va davanti al popolo, in mezzo al popolo e dietro al popolo. Davanti al popolo per segnalare un po’ il cammino; in mezzo al popolo, per avere il fiuto del popolo. Un politico che non abbia il fiuto del popolo, è un teorico. 

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Papa Francesco accanto a monsignor Renna, Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali

“Organizzare la speranza”

In conclusione l’invito del Papa al laicato cattolico italiano, sull’esempio di Giorgio la Pira, è quello di alimentare progetti di buona politica che possono far rinascere la speranza. Francesco indica un orizzonte di lavoro, guardando al prossimo Giubileo, invitando a promuovere iniziative di formazione politica e sociale dei giovani, prevedendo luoghi di confronto e di dialogo e favorendo sinergie per il bene comune.

Non smettiamo mai di alimentare la fiducia, certi che il tempo è superiore allo spazio... Tante volte pensiamo che il lavoro politico è prendere spazi, no! È scommettere sul tempo, avviare processi, non prendere luoghi. Il tempo è superiore allo spazio e non dimentichiamo che avviare processi è più saggio di occupare spazi. Io mi raccomando che voi nella vostra vita sociale, abbiate il coraggio di avviare processi, sempre. È la creatività e anche è la legge della vita. Una donna quando fa nascere un figlio, incomincia a avviare un processo e lo accompagna. Anche noi nella politica dobbiamo fare lo stesso.

Artigiani e testimoni

“Vi benedico – conclude il Papa - e vi auguro di essere artigiani di democrazia e testimoni contagiosi di partecipazione”.

Questo è il ruolo della Chiesa: coinvolgere nella speranza, perché senza di essa si amministra il presente ma non si costruisce il futuro. Senza speranza, saremmo amministratori, equilibristi del presente e non profeti e costruttori del futuro.

Il video integrale dell'incontro con i congressisti a Trieste

* Benedetta Capelli – Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va

Il comandamento primo di tutte le religioni e civiltà è quello di proteggere la vita, senza alcuna restrizione, perché la vita non ci appartiene. Questo principio universale non ammette eccezioni: "Non uccidere" né con le pallottole, né con la fame, né con la calunnia, né con il disprezzo.

Nella situazione attuale dell'Ecuador, come quella del nostro continente e del nostro pianeta, la vita è una realtà che conta molto poco. Lo vediamo in particolare nel nostro Paese con la dichiarazione di "guerra interna" da parte del governo: una dozzina di presunti "terroristi" assassinati, più di 10.000 giovani imprigionati senza un valido procedimento penale, di questi solo circa 300 sono passati attraverso un processo di giustizia. E ancora quanti scomparsi, quanti torturati, quanti cadaveri abbandonati nelle strade? I media tradizionali tacciono su tutto questo, dimenticando quando fa loro comodo la legge suprema: "Non uccidere".

Tutti noi diventiamo complici di tutto questo quando non ci indigniamo, quando restiamo indifferenti, quando restiamo in silenzio, quando non agiamo per fermare o anche solo ridurre questi oltraggi. Con queste omissioni collaboriamo all'escalation e al circolo infernale della violenza. Non vogliamo riconoscere che la violenza non si reprime con l'uso delle armi o con lo spauracchio della pena di morte. Al contrario, esse incoraggiano ancora più violenza e morte.

Si tratta di trovare le cause della violenza e di combatterle con altri mezzi.

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Una giovane donna chiede la fine della violenza durante una manifestazione a Quito nel novembre 2023. Foto: vozdeamerica.com

In Ecuador, le due principali cause di violenza sono la disoccupazione e la corruzione, favorite dal sistema neoliberista. La maggioranza degli ecuadoriani con il "sì" all'insidiosa consultazione di Lenin Morena, con l'elezione di Guillermo Lasso e ora con quella di Daniel Noboa ha votato per la continuità e il consolidamento di questo sistema di morte che dura da 7 anni. Finché continueremo ad eleggere presunti salvatori membri della classe sociale che ci sfrutta, continueremo a stare dalla parte della violenza e dell'espropriazione della vita. Non ci rendiamo conto che i nostri governanti fanno il contrario di quello che ci promettono in campagna elettorale?

Questa classe sociale composta da traditori, banchieri e grandi imprenditori vive sul nostro sfruttamento e impoverimento. Crediamo alle loro bugie: "Niente più tasse! Niente più disoccupazione! Niente più persecuzione politica! Niente più salari da miseria! Niente più ospedali senza medicine! Niente più abbandoni scolastici!". La realtà ci mostra la falsità di queste promesse, oppure preferiamo essere ingannati e sfruttati? Quando potremo gridare: "Basta con la violenza!". I giovani del nostro Paese stanno pagando con le loro vite uccise o distrutte il prezzo dei nostri ripetuti errori e della nostra colpevole ignoranza.

Ora il presidente Noboa propone anche un referendum per confermare le bugie della sua campagna presidenziale e rafforzare il sistema neoliberale che ci sta uccidendo lentamente e violentemente. Come se non bastasse, per nostra grande sfortuna, i sondaggi ci dicono che il "sì" trionferà.

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Il candidato presidenziale ecuadoriano assassinato, Fernando Villavicencio, parla durante un comizio elettorale a Quito, il 9 agosto 2023.

Noi stessi stiamo tracciando la strada verso una più grande situazione di miseria. Quando apriremo gli occhi e decideremo di vivere una vita retta e dignitosa? Quando affronteremo il sistema neoliberista che ci governa e ci rende miserabili?

Solo invertendo le cause che provocano la violenza riusciremo ad eliminarla. Se queste cause sono responsabilità di ognuno di noi, come l'indifferenza e la complicità, sono queste le due realtà che devono essere superate. Per questo le religioni e la Bibbia in particolare ci indicano una via, invitandoci ad amare: "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Se la corruzione è un'altra causa di violenza, una causa collettiva di violenza, dobbiamo bandire ciò che la provoca e avviare una convivenza fraterna.

Gesù di Nazareth ci apre una strada collettiva: unirci per realizzare la fraternità e fare dell'amore l'asse delle nostre relazioni. Gesù ha lasciato in eredità a noi che abbiamo promesso di seguirlo il suo unico comandamento: "Vi amerete gli uni gli altri come io vi ho amato". La vita sociale non è solo un impegno individuale, è soprattutto un impegno collettivo: organizzarsi per rendere possibili relazioni di rispetto, di giustizia e fraternità. Non raggiungeremo mai queste tre realtà se non ci uniamo in modo organizzato: Questo si chiama impegno collettivo per la "civiltà dell'amore".

L'attuale sistema neoliberale nega questa civiltà dell'amore come modalità individuale e collettiva perché vive dello sfruttamento dei lavoratori e della morte dei disoccupati. Sono queste le cause che provocano l'attuale stato di violenza e l’errore dei giovani nel sostenere il narcotraffico. Questa situazione non cambierà se non cambieremo noi stessi come singoli, come collettività e soprattutto come organizzazione.  Questo sistema perverso deve essere rovesciato e sostituito.

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Mitad del Mundo: il punto in cui la linea equatoriale passa attraverso Ecuador. Foto: Jaime C. Patias

Attualmente i popoli indigeni, le donne e i giovani sono i gruppi più organizzati che possono rendere possibili nuovi modi di fronteggiare e cambiare l'attuale sistema. Papa Francesco lo conferma nei suoi incontri con i movimenti popolari. Essi sono impegnati in una lotta non violenta, attiva e collettiva, agiscono democraticamente con la partecipazione di tutti, sono creativi nel presentare sia le loro denunce che le loro proposte alternative, sono intelligenti e festosi nelle loro azioni e procedure, credono fermamente che una "civiltà della Vita Buona sia possibile". Molti cristiani sono già coinvolti in queste forme di lotta con le loro proposte innovative per invertire la violenza dei prepotenti.

San Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980, chiese ai soldati salvadoregni: "Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contrario alla Legge di Dio. Una legge immorale non deve essere rispettata da nessuno".

* Padre Pedro Pierre Riouffrait, sacerdote diocesano nato in Francia nel 1942, missionario in Ecuador dal 1976.

“Basta silenzio”. “Giù le mani della Repubblica Democratica del Congo”. “Basta con le guerre per i minerali”. “Più di 12 milioni di morti”. Questi sono stati alcuni degli slogan gridati dalla comunità congolese a Roma, domenica 10 marzo, per denunciare le atrocità e promuovere la pace nell'est del Paese centrafricano, ricco di metalli preziosi, oro, diamanti e idrocarburi.

“Quello che sta succedendo in Congo è grave e il mondo non ne parla, perché i padroni stessi dei media forse hanno anche loro interessi ed investimenti nel Congo. Per questo il Papa ha detto bene: ‘giù le mani della RDC’”, ci spiega il padre Roger Balowe Tshimanga, cappellano della comunità congolese a Roma mentre accoglie i partecipanti della manifestazione nella chiesa della Natività in Piazza Pasquino. “Oggi la guerra nel Congo diventa più grave della Guerra Mondiale, ma ciò che sorprende è che nessuno parla di questo. Allora, noi congolesi dobbiamo difendere il nostro Paese. Se il mondo non parla, noi stessi dobbiamo parlare ed è quello che stiamo facendo oggi”, aggiunge il religioso proprio quando suona la campana per l'inizio della messa alle 9:00 come previsto.

Messa e preghiera per la pace

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Mons. Ricardo Lama: “l’amore di Dio in Gesù va oltre tutte le sofferenze, il dolore e la morte di croce"

Animata in stile congolese, un popolo gioioso, la celebrazione è stata presieduta da uno dei vescovi ausiliari di Roma, monsignor Riccardo Lamba, recentemente nominato arcivescovo di Udine. I canti, le preghiere e le riflessioni hanno ricordato le vittime della violenza e lanciato un forte appello per la fine dei saccheggi, delle aggressioni e per la pace nella RDC. Oltre 200 persone, alcuni provenienti da altre parti d'Italia, si sono riunite per l’evento, molti sacerdoti, religiosi e religiose, ma non solo, anche gruppi e associazioni ecclesiali impegnati nella stessa causa.

“La presenza del vescovo rappresenta Pietro e quindi, la vicinanza del Santo Padre a tutti le persone di buona volontà. Papa Francesco ama il popolo congolese”, ha assicurato Mons. Riccardo Lama all’inizio della sua omelia nella IV domenica di Quaresima, “Laetare”, che ci invita alla gioia. “Questa gioia - dice il vescovo – non è un sentimento passeggero o per un successo momentaneo, ma vuole dire che noi siamo sempre preceduti dall’amore di Dio che ci ama da sempre e per sempre”. E riferendosi alle sofferenze della umanità e del popolo congolese, Mons. Riccardo ribadisce: “Questo amore è dimostrato attraverso la persona di Gesù Cristo che ha esperimentato la sofferenza, ha dovuto subire la passione e la morte”, e vuole dire che “l’amore di Dio in Gesù va oltre tutte le sofferenze, il dolore e la morte di croce". Così deve essere anche "la speranza della comunità congolese”.

In questo senso, le immagini di due martiri congolesi, la beata Sr Anuarite Nengapeta e il beato Isidore Bakanja esposti davanti all'altare diventano testimoni della fede in Gesù Cristo, il grande Martire, e perciò di un amore che è più forte della morte.

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Alla celebrazione hanno partecipato anche l'Ambasciatore di Haiti presso la Santa Sede, S.E. il Sig. Jean Jude Piquant e l'Ambasciatore della RDC, S.E. il Sig. Rigobert Itoua, che ha così sottolineato l'importanza dell'evento: “una giornata per sostenere la pace e fermare le atrocità contro il nostro popolo”. Anche le Nazioni Unite denunciano un'escalation in corso, in particolare nell'area della provincia del Nord Kivu, nella città di Goma che ha accolto circa 2,5 milioni di sfollati interni. Il conflitto regionale si sta sviluppando nella parte orientale della RDC, dove la violenza aumenta di mese in mese. Al centro del problema sempre la contesa per il controllo del territorio e dove ci sono giacimenti di diamanti e miniere ricche di minerali e metalli preziosi, in particolare dell’est, al confine con Burundi, Ruanda e Uganda. Sullo sfondo, a muove le fila di tutto, si muovono le grandi potenze: Stati Uniti, Francia e Cina.

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 l'Ambasciatore di Haiti presso la Santa Sede, S.E. il Sig. Jean Jude Piquant e l'Ambasciatore della RDC, S.E. il Sig. Rigobert Itoua (terzo da sinistra a destra).

Marcia per le vie di Roma

Dopo la messa, è iniziata la marcia per le vie di Roma, da Piazza Pasquino fino a Piazza San Pietro. Lungo il percorso i passanti e i pellegrini hanno potuto leggere e cartelli e gli striscioni con il motivo della manifestazione. Nasibu Barth, studente di filosofia politica alla Università Lateranense e responsabile del coro Bondeko (fratellanza) che anima il rito cattolico zairese nella Chiesa della Natività, è stato uno degli organizzatori della marcia. Utilizzando un megafono, il giovane studente proclamava slogan intercalati da canti con accenni sulla situazione del Congo. A più riprese è risuonato il grido: “Basta silenzio”. “Liberate le terre congolese dagli interessi sporchi”. “Basta la guerra”. “Più di 12 milioni di morti” mentre la marcia proseguiva lungo il percorso concordato con le forze dell’ordine.

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La comunità congolese marcia per la pace in Via Vittorio Emanuele  II.

Nell'Angelus il saluto di Francesco

Attraversata via della Conciliazione, alle ore 11:30, il gruppo si è unito alla folla di pellegrini radunati in Piazza San Pietro per la preghiera dell'Angelus con Papa Francesco. L’atmosfera intorno era cambiata, il gruppo dei congolesi si è trovato al centro della cristianità abbracciati dal colonnato del Bernini come le “braccia materne della Madre Chiesa”. Hanno potuto così unire la loro voce, e sentirsi in sintonia con tutta l'umanità, cantando e pregando per la pace.

Oltre ai fratelli e sorelle musulmani che stanno per cominciare il Ramadan, il Santo Padre ha ricordato anche le guerre nel mondo e la grave crisi sociale, politica e umanitaria che colpisce Haiti, Paese da anni provato da molte sofferenze con decine di persone uccise e più di 15 mila costrette ad abbandonare le loro case a causa degli attacchi coordinati delle bande armate.

I loro cuori si sono riempiti di gioia e gratitudine quando hanno ascoltato le parole tante attese, pronunciate dal Santo Padre: “E mentre saluto con affetto la comunità cattolica della Repubblica Democratica del Congo a Roma preghiamo per la pace in questo Paese africano come pure nella martoriata Ucraina e in Terra Santa cessino al più presto le ostilità che provocano immani sofferenze nella popolazione civile”, ha detto Francesco.

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È tempo di rompere il silenzio

Insieme ad altre donne, Bumi Muluwa Rose, dell’Istituto secolare dominicane in Congo, aiutava a portare uno striscione con la scritta: “Non alla guerra e ai massacri”.

“Sono venuta qui per parlare a tutti coloro che usano il cellulare e il satellite che sono bagnati dal sangue. Basta! Siamo stanche di morire” - esclama Rose e continua - “anche voi missionari avete fatto tanto per il Congo ma adesso dovete lottare con noi”, - accennando anche alla figura dell’ambasciatore dell’Italia nella RDC (Luca Attanasio) che è stato ucciso nel 2021, - “mentre la comunità internazionale rimane in silenzio, non vuole parlare”.

Alla domanda su come aveva accolto il saluto del Papa, Rose ha risposto: “Papa Francesco è sempre con noi, lui è per tutti e ha lottato per noi prima. Francesco ha osato alzare la voce: “Giù le vostre mani della RDC e del Africa’, però il mondo non l’ha ascoltato, la comunità internazionale che ci ruba e che ci violenta... Questo non lo vogliamo più. Basta!”, esclama a voce alta in Piazza San Pietro.

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Questo grido della comunità congolese a Roma se unisce agli altri gridi per porre fine alle atrocità e ai conflitti in tutto il mondo, come quelli che imperversano a Cabo Delgado, nel Mozambico, in Etiopia, in Sudan, nel Sud Sudan, in Terra Santa e in Ucraina... È tempo di rompere il silenzio e denunciare il coinvolgimento dei paesi più potenti che favoriscono la continuazione dei conflitti causando la morte di milioni di innocenti, soprattutto di donne e bambini.

* Padre Jaime C. Patias, IMC, comunicazione Generale, Roma.  

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 Le immagini di due martiri congolesi, la beata Sr Anuarite Nengapeta e il beato Isidore Bakanja esposti davanti all'altare  nella chiesa della Natività

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La partecipazione dei missionari della Consolata a Roma, i padri Innocent, Giacomo e Michelangelo

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Papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale del migrante. 24 settembre 2023

I flussi migratori dei nostri giorni sono espressione di un fenomeno complesso e articolato, la cui comprensione esige l’analisi attenta di tutti gli aspetti che caratterizzano le diverse tappe dell’esperienza migratoria, dalla partenza all’arrivo, incluso un eventuale ritorno. 

“Liberi di partire, liberi di restare”, era il titolo di un’iniziativa di solidarietà promossa qualche anno fa dalla Conferenza Episcopale Italiana come risposta concreta alle sfide delle migrazioni contemporanee. E dal mio ascolto costante delle Chiese particolari ho potuto comprovare che la garanzia di tale libertà costituisce una preoccupazione pastorale diffusa e condivisa.

«Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13). La fuga della Santa Famiglia in Egitto non è frutto di una scelta libera, come del resto non lo furono molte delle migrazioni che hanno segnato la storia del popolo d’Israele. Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è. Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire. 

I migranti scappano per povertà, per paura, per disperazione. Al fine di eliminare queste cause e porre così termine alle migrazioni forzate è necessario l’impegno comune di tutti, ciascuno secondo le proprie responsabilità. Un impegno che comincia col chiederci che cosa possiamo fare, ma anche cosa dobbiamo smettere di fare. Dobbiamo prodigarci per fermare la corsa agli armamenti, il colonialismo economico, la razzia delle risorse altrui, la devastazione della nostra casa comune.

Per fare della migrazione una scelta davvero libera, bisogna sforzarsi di garantire a tutti un’equa partecipazione al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale. Solo così si potrà offrire ad ognuno la possibilità di vivere dignitosamente e realizzarsi personalmente e come famiglia. È chiaro che il compito principale spetta ai Paesi di origine e ai loro governanti, chiamati ad esercitare la buona politica, trasparente, onesta, lungimirante e al servizio di tutti, specialmente dei più vulnerabili. Essi però devono essere messi in condizione di fare questo, senza trovarsi depredati delle proprie risorse naturali e umane e senza ingerenze esterne tese a favorire gli interessi di pochi. 

È necessario uno sforzo congiunto dei singoli Paesi e della Comunità internazionale per assicurare a tutti il diritto a non dover emigrare, ossia la possibilità di vivere in pace e con dignità nella propria terra. Si tratta di un diritto non ancora codificato, ma di fondamentale importanza, la cui garanzia è da comprendersi come corresponsabilità di tutti gli Stati nei confronti di un bene comune che va oltre i confini nazionali. Infatti, poiché le risorse mondiali non sono illimitate, lo sviluppo dei Paesi economicamente più poveri dipende dalla capacità di condivisione che si riesce a generare tra tutti i Paesi. Fino a quando questo diritto non sarà garantito – e si tratta di un cammino lungo – saranno ancora in molti a dover partire per cercare una vita migliore.

(Impariamo a) riconoscere nel migrante non solo un fratello o una sorella in difficoltà, ma Cristo stesso che bussa alla nostra porta. Perciò, mentre lavoriamo perché ogni migrazione possa essere frutto di una scelta libera, siamo chiamati ad avere il massimo rispetto della dignità di ogni migrante; e ciò significa accompagnare e governare nel miglior modo possibile i flussi, costruendo ponti e non muri, ampliando i canali per una migrazione sicura e regolare. Ovunque decidiamo di costruire il nostro futuro, nel Paese dove siamo nati o altrove, l’importante è che lì ci sia sempre una comunità pronta ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare tutti, senza distinzione e senza lasciare fuori nessuno.

Il percorso sinodale che abbiamo intrapreso, ci porta a vedere nelle persone più vulnerabili –e tra questi molti migranti e rifugiati– dei compagni di viaggio speciali, da amare e curare come fratelli e sorelle. Solo camminando insieme potremo andare lontano e raggiungere la meta comune del nostro viaggio.

MESSAGGIO COMPLETO

Preghiera

Dio, Padre onnipotente,
donaci la grazia di impegnarci operosamente
a favore della giustizia, della solidarietà e della pace,
affinché a tutti i tuoi figli sia assicurata
la libertà di scegliere se migrare o restare.

Donaci il coraggio di denunciare
tutti gli orrori del nostro mondo,
di lottare contro ogni ingiustizia
che deturpa la bellezza delle tue creature
e l’armonia della nostra casa comune.

Sostienici con la forza del tuo Spirito,
perché possiamo manifestare la tua tenerezza
ad ogni migrante che poni sul nostro cammino
e diffondere nei cuori e in ogni ambiente
la cultura dell’incontro e della cura.

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