La Sofferenza Che Redime Nella Perseveranza

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«Per salvare bisogna soffrire»

 

Amatissimi Confratelli,

L'argomento per questa Circolare me lo suggeriscono i pensieri nei quali la mia mente è spesso occupata in questi tempi, in cui le Missioni nostre e specialmente quelle della Cina passano per il crogiuolo di tante tribolazioni.

Tutti voi, amati confratelli, dovunque vi trovate, in Italia o sparsi per il mondo, avete certamente condiviso e condividete ansie e dolori, con quelli che hanno sofferto e soffrono per la causa della fede, per rimanere fedeli alla loro vocazione, e per essi ferventemente pregate. Ebbene, «Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio»(Rm 8,28): cerchiamo di trarre tutti qualche profitto ed insegnamento da queste dolorose traversie, che non sono ancora al loro termine, per ben comprenderle, per sostenerle coraggiosamente e con spirito di fede, come si conviene a veraci Apostoli di Gesù Cristo.

Questo insegnamento e questo profitto vogliono essere, per i giovani che si preparano o sono appena scesi nell'arena, un più vivo attaccamento alla loro vocazione nelle file del nostro Istituto; per quelli che da anni sono sul campo e nel mezzo della mischia una fedeltà a tutta prova in questa stessa vocazione, vedendo tutti nelle attuali difficoltà niente altro che il verificarsi di quanto N. Signore ha predetto ai suoi Apostoli di tutti i tempi: « ... se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi... Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo» (Gv 15,20 e 16,33). Vi dirò dunque con quale spirito dobbiamo soffrire le prove che il Signore ci manda e come dobbiamo perseverare nella nostra santa vocazione.

Disposti anche al martirio

Il vescovo di una nostra missione fra le più provate mi esorta a parlar chiaro ai nostri giovani. «Dica loro, mi dice, che debbono venire qui ben fondati nell'amore di Gesù Crocifisso. Debbono venire disposti a tutto, a rassegnarsi all'inazione, alle disillusioni più complete, ad ogni persecuzione, patimento e privazione. Siamo in tempi in cui possiamo aspettarci ogni sorpresa. Vengano provveduti di grande calma e spirito di fede».

Ed un altro così mi raccomanda: «Durante la formazione in Italia bisogna togliere per tempo le illusioni che i giovani si fanno sulla vita di missione. Se si vogliono davvero salvare le anime bisogna prepararsi ad un lavoro duro, continuo, fra gente rozza: lavoro monotono e spesso sterile alle apparenze. E poi vi sono le prove, le tribolazioni, le privazioni, ma non quelle che vorremmo noi».

Ebbene ai giovani, ai provetti, a tutti quelli che militano o vogliono militare nelle nostre file io presento queste venerande raccomandazioni dei nostri Ecc.mi Vescovi, di voler essere e di mostrarci alla prova degni della nostra divina vocazione, che tutti stimano eroica appunto perché la vita del missionario, più che quella del prete in patria, è una vita di grandi rinunzie, di contraddizioni e di sofferenze. Se noi missionari non comprendessimo la Croce, chi la dovrebbe comprendere? Perciò non ci dovrebbe essere bisogno che io mi intrattenga su questo argomento, perché ho fiducia che, quanti siamo nell'Istituto, tutti abbiamo il pieno e retto intendimento di quello che è ed importa la nostra sublime vocazione di apostoli di Gesù Cristo; a Gesù che un giorno ci domandò: «Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato? tutti rispondemmo, fidando nella sua grazia: Lo possiamo»(Mc 10,38)!

Ma poiché grande è l'umana fiacchezza, e, se lo spirito è pronto, la carne troppo spesso sente la sua infermità, utile può riuscire un'esortazione ed un richiamo su questo punto in tempi così sconcertanti come quelli che attraversiamo, quando tanti dei nostri debbono subire un martirio. Un martirio forse «più mite per l'orrore, ma più molesto per la sua durata».

Per salvare bisogna soffrire

Nessuno mai dei nostri veri missionari si è avventurato nelle missioni senza avere approfondito nelle sue meditazioni il mistero della Divina Redenzione, la quale, come non si è operata senza la Croce di Gesù, così senza le croci e le sofferenze dei suoi apostoli non continua ad operarsi nelle anime. Dobbiamo assolutamente avere su questo punto gli stessi sentimenti di N. Signore, se vogliamo essere suoi missionari genuini e veraci. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù ... il quale per glorificare il Padre e salvare le anime umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla mortedi croce» (Fil 2,5 e 8).
Ognuno che si dedichi alla salute delle anime deve aspettarsi il patimento; quanto più i missionari, che non hanno altro scopo fuori di quello di dare nuovi figli a Dio ed alla Chiesa nei paesi infedeli. Ed i figli non si partoriscono senza dolore. È morendo sulla croce che Gesù ci ha partorito alla vita eterna; fu ai piedi della croce che Maria divenne nostra madre. Nell'ordine soprannaturale, il dolore e spesso anche la morte sono ragione di fecondità. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane so se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Per salvare bisogna soffrire. I giovani aspiranti, i missionari che non intendono questa dottrina debbono starsene a casa, per ché non si diventa salvatore di anime ad altro prezzo.

La passione di Cristo si prolunga nella Chiesa

La passione di N. Signore per la salute delle anime non si esaurita nella sua divina Persona; essa si prolunga nei suoi missionari ed in tutti i ministri della Chiesa, secondo la chiara dottrina di S. Paolo, il quale ai Colossesi scriveva: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello chemanca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesadi cui sono divenuto ministro»(Col 1,24).
Oh! come io desidero che i nostri missionari abbiano tutto chiaro, pratico intendimento di questa fondamentale dottrina come chiaramente e praticamente l'aveva l'apostolo delle Genti Abbattuto sulla via di Damasco e convertito in Apostolo, favorito delle più alte rivelazioni, destinato al ministero delle genti, egli seppe subito quale porzione di patimenti gli era riservata nell’apostolato:«Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il m nome»(At 9,16). Ogni missionario che si avventura nelle missioni deve quindi possedere la profonda conoscenza di questa dottrina come S. Paolo, il quale protesta di non saper altro che questo: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso» (1Cor 2,2).
S. Paolo e tutti i santi missionari dopo di lui, fondavano la speranza del frutto del ministero delle anime sulla somma dei patimenti sofferti per esse. Ai Filippesi l'apostolo scrive: «Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno» (Fil 1,12). Ed ai Tessalonicesi, ancor più chiaramente, voi sapete, dice, perché la mia venuta tra voi è stata così ricca di frutti spirituali: «La mia venuta tra voi non fu vana… Perché?... dopo aver sofferto e subito oltraggi a Filippi, abbiamo avuto il coraggio di annunziarvi il Vangelo di Dio» (1Ts 2,1-2).

Se si soffre, si può a buon diritto sperare...

Se dunque anche i nostri missionari hanno sofferto, e tanti di essi hanno sofferto assai e soffrono tuttora; se alcuni hanno patito prigionia, fame, sete, ed ogni sorta di vilipendi ed obiezioni, passando giorni e mesi di vera agonia, spesso percossi e continuamente minacciati di morte; se saccheggi, devastazioni, incendi, hanno distrutto e vanno distruggendo case, chiese, opere che sono costate anni di fatiche e mezzi considerevoli; se vediamo le nostre cristianità disperse, il ministero reso troppo frequentemente difficile e pericoloso; se ci vediamo sistematicamente perseguitati, odiati, disprezzati e in tante missioni non abbiamo a chi ricorrere per aiuto e ci si nega perfino il diritto di domandare giustizia e protezione; se ci è parso che tanti martiri, tante rovine non siano stati sempre giustamente valutati e tardi o insufficienti sono giunti i soccorsi; se tutte queste ed altre cose noi soffriamo, abbiamo buon diritto di sperare bene per l'avvenire delle nostre missioni e dell'Istituto al quale esse sono affidate, potendovi dire con l'apostolo Pietro: «Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo rallegratevi.Beati voi se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposano su di voi» (1Pt 4,1-4).
Può sembrare pazzia così sperare, eppure questa e non altra è la filosofia dell'Apostolato, questa è la politica di Dio. Se noi sappiamo comprenderla, se vivendo da santi missionari sappiamo cooperarvi, avremo per noi la vittoria finale, vittoria che non è necessario abbiamo a vedere con i nostri propri occhi in questa nostra vita mortale.

Se si soffre, si redime

Il nostro Istituto rappresenta la Chiesa, è una parte viva della Chiesa nelle Missioni che ci sono state affidate dal Rappresentante di Gesù Cristo in terra. I Vescovi in queste Missioni sono nostri confratelli, come della nostra famiglia sono tutti i missionari che con l'autorità della Chiesa abbiamo ad essi mandati, perché lavorino sotto la loro direzione.
Lavorando nella Chiesa e per la Chiesa, l'Istituto ed i suoi Missionari sono chiamati a combattere e possono anche cadere; ma non cade la Chiesa. Ad essa è riservato il trionfo finale ed a tutti quelli che per Essa hanno l'onore di soffrire e di morire: «Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo»... (Gv 16,33)«Le porte degli inferi non prevarranno» (Mt 16,18).
D'altra parte non apparteniamo noi a quell'ardimentosa schiera di soldati della Chiesa militante che combatte sulle linee più avanzate, per la conquista di tutto il mondo a Gesù Cristo? Non siamo noi dell'eletto ordine degli Apostoli, dei primi evangelizzatori dei popoli? E come fu da essi piantata la fede fra le genti, come fondarono le prime Chiese? A costo di martiri e di sangue, sempre. Di essi canta la Chiesa: «Questi sono coloro che vivendo nella carne, piantarono la Chiesa con il proprio sangue: bevvero il calice del Signore e diventarono amici di Dio» "!
Nessuno di noi dunque si meravigli se nelle missioni si soffre, se oggi in alcuni luoghi si soffre più dell'ordinario... Vuol dire che tutto va ottimamente. Se si soffre, si redime. Non volemmo essere, non vogliamo essere redentori, salvatori di anime? C'è da meravigliarsi se oggi il Signore ci chiede una somma più abbondante di patimenti per la loro salvezza? Per far germogliare A seme della fede nei paesi infedeli tante volte occorrono piogge di sangue. «Senza spargimento di sangue non c'è perdono»; «Il sangue dei martiri è seme di cristiani».

Beato quel giorno in cui mi sarà dato di soffrire...

E quale dei nostri missionari non ha preveduto che la fedeltà alla sua vocazione avrebbe potuto richiedere patimenti ed anche il martirio? Chi non ha accettato, chi non ha desiderato anche questa gloriosa eventualità? Certo, quanti siamo membri di questo nostro Istituto abbiamo tutti con sincerità proferito le parole della bella «protesta» che facemmo il giorno della nostra partenza per le Missioni: «Ho risoluto - dicemmo allora al Signore - con il vostro concorso di adoperarmi a costo di qualunque sacrificio, di qualunque fatica o disagio, vi andasse pur anche la vita, per la salvezza di quelle anime sventurate, che costano esse pure tutto il sangue della Redenzione. Beato quel giorno in cui mi sarà dato di soffrire molto per una causa sì santa e sì pietosa, ma più beato quello in cui fossi trovato degno di spargere per essa il mio sangue e d'incontrare fra i tormenti la morte».
Forse non avremo l'occasione e la ventura di spargere il sangue per la fede; ma saremo per questo meno martiri davanti a Dio, se soffriamo tutto quello che la fedele corrispondenza alla nostra vocazione e la perseveranza nelle Missioni ci impone?

Martirio prolungato, nascosto, penoso...

Miei amatissimi confratelli, ammiro, amo, venero questo nostro Istituto perché più che un Istituto di missionari, esso è un Istituto di votati al martirio, non, come ho detto, al martirio di sangue che si esaurisce con una morte pronta e gloriosa, ma molto spesso ad un martirio prolungato, nascosto, penoso, che mina lentamente - e non sempre tanto lentamente! - le preziose, generose, sante esistenze di tanti dei suoi membri.
Possiamo dire della fede quello che Tertulliano diceva della castità: «Ècosa più grande vivere con la castità che morire per la castità» (Tertulliano). Sì, è un martirio lento, ma non meno meritorio e grande agli occhi di Dio, quello che, per propagare la fede, i nostri missionari subiscono giornalmente, soggetti come sono a tanti disagi, a tante privazioni, a tante intemperie, a tante malattie nelle quali, molto verosimilmente, non incorrerebbero se fossero rimasti in patria. Leggete il nostro necrologio: uno o due (I missionari del Pime uccisi per la fede oggi sono in tutto 18) hanno avuto la sorte di spargere il sangue per la fede, ma quanti e quanti hanno dato per la fede la loro vita goccia a goccia, quanti questa vita l'hanno sacrificata ed abbreviata, logorati da febbri o abbattuti da morbi crudeli! Il primo dei nostri morti, il Catechista Corti I, partito per l'Oceania il 16 marzo del 1852, il 17 marzo del 1855 offriva già a Dio l'olocausto della sua vita. L'ultimo nostro confratello defunto, il p. Paolo Fontana, partito solo nel 1928, in poco più di due anni ha compiuto il suo corso, cadendo vittima della sua carità e del suo zelo assistendo i colerosi.
Non si è sparso molto sangue per la fede, ma quante vite troncate per la causa della fede, per dare a N. Signore il supremo attestato dell'amore con la completa, totale itnmolazione di tutto se stessi! Se è vero che «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13)si ha ben ragione di nutrire somma stima e venerazione per questo nostro Istituto, che ha dato e dà ancora a Dio prove così indiscutibili della più perfetta carità.
I nostri missionari hanno dato un non indifferente contributo alla propagazione della fede con la loro predicazione, con il loro zelo instancabile, con le loro molteplici opere; ma il contributo più prezioso è indubbiamente la somma di sofferenze e di immolazioni che hanno avuto il bene di offrire e che ogni giorno offrono al Signore per la salvezza delle anime che sono loro affidate. Consideriamole queste cose perché ci fanno bene; le considerino specialmente i nostri giovani e si misurino, misurino le forze, la loro capacità di amare e quindi di sacrificarsi per amore di N. Signore.
Il nostro Istituto richiede tempre non comuni, richiede soprattutto cuori generosi ed infiammati di genuino amore di Dio. Vocazioni apostoliche non basate su questo fondamento di un grande amore di Dio, sono false vocazioni e non resistono alla prova. Lo ricordate? «Simone di Giovanni, mi ami? Gli rispose: Certo, Signore, tu sai che io ti amo. Gli disse: Pasci i miei agnelli» (Gv 21,16). Ecco quello che vuole da noi il Signore per affidarci le sue anime.

Esempi di eroica fortezza

Ai nostri dilettissimi giovani presento con queste considerazioni l'esempio dei nostri venerandi Vescovi e missionari della Cina. Sono anni che sostengono la dura prova, e non abbiamo avuto segni di debolezza da nessuna parte, nessuno ha tremato davanti a tanti pericoli, nessuno ha vilmente disertato il suo posto. Ricordo con somma edificazione quei nostri padri di Hong Kong, che appena liberati dalle mani dei comunisti, non vollero lasciare tutti insieme il loro posto per venirmi a trovare nella visita che loro feci, per non dare ai nemici nemmeno l'impressione che disertassero ed ai cristiani che li abbandonassero. Ed in tutte le altre nostre missioni, quali cristianità furono abbandonate? Se per un momento si dovette lasciare un luogo, passata la bufera, si rioccuparono subito le posizioni. Se qualcuno ha dovuto rimpatriare perché affranto dalle fatiche e dai patimenti, non altro ha desiderato che di riguadagnare presto le forze per ritornare sul campo.
Pronto a partire per l'esilio S. Giovanni Crisostomo scriveva al suo popolo: «Nessuno ci potrà staccare da voi: quelli infatti che Cristo unì, l'uomo non separerà. Io, in verità, da voi non sarò strappato neppure dalla morte, io sono preparato ad essere mille volte immolato per voi. In questo non mi si fa un favore, ma sono io che restituisco un debito: il buon pastore infatti dà la vita per le sue pecore». Questi sono pure i sentimenti dei nostri missionari, questo il loro senso del dovere. Questo l'attaccamento alla loro vocazione, l'amore per le anime che hanno generato a Cristo. Se fra tante pene una cosa ci ha edificato e sostenuto, è stato lo spirito forte e generoso con il quale i nostri cari confratelli hanno sofferto e soffrono. Potrei scrivere belle cose in loro onore, ma non credo si debba per nostra edificazione offendere la loro modestia.
Mi limito solo a riferire qui, perché molto eloquente, qualche tratto di una lettera che l'E.mo Cardinale Prefetto di Propaganda indirizzava il 21 marzo di questo anno a S.E. Mons. Balconi per esprimere il suo alto compiacimento per il mirabile comportamento dei Padri di quella martoriata missione.
«... Può con ragione dirsi di codesti Missionari che «sono diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini» (1Cor 4,9).
«Fame, guerra, ed epidemie hanno devastato come una grandine il campo ricco di messi che era costato tanti sudori ai solerti agricoltori. Ma è nella tribolazione e nel pericolo che risaltano le virtù e la forza dei missionari. «Come in una fornace vi ha provatiil Signore» (Sap 3,6). Ed invero esempi luminosi di fermezza, di fede, di carità hanno dato i suoi missionari in questi tristissimi mesi.
«... In mezzo a tanto squallore l'esempio della eroica fortezza dei suoi missionari... mentre costituisce vera gloria per la S. Chiesa non può restare senza compenso da parte del Signore».

Nella Croce la salvezza...

Possiamo quindi ben rallegrarci che N. Signore abbia voluto chiedere anche al nostro Istituto questa nuova prova di amore e di fedeltà. «Perciò, possiamo dire con l'apostolo, mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, ne persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,10).
Amati confratelli, è in questi anni di sofferenza per le nostre missioni che deve affinarsi l'amore che dobbiamo alla nostra divina vocazione. «Quando sono debole è allora che sono forte». Ho detto deve affinarsi, perché tutto oggi cospira a materializzare ogni cosa, anche gli ideali più nobili e santi. La lezione che ci viene dalla Cina è provvidenziale. Ci fa vedere più da vicino la Croce, quella che solamente spiega il Missionario, quella che lo ispira, lo sostiene e lo corona. Povero il missionario, povero il giovane aspirante che nella sua vocazione ha altra visione da quella del Calvario, che sa leggere molti libri ma poco il suo Crocifisso, che ha altre aspirazioni ed intenzioni da quelle dell'Apostolo che in nient'altro sperava e di nient'altro si gloriava fuori che nella Croce di Gesù Cristo: «Quanto a me non ci sia altro vanto chenella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14).
Allora facciamoci animo: «Quando sono debole è allora che sono forte». Se l'Istituto soffre, vuol dire che è forte ed accetto al Signore, vuol dire che è utile alla gloria di Dio ed al bene della Chiesa.
Sì, utile al bene della Chiesa e delle anime. La resistenza, la costanza dei nostri missionari, pur in mezzo a tante traversie, a tante lotte, a tante sofferenze sono state una grande testimonianza che l'Istituto in questi nostri giorni ha dato alla Fede, alla Chiesa, al Signore. L'Istituto ha oggi più di ieri il diritto di cittadinanza in Cina. I nostri neofiti hanno imparato a conoscerci meglio; hanno potuto convincersi, cristiani ed infedeli, che non temiamo le persecuzioni, che niente può smuoverci, perché non stiamo là per nostri personali terreni interessi, ma per un mandato ricevuto da Dio e sostenuti da una forza che non è umana. Passeranno le guerre e si calmeranno i torbidi, perché ciò che è violento non può durare; alla fine più salda rimarrà la fede che abbiamo predicato, più intimi i legami che ci stringono alle cristianità. Cosi, come sempre nelle vie di Dio, dalla morte nasce la vita; il sacrificio deve precedere la gloria; dalle sofferenze, dal dolore viene la forza per il trionfo: «Quando sono debole è allora che sono forte».
I più eminenti uomini apostolici riuscirono in grandi imprese quando passarono per grandi prove. Non scoraggiamoci dunque, amatissimi confratelli; se la vostra vocazione non vacilla davanti a quello che la vita missionaria vi può ancora riservare e potete dire con S. Paolo: «Non ritengo la mia vita meritevole di nulla» (At 20,24); «In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati» (Rm 8,37); «Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch'essi raggiungano la salvezza» (2Tim 2,10), perché «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Rm 8,17)... se questi sentimenti albergate nel vostro cuore, allora ringraziamone tutti insieme il Signore, perché questa è grande, troppo grande grazia che egli ci fa, e cerchiamo di mostrarcene sempre più degni, perché, alla fine, non sono e non saranno sempre croci: «Se veramente partecipiamo alle sue sofferenze parteciperemo anche alla sua gloria: ritengo infatti che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi»(Rm 8,37).
E per confortarci di più, non cessiamo di meditare anche su quelle altre parole di vita: «Se uno mi vuol seguire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26) Che cosa possiamo desiderare di più? Vogliamo disertare? «Forse anche voi volete andarvene? Ma, Signore Gesù, da chi andremo?» (Gv 6,67)e poi... «chi vorrà salvare la propria anima, la perderà» (Mc 8,35).

Gli esempi dei nostri predecessori

Non vogliamo disertare, vogliamo perseverare fino all'ultimo dei nostri giorni nella nostra divina vocazione, al nostro posto di combattimento: questo è indubbiamente il nostro comune sentimento. Lasciate però, amatissimi confratelli, che vi dica alcune parole su questo caro argomento della nostra perseveranza, sul quale da tempo desideravo intrattenervi.
Vi ho detto che amo, ammiro, venero questo nostro Istituto. Ma come e perché, su che cosa è fondato questo amore, questa speciale mia ammirazione? Miei cari, quello che mi fa stimare ed amare il nostro Istituto è lo spirito grande, generoso, con il quale esso, si è dato, si è donato, si è prodigato senza calcoli, senza misura e senza ritorni per la causa della fede, per la salvezza delle anime, per la grandezza della S. Chiesa, ma specialmente perché N. Signore sia conosciuto, amato, servito da tutti gli uomini. Si può darsi a Dio in tanti modi; ma io non ho visto e non so chi possa darsi di più di tanti nostri missionari.
Non mi ha fatto perciò meraviglia, sfogliando alcuni documenti, di leggere queste parole di un Delegato apostolico dell'India, S.E. Mons. Zaleski, il quale in data 24 luglio 1893 così scriveva a S.R. Mons. Caprotti, nostro Vescovo di Hyderabad: «La S.V. III.ma e Rev.ma farebbe bene se si concertasse con Mons. Pozzi, Mons. Tornatore e Mons. Raimondi per insistere presso i Superiori del Seminario di S. Calocero 17 a Milano perché si adoperino energicamente per dare a questo Seminario il più grande sviluppo possibile. Un Istituto che ha dato tanti distinti e saggi missionari è troppo prezioso per queste Missioni, perché possa essere lasciato in questo stato di diminuzione. I Superiori dovrebbero fare tutto il possibile per svilupparlo sempre più. Ho scritto in questo senso all'Ecc.mo Card. Prefetto di Propaganda, pregandolo di prendere quest'Istituto sotto la sua speciale protezione, e di appoggiarlo con tutta la sua autorità».
E dopo altre cose che riguardano la missione di Hyderabad, lo stesso Delegato aggiunge queste altre parole: «I Missionari di S. Calocero, per la loro abnegazione, lo zelo, ed anche la prudenza e saggezza nell'eseguire il lavoro dell'apostolato, sono sempre stati tra i primi Missionari del mondo; ed è perciò che desidero tanto di vedere questo Istituto prendere un grande e felice sviluppo».
Non tocca a me dire se noi, missionari di oggi, meritiamo di esser tenuti nella stessa considerazione... 1 nostri venerandi antecessori certamente furono tali uomini da lasciare tanta onorevole memoria di sé; e quelli di noi che hanno avuto la sorte di conoscerli e di seguirne le orme debbono attestare che l'elogio del Delegato era ben meritato.
Non per meritare lodi, ché sarebbe cosa ben misera, ma per essere degni della famiglia e per conservasse il patrimonio, dobbiamo tutti studiarci di ritrarre in noi e conservare nell'Istituto quelle virtù, quelle caratteristiche che fecero così apprezzato l'apostolato dei nostri Maggiori.

Perseverare in missione fino aria morte

Una delle caratteristiche a cui essi sommamente tenevano era la perseveranza. Morire in missione, perseverare sino alla morte sul campo dell'apostolato che la Provvidenza a ciascuno aveva affidato, era la comune aspirazione di ogni vero missionario. Il missionario, per essere veramente tale, deve darsi tutto e deve darsi per sempre: questo e non altro è l'ideale apostolico sempre vagheggiato nell'Istituto fin dalla sua prima fondazione.
E tale vogliamo sempre figurarcelo il nostro missionario. Non deve entrare fra noi l'idea che si possa essere missionari solo per dieci o vent'anni. Siamo missionari per tutta la vita, «fino allamorte»(Mt 26,38). Dobbiamo essere sommamente gelosi di questa prerogativa del nostro Apostolato, che è anche la sua più bella corona. «Il valore delle buone opere è la perseveranza». Al Signore non si dà niente per metà, al Signore non si misura niente; è già tanto poco quello che gli possiamo offrire!
Non darsi per sempre è non darsi tutto. Con quale amore, con quale disinteresse, con quale zelo può stare uno in Missione, se sapesse o vagheggiasse di potersi ritirare dopo un certo periodo di anni? Abbiamo forse da sperare qualche pensione o posto onorifico in patria, da desiderare di tornarvi?
Il missionario nostro si ritira dal campo solo quando - caso ben raro - lo chiamano i superiori per assegnarlo ad altro lavoro stimato più utile per la causa comune, o per altra grave ragione di salute o di gloria di Dio; fuori di questi casi egli sta fermo al suo posto di combattimento fino alla morte, quando il Signore lo chiamerà per dargli la corona della giustizia.
E bene a ragione. Se la vocazione e la professione di missionario apostolico sono cosa tanto onorifica e sublime, essa impone pure obblighi di coscienza e responsabilità che non si possono così alla leggera trascurare. A non dir altro, il giuramento, con il quale si è solennemente promesso al Signore di dedicare tutta la propria vita all'Opera delle Missioni, è una obbligazione gravissima, e non si può violarlo, fino a rinunziare senza gravi ragioni alla Missione, senza doverne rendere conto al Signore.
Se poi si considera che la vocazione nostra non fu cosa di nostra libera scelta, ma ci venne dal cielo: «Io vi ho eletti» (Gv 15,16) è facile intendere quale grave obbligo ci incomba di non rendere vani, con la nostra diserzione, quei disegni di misericordia per le anime, che il Signore, nel chiamarci e favorirci, aveva fondato sulla nostra fedele costante corrispondenza alla sua chiamata.
In missione, l'abbiamo veduto, ci possono anche attendere grandi prove: vi ci dobbiamo preparare e con l'aiuto di Dio dobbiamo saperle sostenere e superare. Ma mai guardare indietro. E Signore Gesù, nostro Maestro, ci dice di sé per bocca di Isaia: «Non mi sono tirato indietro» (Is 50,5)pur davanti a chi mi schiaffeggiava ed insultava. E noi ricordiamo pure quelle altre severe parole: «Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,62).

Il Signore non benedice chi abbandona la missione

E si deve anche fare un'altra considerazione quando fossimo tentati e ci sentissimo scossi nella nostra costanza e perseveranza, una considerazione molto seria e importante.
Noi non siamo religiosi e non abbiamo fatto voti che ci abbiano fermati nello stato religioso, il quale può stare e sta anche se non si va nelle missioni. Non siamo entrati nell'Istituto per farci religiosi: noi ci siamo rivolti all'Istituto solo per poter dedicare la nostra vita all'Opera delle Missioni, solo per poter lavorare a procurare la salvezza dei poveri infedeli. E questa donazione è stata perpetua: per tutta la mia vita... L'Istituto non ha assolutamente altro fine... O si è missionari e si va e si sta nelle Missioni, o non si ha ragione di appartenergli. Nell'Istituto c'è certamente posto anche per i superiori, per i maestri, per tutto il personale indispensabile ai fini del governo e dell'educazione e formazione dei giovani: c'è posto per tutti gli ammalati, per tutti i veramente bisognosi di riposo e di ristoro. Ma se un missionario si stancasse di stare nelle missioni e perdesse, come si dice, la sua vocazione e pensasse di tornare in patria, per insediarsi in qualcuna delle nostre Case... costui dovrebbe chiedere la dispensa dal suo giuramento e cercare di rientrare in Diocesi, cessando per lui il fine per cui si aggregò e l'Istituto lo accolse. Uomini, la cui vocazione di missionari è fallita, sono i meno adatti a formare, ad educare altri missionari.
Fra le nostre intenzioni di preghiera dunque ci sia sempre anche quella della perseveranza nella S. Vocazione, la grazia che avvalorerà e coronerà tutte le altre, e che farà un successo di tutta la nostra vita, perché venir meno senza seria ragione alla S. Vocazione abbandonando il campo delle missioni, o non ritornandovi quando fosse tempo e dovere di farlo, è sciupare, disorientare la propria esistenza. Il Signore non benedice; si rimane come spostati e si porta spesso sino alla morte il rimpianto ed il castigo della propria infedeltà. Quale pace può godere chi sa di non essere dove il Signore lo avrebbe voluto?

Perseverare in missione nonostante tutto

Il nemico nostro, il nemico delle anime mette ogni arte, studio nell'insidiare, nello scuotere la costanza del missionario: la vita delle missioni per se stessa è difficile e motivi non gliene mancano mai.
Mettiamo che un missionario abbia ad incontrarsi in una missione nella quale trovi difficile ambientarsi, che il Signore permetta che abbia a trovare poca corrispondenza alle sue fatiche, che sopravvengano difficoltà con i Superiori o con i confratelli... ed ecco il nemico pronto ad ingenerare scontento ed a fargli balenare la visione di un più fruttuoso ministero in patria.
Ma quale inganno! Si può fare maggior bene in patria? Ma se il Signore ci ha chiamati ad essere missionari fra gli infedeli, il problematico bene che potremmo fare in patria Dio non se lo aspetta, non lo vuole da noi. 19 ministero in missione ci pare arido, coronato da pochi frutti? Ma il bene che si fa lavorando per le anime lo sa misurare solo Dio: è certo solo che non si sta mai inutilmente dove Egli ci mette. Ci troviamo in difficoltà con i nostri superiori e compagni... Ma siamo umili, ubbidienti, caritatevoli come dovremmo essere?
Lasciare il campo delle missioni perché è arido, perché ci si trova in difficoltà ... ; ma non sarebbe perché si è decaduti dal primitivo fervore, perché ci alletta forse una vita più comoda, una società più gradevole? Si è calcolato quali insidie ci possono attendere in patria, disertando il campo che Dio ci ha assegnato? Stando dove ci ha messi l'obbedienza si ha diritto ad essere efficacemente aiutati dalla grazia di Dio; ma se si fugge, come Giona, dalla missione che egli ci affida, che altro possiamo aspettarci se non il naufragio? Quale diritto si avrebbe allora alle grazie di Dio?
Lo stare in missione e ricavare pochi frutti dal proprio ministero è certamente cosa spiacevole e desolante: ma bisogna riflettere come N. Signore stesso, nella sua vita mortale, perché non abbiamo a scoraggiarci quando così ci accade, e per altri suoi divini disegni, ha voluto riportare ben pochi frutti visibili dal suo apostolato. Quanto pochi erano i suoi veri seguaci! e di questi quanti gli rimasero fedeli nell'ora della prova? Eppure nessuno vorrà dire veramente sterili i lunghi anni da N. Signore passati nel nascondimento di Nazaret e quelli così poco fortunati della sua breve vita pubblica!
L'umiliazione di non poter operare tutte le conversioni che si vorrebbe, il patire senza conforto, il resistere alla tentazione di un ritorno in patria sono cose di sommo merito e di altrettanto profitto per le anime nostre ed altrui.
Lasciare il proprio posto perché in missione non ci si trova più bene, e poi sperare di venire a fare maggior bene in patria!! Ma se voi lasciate per pusillanimità la vostra Missione, perché avete saputo concludere poco, in patria non vi attende altro che un generale senso di disistima. Si penserà che siete tornato per il vostro carattere incostante, o per chi sa quali vostre debolezze, o perché siete di poco spirito ed avete perduto la vostra bella vocazione. Questa è l'opinione che popolo e sacerdoti hanno dei missionari reduci senza giusti motivi, anche se non lo dicono in faccia.
Teniamo dunque sempre a questa preziosa prerogativa del nostro apostolato e siamo perseveranti, memori che, «chi persevererà fino alla fine, sarà salvato» (Mt 10,22)E se ci sembrasse di cavare poco frutto dal nostro lavoro, dai nostri sacrifici, anche allora, specialmente allora perseveriamo, secondo le belle parole dell'Apostolo ai Corinti: «Fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili,prodigandovi sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» (1 Cor 15,58).
Non è inutile davanti al Signore il lavoro perseverante del missionario, anche quando pare sterile. E Signore concede spesso alla perseveranza quello che sembra negare ai primi sforzi. Tutte le nostre virtù meritano il premio, ma lo guadagnerà solo la perseveranza; nessuno si lasci quindi scoraggiare: se il Signore ci ha scelto e mandato nelle Missioni non è per nulla; è per questa via che ci vuole santi, per questa via che ci vuol salvi.

Esortazioni agli sfiduciati

Ma qui è doveroso fare un'altra considerazione. Si è scoraggiati perché sembra di essere in missione affatto inutilmente e si guarda indietro alla patria. Qualcuno può dire: ho poco ingegno, poca attitudine alla lingua, poco spirito di iniziativa: i miei confratelli lavorano e riescono; io concludo poco o niente. Forse non ero chiamato alle missioni, e perciò non mi ci trovo bene, non ci trovo gusto e sono sempre malcontento. Ora a questo confratello io debbo fare una domanda: - Sarà come voi dite; ma, siamo sinceri: c'è colpa in questo da parte vostra? Se la vostra coscienza non vi accusa di colpa, state tranquillo. Il Signore vi vuol provare, vi vuole un po' sulla croce con. Lui.
Ma se da parte vostra vi fosse negligenza: se, per esempio, vi pesa applicarvi seriamente allo studio delle lingue, se vi rincresce visitare con frequenza i cristiani del vostro distretto, se siete troppo amante dei comodi e vi piace poco accomunarvi con gli indigeni, se soprattutto vi siete raffreddato nello spirito e pregate poco, allora rimediate... Non sarà il ritorno in Italia quello che vi guarirà... Spostato in missione, sareste più spostato in patria, e con il rimorso per giunta, con il rimorso della vostra infedeltà. La vostra malattia si può guarire meglio in missione applicandovi con serietà al vostro dovere e rinnovandovi nello spirito. Il medico l'avete in Gesù nel SS. Sacramento: ricorrete a Lui!
In una lettera di Mons. Volonteri a Mons. Marinoni trovo scritte queste belle parole: «Oh! se tutti i Missionari gustassero la verace devozione al SS. Sacramento..., non sarebbero sì facili e frequenti in qualcuno le aspirazioni verso la patria, si apprezzerebbe assai più l'alta nostra vocazione, né si troverebbero il giogo e la croce di N. Signore si pesanti ed insopportabili. Ma, dovunque vadano, costoro troveranno che il mondo intero non basta a riempire il vuoto del loro cuore, se non cercheranno e riposeranno nel volere di Dio. Gesù nella SS. Eucaristia, ecco il segreto della perseveranza nostra nella vocazione. Egli si è dato, si dà al missionario dovunque questi va, dovunque si trova per non lasciarlo solo e senza conforto condivide la sua povertà, la sua solitudine... Si è dato al Missionario senza riserva, per sempre e senza pentimenti per compiere opere sublimi di redenzione e di santificazione, di misericordia e di amore. Quanto deve essere naturale che si abbia a rimanere fedeli a questo divino Amico, che ci ha tanto onorato e che ha pure tanto diritto al nostro servizio, là dove ci ha voluto. Perseverare in missione, nonostante tutte le difficoltà, dovrebbe essere, deve essere nostro dovere; nostro interesse ed anche nostra felicità. Davanti a Gesù in Sacramento, oh! come è facile per il missionario rinnovare l'offerta di tutto se stesso. Dono per Dono!
Grande, sublime Dono, Gesù nel SS. Sacramento: Dono che si apprezza e si gusta dal Missionario in un modo tutto particolare, perché con lui il Signore ha come un obbligo di essere più generoso; ma anche il dono di voi stessi è grandemente accetto a Gesù, perché solo per Lui vivete, lavorate, soffrite, per diffondere il suo Regno, per moltiplicare i suoi tabernacoli, per procurare la sua gloria, più felici in questo degli stessi Beati in cielo, che nulla possono più dare a Dio con loro merito e sacrificio.

Il missionario anziano, tesoro d'esperienze

Altre volte il nemico avvicina il missionario anziano e stanco e gli suggerisce: che ci stai a fare in missione per rimanervi inutilmente e d'aggravio agli altri? Oramai quel che è fatto è fatto, il tuo tributo l'hai pagato; lascia il posto ai giovani...
E nostro Mons. Giacomo Scurati " così ribatte questa illusione diabolica: « Non si rimane mai inutili in Missione. Benché vecchi malaticci, deboli, quando si sia conservato lo spirito di sacrificio, i Missionari perseveranti al loro posto fanno molto bene, perché nella gioia del loro animo possono molto pregare e coadiuvare con l'esempio e con il consiglio l'opera altrui. Dimostrano ai cristiani che h amano davvero, sino alla morte, e non solo finché si sta bene. Accrescono con ciò stima alla religione che dei suoi sacerdoti fa veri padri dei fedeli; accrescono altresì stima all'apostolico ministero al quale si rimane fedeli fino all'ultimo e non lo si abbandona per godere negli agi della patria gli ultimi giorni».
Povere missioni che non godono dell'esperienza e dell'esempio di zelanti missionari anziani! Il buon esempio dei veterani dell'apostolato sull'animo dei giovani è di una potenza irresistibile. Parlando della nostra Birmania posso dire che l'esempio del vecchio e venerando Mons. Tornatore è valso a formare lo spirito di tanti giovani Missionari più che qualunque altro studio. Ed in quei tempi non c'erano tanti precetti e regolamenti... Se si interrogavano gli anziani, la risposta era: «Fate come abbiamo fatto noi!». Era il «Siate miei imitatori» (1Cor 4,16)di S. Paolo. E cito la Birmania per dire di cose da me stesso vedute. Ma lo stesso è stato di tutte le nostre missioni, dove l'esempio dei vecchi è stato di immenso insegnamento ai giovani ed è valso a formare e conservare quelle sante tradizioni di vita apostolica, che ritengo il più prezioso patrimonio del nostro Istituto.
Perseveriamo dunque al nostro posto anche se vecchi, e ci sembrasse di non poter più fare molto, ed apprezziamo come una grande benedizione di Dio l'avere missionari anziani nelle nostre Missioni. Da missionari di Istituti di recente fondazione ho sentito lamentare come una grande deficienza l'assenza di missionari veterani e provetti nelle loro file. «A noi mancano, mi dicevano, quei tesori di esperienza, quegli elementi moderatori, quelle fonti di esempio, di conforto, di incoraggiamento che voi avete nelle vostre missioni nella persona dei vostri vecchi Padri. Questo è un elemento prezioso che non si può improvvisare, e noi dovremo aspettare degli anni prima di averlo».

Rimpatri temporanei per riposo

E poiché siamo in argomento è bene toccare qualche altro punto pratico. Le nostre Costituzioni all'art. 226 hanno: «Il Superiore Generale, quando nella sua prudenza lo credesse opportuno, potrà concedere ai missionari, dopo un certo numero di anni di lavoro in missione, un riposo più o meno lungo in patria, od altrove, a suo beneplacito». Questo articolo, che non c'era nelle antiche Regole, fu proposto ed approvato quasi come un compimento delle prerogative del Superiore Generale, e per contemplare anche l'eventualità di un rimpatrio per ragione di semplice riposo, ma incontrò poco entusiasmo nella maggior parte dei Padri capitolari, parecchi dei quali l'avrebbero volentieri omesso. I nostri missionari hanno mostrato di essere dello stesso sentire, e non so chi finora abbia chiesto di valersi di questa larghezza per solo motivo di venirsi a riposare.
Ed io spero che voglia essere sempre così. Un rimpatrio temporaneo, non suggerito da seri motivi, può facilmente diventare definitivo. Senza dire che il vedere tornare dei missionari che non sono ammalati desta sorpresa, induce, come ho detto, a sfavorevoli supposizioni e dà una povera idea della nostra vocazione, se si può abbandonare con tanta facilità il proprio posto.
Con ciò non intendo insinuare che ai Missionari non si debba concedere tutto quel riposo di cui possono abbisognare, e che in qualche caso non sia conveniente anche un rimpatrio. Desidero solo far rilevare che, quando un riposo è consigliabile o s'impone, non è sempre necessario tornare in Italia. Si può riposare in missione, si può andare, con il permesso dei Superiori, in altre sane ed amene località anche fuori di missione. Così si evitano pure spese e si può rimettersi al lavoro in minor tempo.

Rimpatri per malattia

Nel caso poi di grave malattia il rimpatrio dovrebbe essere contemplato solo quando esso dia serie speranze di guarigione, non altrimenti ottenibile in missione; che se la malattia è curabile sul posto, oppure è di quelle che purtroppo non sono guaribili nemmeno in patria, allora è sconsigliabile il ritorno.
Il Superiore di una nostra missione scriveva: «Oggi molti malati si possono curare tanto bene in Missione quanto in Italia. Non mancano nei grandi centri buoni ospedali e case di salute, medici ed ogni più moderno ritrovato della medicina. Se non nella propria Missione, vi sono nelle Missioni vicine luoghi ameni ed elevati adatti per cambiamento d'aria. Missionari, ai quali medici troppo compiacenti avevano prescritto un rimpatrio, se la sono cavata benissimo con un viaggetto ai monti o al mare ed in un paio di mesi hanno potuto tornare ai loro posti belli e guariti. Se il missionario ha una patria, questa è la sua missione. Per me tengo bene a mente -quanto mi diceva Mons.... (Giacomo Scurati) di s. m.: «Faccia di tutto per non tornare mai più in Italia. È una brutta tentazione, ed il secondo distacco è molto più penoso del primo».
In caso di mali cronici ed incurabili si procurino al povero infermo tutti i conforti di cui può abbisognare e lo si assista con ogni premura. Ciò potrà tornare alquanto gravoso alla missione ma la carità usata agli infermi è una delle fonti più ricche di benedizioni.
Quanto sono stati ammirabili quei nostri confratelli che, coli da incurabili morbi, non hanno voluto mai abbandonare la loro missione, che hanno edificato con l'esempio di una grande pazienza, con la loro fedeltà alla S. Vocazione, e più ancora con le loro preghiere e sofferenze! Non posso ricordare senza profonda commozione quell'edificantissimo uomo che fu il nostro P. Virginio Cornalba 51, il quale, colpito da malattia insanabile, perseverò felice al suo posto per ben 12 anni.
Quale irradiazione di esempi, quali elevazioni di preghiere in quei dodici anni di malattia. Quale cumulo di meriti per sé, di benedizioni per la missione e di grazie per i poveri infedeli ha prodotto questo mirabile esempio di fedeltà alla propria vocazione!

Valorizzare la malattia

E qui, parlando di malattie, ripeto a tutti i nostri cari missionari la raccomandazione che faceva S. Teresa " alle sue Suore: «Abbiate cura del vostro corpo per amore di Dio»; e posso aggiungere, per amore delle anime, per amore della vostra missione e dell'Istituto. Rinnovo pure la preghiera già fatta altre volte, specialmente ai nostri giovani, di aversi i dovuti e ragionevoli riguardi.
Quando però, nelle missioni, o in patria, il Signore ci visita con le malattie, sappiamo sopportarle come si addice a Missionari e guardiamoci dall'essere troppo esigenti ed incontentabile.
S. Vincenzo de' Paoli diceva ai suoi padri: «Teniamo presente che le infermità e le afflizioni vengono da Dio. La morte e la vita, la sanità e la malattia, tutto viene per ordine della sua Provvidenza: e in qualunque modo vengono è sempre per il bene e per la salute dell'uomo. Tuttavia vi sono di quelli che soffrono con molta impazienza le loro afflizioni e malanni, ed è un gran male. Altri si lasciano andare a tanti desideri di cambiare di luogo, d'andare qua o là, in quella casa, in quella provincia, sotto pretesto che l'aria sia migliore... E perché? Sono uomini attaccati a se stessi, spiriti leggeri, persone che non vogliono soffrir nulla, come se le infermità corporali fossero mali che bisogna assolutamente fuggire. Fuggire lo stato nel quale il Signore ci vuole è fuggire la propria felicità. Sì, la sofferenza è uno stato di felicità, che santifica le anime».

Trasferimento in altra missione

C'è nelle Costituzioni un altro articolo, il 227, il quale dice: «Qualora un missionario non potesse sostenere il clima ed i carichi di una missione, si potrà, con il consenso delle rispettive autorità, effettuarne il trasferimento».

E questa una savissima disposizione, che mira ad evitare il rimpatrio di missionari, i quali, non potendo rimanere in una missione, potrebbero però fare molto bene trasferiti in altro campo. Di questa disposizione finora ci siamo valsi assai poco: ora però che l'istituzione dei Superiori regionali è in funzione, e vi è come un maggiore ravvicinamento fra le missioni, prima di ricorrere all'estremo espediente del rimpatrio, sarà bene tener presente la suddetta regola, e vedere se in qualche caso non si possa applicarla e salvare così qualche vocazione.

Dipendenza dal Superiore ecclesiastico

Infine bisogna tenere come principio indiscutibile che un missionario, destinato dai Superiori ad una missione e ad essa aggregato ufficialmente anche dalla S. Congregazione di Propaganda mediante il conferimento della Pagella di Missionario Apostolico I, rimane soggetto per tutti gli obblighi del ministero al proprio Superiore ecclesiastico, come il sacerdote diocesano dipende dal proprio Ordinario.

Bisogna quindi che gli Ordinari delle nostre Missioni ritengano e facciano valere tutta la loro autorità anche sui propri missionari rimpatriati temporaneamente, benché, nel tempo che stanno in patria, questi siano affidati alla vigilanza dei Superiori locali.

Di conseguenza è l'ordinario che, ad un suo missionario che rimpatria per salute o altro motivo approvato, deve assegnare il tempo della licenza e rilasciare il celebret corrispondente, spirato A qual tempo, se non ha avuto dallo stesso Ordinario una proroga, il missionario, come il soldato al quale è scaduta la licenza, deve ritornare al proprio posto.

L'art. 233 delle Costituzioni, che mette i missionari ritornati dalle missioni alla dipendenza del Superiore Generale, non è in contraddizione con quanto s'è detto, in quanto che il Superiore Generale non sostituisce in tutto l'ordinario, se non nei casi di Padri espressamente chiamati o di quelli tornati definitivamente per motivi riconosciuti ed approvati.

Salvaguardare la vocazione dei missionari

Potrebbe accadere, specialmente in caso di qualche vocazione un po' scossa, che, voltate le spalle alla missione, i rapporti fra il missionario rimpatriato temporaneamente ed il suo Ordinario diventino freddi... L'Ordinario si aspetta che il missionario, scaduto il suo permesso - conscio del suo dovere, abbia lui a disporsi per il ritorno; il missionario a sua volta, che ha forse avvertito la freddezza epistolare del suo Vescovo, l'interpreta come se non lo si desideri più indietro o poco... In questi casi - se non deve guadagnare il nemico - bisogna fare appello alla carità ed al dovere e ricordare che, come non è lecito scherzare con la propria vocazione, verso quella degli altri si deve la massima sollecitudine, il più sacro rispetto e riverenza.

Dell'obbligo che ha il missionario di perseverare fedele nella propria vocazione, nonostante tutte le difficoltà, ho già detto abbastanza. Non resta che ricordare a me stesso ed a tutti quanti hanno autorità il grave e sacrosanto dovere che abbiamo anche noi di considerare i nostri confratelli come il più prezioso deposito che il Signore ci abbia affidato, e del quale, - più che delle altre anime - dobbiamo aver cura e rendere conto.

Con Pietro abbiamo avuto il mandato espresso di confermare i nostri fratelli - e, forse, perché sapessimo meglio compatirli nelle loro debolezze - il Signore permise che il S. Apostolo cadesse, e che nessuno di noi sia senza debiti con Lui. Dobbiamo noi Superiori essere il più forte sostegno della vocazione dei nostri missionari con il nostro Scoraggiamento, il nostro compatimento, consiglio, la più grande generosità e larghezza di cuore, con la più patema, e, se non basta, la più materna amorevolezza e bontà.

Il Signore Gesù è ricco su questo punto di magnifici esempi ed insegnamenti. Che cosa non ha Egli fatto, specialmente dopo la sua risurrezione, per incoraggiare, per sollevare, per confermare i suoi fiacchi ed infedeli discepoli?!... Quali amorevolissimi, incredibili abbassamenti... quante dolci, paterne esortazioni... E se Egli fece così... Dio voglia allora che alla fine dei miei giorni io possa dire al Signore e con me tutti gli altri superiori dell'Istituto possano ripetere: 0 Signore, «Coloro che mi hai dato li ho custoditi e nessuno di loro è andato perduto» (Gv 17,12).

La perseveranza pegno di predestinazione

Termino, miei amatissimi confratelli, questa lettera riportando qui e facendo miei i sentimenti che si leggono nella vita di un celebre missionario della Cina su questo argomento cosi importante della nostra perseveranza nelle missioni.

«IJ missionario deve morire in missione perché appaia manifesto che, come Mardocheo alla Corte del re Assuero, egli non ha avuto alcuna ricompensa quaggiù per i suoi sacrifici. Se più tardi, la facilità delle comunicazioni con l'Europa per la via transiberiana ci darà un nuovo genere di missionari con biglietto d'andata e ritorno, venendo a lavorare solo per un certo tempo, questi missionari perderanno molto del loro prestigio agli occhi dei cinesi... Anche in Europa si cesserà di ammirare questi missionari: poiché il sacrificio che guadagna i cuori, anche quelli degli increduli, è il sacrificio che va sino alla morte e alla morte in Missione, simile alla dedizione di N. Signore che ha conquistato il cielo e la terra con una dedizione di obbedienza sino alla morte ed alla morte di croce». (Vita del P. Gonnet, S. J.).

E sino alla morte, e, se è necessario, sino alla morte di croce, vogliamo perseverare anche noi, cari confratelli. Morire in missione, questo sia sempre il vostro programma, ed oh! quanto vorrei fosse anche il mio e di quelli che la volontà di Dio trattiene qui in Italia a lavorare con voi e per voi alla grande opera! Morire in missione è pegno di certa predestinazione, perché è la prova più evidente che si è rimasti fedeli a Dio sino alla fine.

Siate dunque perseveranti, e se talvolta il nemico vi tentasse a disertare, ad abbandonare le anime per le quali Gesù ha dato tutta la sua vita, memori dell'esempio dei nostri predecessori, dite col grande Maccabeo: «Non sia mai che facciamo una cosa simile, fuggire da loro; se è giunta la nostra ora, moriamo da eroi per i nostri fratelli e non lasciamo ombra alla nostra gloria!» (1Mac 9, 10).

Con questi voti, raccomandandomi alle vostre preghiere abbiatemi

vostro affmo

 

 

Lettera circolare n. 15

Milano, 15 Aprile 1931

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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