Nel Simbolo degli Apostoli, diciamo: «Credo nella comunione dei santi». L’espressione «santi» ha avuto diversi significati nel corso della storia. In origine, designava i santi misteri o sacramenti, in primo luogo l’eucarestia. I battezzati che ricevono la comunione nella medesima eucarestia, tra di loro formano anch’essi una comunione, la comunione dei santi. È per questo che «comunione dei santi» indica anche la stessa Chiesa, perché essa è essenzialmente comunione con la vita stessa del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questa comunione si allarga misteriosamente anche al di là delle frontiere visibili delle Chiese.
Una simile riflessione mi è stata ispirata dalla proclamazione a dottore della Chiesa di san Gregorio di Narek, il 12 aprile 2015 nella basilica di San Pietro a Roma. Il titolo di dottore della Chiesa viene solitamente conferito a quei teologi considerati testimoni privilegiati della tradizione cristiana. La santità di vita e l’ortodossia dell’insegnamento sono i primi requisiti. È importante notare che Gregorio di Narek era un monaco della Chiesa armena apostolica, e che visse nel X secolo. Tradizionalmente a quel tempo la Chiesa armena, non avendo riconosciuto il Concilio di Calcedonia (451), era vista come separata dalle Chiese di Costantinopoli e di Roma; veniva annoverata tra le cosiddette Chiese monofisite. Come può la Chiesa cattolica proclamare dottore della fede qualcuno che appartenne a una Chiesa separata? Un gran numero di studi storici e teologici hanno aperto la strada a questo riconoscimento. Oggi gli storici concordano nel dire che non ci fu rottura della comunione tra la Chiesa armena e cattolica prima del XV secolo, mentre la ricerca teologica ha evidenziato che l’insegnamento di san Gregorio di Narek è del tutto conforme a quello della Chiesa di Roma.
Qual è il significato ecumenico di questa proclamazione? In fondo la Chiesa cattolica, nella persona del Papa, riconosce che la comunione dei santi, nell’ortodossia della fede e nella santità di vita, può travalicare i confini fra le Chiese. Una fonte di speranza per la ricerca della piena comunione che è al centro dello sforzo ecumenico. Ma gli esempi sono numerosi. In quest’ottica, gli scritti di taluni autori «spirituali» hanno spesso superato le divisioni in virtù della loro autentica ricchezza. Perché tale superamento fosse possibile, quei testi sono stati diffusi sotto un altro nome. Per esempio, la condanna dell’Origenismo nel secondo concilio di Costantinopoli (553) si ripercosse anche sugli scritti di Evagrio Pontico, eppure il suo trattatoDe oratione continuò a essere letto in tutte le comunità sotto lo pseudonimo di san Nilo. Isacco di Ninive, uno dei grandi padri spirituali dell’Oriente cristiano, ufficialmente era «nestoriano», quindi eretico, ma i suoi testi erano meditati nelle diverse tradizioni cristiane sotto altri nomi. Ricordiamo anche la grande figura di Gregorio Palamas, che visse tre secoli dopo lo scisma del 1054 tra Oriente e Occidente. La sua teologia dell’esperienza mistica esicasta gli valse una dura condanna da parte dei teologi occidentali. Nonostante ciò, la sua festa compare nel calendario di diverse Chiese cattoliche orientali.
Possiamo considerare questi sconfinamenti da parte dei santi come una comunione reale già in atto, e in costante crescita. Una fonte di speranza quando il dialogo a livello ufficiale avanza a fatica. C’è da augurarsi che tale dialogo tenga conto di questa realtà, allorché si sforza di trovare una risposta alle questioni teologiche che continuano a essere indicate come fattori di divisione. Papa Francesco ama ripetere che l’unità si farà «in cammino».
Fonte: http://www.terrasanta.net/