Una volta visitai una certa comunità religiosa, che si preparava a celebrare il giorno del loro Fondatore. Tutto era stato ben organizzato ed era chiaro che tutti con entusiasmo si erano resi disponibili per preparare la festa. Nel momento centrale delle celebrazioni, quando il superiore della comunità si è alzato per parlare, tutti noi siamo rimasti scioccati. "È con grande tristezza”, ha detto, “che vi comunico che qualcuno nella nostra comunità sta sottraendo denaro dai conti della comunità. Ha persino fatto causa a me e all'Istituto per alcune pretese inconsistenti".

Come puoi capire, noi, che eravamo solo degli invitati, siamo rimasti sbalorditi e d’altra parte i membri della comunità si sono coperti dalla vergogna. Nella sala da pranzo era piombato un improvviso silenzio subito seguito da bisbigli mentre tutti cercavano di capire di chi stesse parlando il superiore. Si potevano vedere persone che l'un l'altro si lanciavano sguardi sospettosi, cercando di leggere il volto del vicino per trovare segni di tradimento.

Il successivo silenzio del superiore ha complicato la situazione, perché lo shock si era trasformato in rabbia. I sussurri si trasformarono allora in discorsi veri e propri. Si sentiva la gente chiedere: "Ma perché il superiore ha detto una cosa del genere proprio in questo evento?". Alcuni erano infastiditi dal fatto che un membro della comunità potesse fare una cosa del genere, rubare alla comunità e decidere di distruggere l'immagine del superiore. Altri erano infastiditi dal fatto che il superiore avesse scelto di parlare in quel modo proprio durante un giorno così importante.

Come era prevedibile, la gioia della festa fu completamente rovinata. I volti felici divennero improvvisamente pallidi e il sorriso svanì con la stessa rapidità con cui era apparso. A quel punto, per evitare ulteriori imbarazzi a chi mi aveva invitato, mi scusai dicendo che dovevo andare in un altro posto. Questo però avvenne dopo che uno dei membri della comunità avvilito aveva lasciato la stanza, seguito dai mormorii dei suoi confratelli.  

L'episodio che avete letto è quello che abbiamo ascoltato qualche giorno fa nella liturgia della Settimana Santa. Evidentemente, questa storia è una mia invenzione per esprimere un messaggio. La storia vuole imitare l'episodio dell'ultima cena. Mentre mangiavano, Gesù disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". La Domenica delle Palme e il Venerdì Santo abbiamo letto come l'atmosfera del Cenacolo cambiò dopo che Gesù ebbe pronunciato queste parole. C'era confusione, mentre ognuno cominciava a dire: "Non sono forse io Signore?". L'episodio si concluse con la partenza di Giuda Iscariota, probabilmente infastidito dal fatto che il suo piano sembrava essere arrivato al suo maestro e vittima. Alcuni di noi si sono chiesti: "Ma come ha potuto Gesù parlare così in un giorno così importante?". Alcuni di noi sono rimasti infastiditi dal fatto che Giuda Iscariota sia diventato un traditore dopo aver beneficiato della vicinanza di Gesù e della comunità apostolica. Era la prova evidente che era un opportunista ingrato.

Oggi, a distanza di una settimana dalla celebrazione dell’evento e dopo l'agitazione emotiva, possiamo rivisitare con calma e obiettività l'episodio e cercare di capire perché Gesù abbia scelto proprio quel giorno per dare quel messaggio. Uno sguardo attento all'evento mostra che Gesù voleva richiamare l’attenzione degli apostoli sugli eventi che si stavano avvicinando. Sebbene Gesù avesse parlato tre volte della sua morte, alcuni dei suoi discepoli non avevano ancora capito. Questo spiega perché, mentre Gesù parlava della sua passione i discepoli discutevano chi tra loro fosse il più grande. E questo accadeva proprio nello stesso momento dell'ultima cena (Lc 22,14-24). Non era la prima volta che i discepoli litigavano e si contendevano l'attenzione del Maestro e un posto d’onore (Mt 20,17-28).

In breve, Gesù voleva rivelare chiaramente la verità che i suoi discepoli non avevano compreso fino a quel momento: solo attraverso la morte sarebbe germogliata di nuovo la vita. Una cosa era stare con Gesù, un'altra cosa era capirlo. Anche per noi oggi, una cosa è essere una persona consacrata, un'altra cosa è essere un vero discepolo di Gesù. Come Giuda Iscariota, è possibile vivere nelle comunità religiose, eppure avere molti progetti e ambizioni nascoste, le quali il più delle volte vanno contro gli scopi dell'Istituto religioso e la stessa volontà di Dio. È un invito ad esaminare noi stessi e a conformare la nostra vita a quella di Cristo.

Infine, le parole di Gesù nell'ultima cena sono una lezione per tutti noi. Ci rendiamo conto di come le parole possono favorire o distruggere l'atmosfera di una comunità. Gesù, essendo Dio, era sicuro della resurrezione dopo tre giorni. Attraverso la risurrezione era possibile annullare qualsiasi "danno" che le sue parole potevano aver creato nella vita degli apostoli.

Noi che siamo semplici esseri umani, dobbiamo stare molto attenti alle parole che usiamo nella comunità. Possono sembrare innocue e persino inutili, ma ogni parola sbagliata può alterare per sempre l'atmosfera della comunità o distruggere per sempre la fede, la reputazione e l'autostima delle persone. Noi, che non abbiamo una "resurrezione dopo tre giorni", dobbiamo imparare a valutare il peso delle nostre parole e le conseguenze delle nostre affermazioni. Ogni parola sbagliata può distruggere ciò che il Signore ha costruito nella storia dell'Istituto attraverso il sacrificio della vita di molti confratelli. Che il periodo pasquale sia un periodo di costruzione di ciò che abbiamo distrutto con i nostri discorsi sconsiderati. Vi auguro un felice periodo pasquale.

* Padre Jonah M. Makau, IMC, Casa Generalizia a Roma, frequenta il corso in Cause dei Santi.

La lettera del Superiore Generale dei Missionari della Consolata ricordando i confratelli defunti.

La morte è come una porta aperta sull’altra parte della vita e dell'esistenza. Come discepoli di Cristo risorto, crediamo che coloro che sono morti sono accolti nell'abbraccio amorevole ed eterno di Dio. Gesù ci dice che “Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui” (Lc 20:38). Attraverso queste parole di Gesù, sappiamo che i nostri cari non se ne sono mai andati veramente. Solo un velo sottile ci separa, ma l'amore continua a creare un legame tra noi e loro. Affermiamo e crediamo anche che l'essenza della loro storia, continua a restare con noi quando viviamo l’amore, la gioia, la passione per il Vangelo e per i poveri che da loro abbiamo imparato. 

È certamente un gesto evangelico visitare le tombe dei nostri cari, soprattutto nel mese di novembre. Gesù stesso si recò presso la tomba di Lazzaro per chiamarlo fuori e risuscitarlo dai morti. La mattina della Risurrezione, Maria Maddalena si stava recando alla tomba di Gesù per rendergli omaggio quando scoprì che era vuota. Ci esercitiamo nel desiderio del Paradiso, quando visitiamo le tombe dei nostri cari, in attesa del giorno in cui Dio chiamerà i morti dalle loro tombe alla pienezza della risurrezione. 

Come molte persone che visitano le tombe dei loro familiari e con loro parlano, anche noi siamo chiamati a fare altrettanto. In queste giornate dedicate alla commemorazione dei nostri defunti famigliari e confratelli, anche noi siamo invitati ad instaurare con loro un dialogo carico di ricordi, di affetto e riconoscenza.

Parliamo con i nostri confratelli defunti e manteniamo la bella consuetudine di ricordarli leggendo le loro storie e raccontando ad altri, soprattutto ai confratelli giovani, le varie esperienze di Missione da loro vissute e i dialoghi avuti con loro. Realizzeremo in questo modo il desiderio del nostro amato Beato Fondatore, il primo con cui avere un “dialogo costante e filiale” e da cui trarre ispirazione per la nostra vita.

“Come è bello nelle comunità, quando si dice: ricordiamo l’anniversario della morte del confratello o della consorella…Tutti sono così invitati a pregare per essi. E tutto quanto si compie nella comunità è pure sempre a loro suffragio. La comunità sarà sempre formata dai vivi e dai defunti, né questo vincolo si scioglierà più, neppure in paradiso.” (Così vi voglio, 84)

Il ricordo dei nostri cari confratelli missionari defunti, genitori, parenti, amici e benefattori, deve spronarci a imparare dalla loro vita, dalle loro lotte e dalle loro sfide, dall'amore che hanno dimostrato e dal bene che hanno fatto. Per onorare la loro memoria ci è richiesto di portare avanti l’insegnamento e le ispirazioni contenute nelle loro storie, la loro saggezza e l'amore che hanno lasciato nei nostri cuori da condividere con altri. 

La loro memoria deve trasformarsi cioè, in un impegno concreto affinché anche noi facciamo la nostra parte per costruire una società basata sulla giustizia e sulla pace, in cui ogni persona sia amata e rispettata e possa vivere dignitosamente.

Dio eterno e amorevole, ti lodiamo per il dono della vita. Ti ringraziamo per il dono delle nostre famiglie, degli amici, dei benefattori e di tutti i nostri cari. Ti ringraziamo anche per il dono di questa nostra famiglia, di missionari della Consolata, dove condividiamo nella Missione, le fragilità, le aspettative, i progetti, la preghiera e le celebrazioni. 

* P. James Lengarin è Superiore Generale dei Missionari della Consolata

Lettera completa in ITALIANO e INGLESE

Ricordo aver visto recentemente un video di un oratore motivazionale che parlava a un gruppo di giovani donne. Dirigendosi a loro a proposito di come mantenere le rispettive famiglie al sicuro, dopo tante belle esortazioni e inviti all'unità e alla collaborazione fra loro, questo oratore concluse dicendo: “ma ricordatevi che la vera nemica della donna è la donna stessa; fate quindi attenzione a chi vi avvicinate”. 

Queste parole mi hanno ricordato un altro episodio che mi è personalmente accaduto mentre ero in Tanzania: in una conversazione fra giovani missionari uno di loro disse “non dimenticare che il nemico di un prete è un prete”. Era impossibile non vedere la stretta somiglianza di queste affermazioni. Ma perché dico questo? Perché leggendo una lettera che il nostro Fondatore aveva scritto il 27 novembre 1903 ai missionari in Kenya, mi sono imbattuto anche lì in una riflessione molto simile (Lettere ai Missionari e Missionarie della Consolata, N.40).

In quella lettera Giuseppe Allamano esprimeva la sua gratitudine a Dio per le cose buone che aveva fatto per l'Istituto, e incoraggiava i suoi missionari in Kenya a fare altrettanto. Ma a un certo punto riconosceva che nulla di buono accade senza dover attraversare momenti di prova e per questo esortava i suoi missionari a prepararsi “mediante virtù solide e apostoliche” in modo da essere pronti alle prove e alle sfide che certamente verranno.

In quell’occasione il Fondatore ammetteva di non avere il coraggio di chiedere al Signore di mandare prove, sfide e difficoltà che potessero educare i suoi missionari alla perseveranza nello spirito della loro vocazione, così come aveva espressamente fatto Sant’Ignazio di Loyola per la sua “Compagnia di Gesù” ma, aggiungeva, che se fossero state necessarie prove per il nostro Istituto, il Signore le avrebbe permesse a avrebbe anche dato  a tutti la grazia di sopportarle con fortezza e per il maggior bene dell'Istituto. 

Poi completava dicendo che se per la gloria di Dio e per il maggior bene dell'Istituto le prove fossero convenienti, desiderava almeno che queste “provenissero dal mondo, da fuori del nostro Istituto e non dal di dentro, dai suoi membri, come conseguenza della mancanza delle virtù proprie del nostro Stato”. In altre parole, era suo espresso desiderio che all’Istituto fosse impedita la possibilità di afflizioni e sofferenze causate ai membri dell’Istituto da altri membri dell’Istituto. Lui voleva che ogni membro dell’Istituto valorizzasse non solo la sua vita e vocazione, ma anche la vita, la reputazione e la vocazione del suo confratello. Era anche quello un desiderio legato a quello Spirito di famiglia, da lui instancabilmente instillato nell’Istituto, che doveva essere il collante che avrebbe tenuto unita la Famiglia della Consolata per affrontare le prove, le difficoltà e le sfide del “mondo”. 

Concludeva quella parte della sua lettera dicendo: «non avvenga mai che nei nostri membri manchi lo spirito di fede, di carità, di sacrificio e di umiltà, virtù indispensabili agli autentici missionari». Era convinto che questi fossero la spina dorsale della vita comunitaria e dello Spirito di Famiglia. Senza queste qualità, non aveva importanza ciò che l’Istituto avrebbe potuto fare. Sarebbe stato tutto inutile, e nessun progetto realizzato sarebbe servito alla santificazione dei suoi membri. Per Giuseppe Allamano, solo una famiglia felice e armoniosa sarà anche uno strumento efficace di Dio nel mondo. Quando Giuseppe Allamano scriveva quella lettera l’Istituto aveva in missione 10 sacerdoti, 6 fratelli e 2 seminaristi più un altro piccolo gruppo che a Torino si stava preparando per la prossima partenza... invece oggi siamo attorno ai novecento missionari! Dobbiamo quindi ringraziare il Signore per i passi compiuti dall'Istituto, ma non dimenticare questa ispirazione del Fondatore; quel “desiderio” dovrebbe essere ancora oggi il nostro sogno e il nostro obiettivo; nell’Istituto evitare diventare fonte di lacrime, dolore e sofferenza gli uni per gli altri.

Quelle virtù che il Fondatore indicava –lo spirito di fede, di carità, di sacrificio, di umiltà– non solo ci rendono autentici missionari presso il popolo di Dio, ma anche autentici testimoni del Vangelo all’interno delle nostre comunità. Mai dovremmo dire che “il nemico del missionario è il missionario”.

* Padre Jonah M. Makau, Missionario della Consolata (Roma)

Il 22 luglio si celebra la festa di Santa Maria Maddalena, la prima testimone della Risurrezione di Gesù e colei che fu chiamata dalla chiesa primitiva “Apostola degli Apostoli”. Papa Francesco nel 2016 ha stabilito che la sua memoria liturgica fosse elevata alla categoria di festa. Ha voluto che questa donna così ammirata e amata, soprattutto da tante donne, aiutasse a riflettere “in modo più profondo sulla dignità della donna, nella nuova evangelizzazione…”.

Perché? Molti consideravano Maria Maddalena una donna perdonata e guarita; altri come una donna attiva, inquieta, generosa, amata e amante. Secondo la tradizione ortodossa, Maddalena faceva miracoli nella vita di tutti i giorni. E ora, dovremmo riconoscerla tutti come una santa? Mi sono presto ricordata che quando mia nonna raccontava storie di santi e sante, io mi dicevo a bassa voce: “Non voglio essere santa. Che orrore, tutta la sua vita in silenzio, con le mani giunte, incapace di correre o giocare!”.

Oggi mi chiedo come presentare Maria Maddalena in modo che aiuti a riflettere sulla dignità della donna. Qual è stata la vera vita di questa donna?

Nei vangeli troviamo la prima menzione di Maria Maddalena in Lc 8,1-8, dove si afferma che «sette demoni erano usciti» da lei e che «insieme ad altre donne aiutarono Gesù e i discepoli con i beni che avevano». Poi, nei quattro vangeli, compare sempre tra le donne di Galilea presenti al momento della crocifissione, sepoltura e risurrezione di Gesù. Quando si menzionano i nomi di alcune di queste donne, il primo nome è quello di Maria Maddalena, tranne che nella crocifissione in Giovanni, dove compare per prima “la madre di Gesù”. (Mt 27,55-56,61; 28,1-11. Mc 15,40-41.47; 16,1; 16,9-11. Lc 23,49.55-56; 24,9-11. Gv 19,25; 20,1-2; 20). Anche Giovanni narra magnificamente come Maria incontra e riconosce Gesù nel giardino della risurrezione quando sente il suo nome: lei è la prima persona che incontra il Risorto e riceve anche la responsabilità di dire a ciascuno di noi: «Ho visto il Signore» (Gv 20,11-18).

Affermare che da Maria Maddalena «erano usciti sette demoni» (Lc 8,2) è un'espressione simbolica. I numeri, come sappiamo, non hanno solo valore numerico; dire che da Maria fossero usciti “sette demoni” potrebbe dire di lei che era una donna straniera, malata, con un difetto fisico, lebbrosa, nubile, vedova, senza figli. La domanda che mi pongo è perché sosteniamo che Maria Maddalena fosse una prostituta. Forse ogni prostituta è una donna posseduta da un demone? E allora come mai nessun uomo guarito da Gesù e presentato come indemoniato è mai stato presentato negativamente con connotazioni morali o sessuali.

Un'altra possibile interpretazione sarebbe quella di sospettare che Maria Maddalena abbia infastidito alcuni perché aveva una forte personalità e valori non consoni a una donna, secondo la mentalità dal patriarcato storico e dal maschilismo. Secondo questa ipotesi Maria poteva essere era una donna libera, potente, indipendente, leader e che disponeva di risorse economiche

Poi da dove proveniva? Nel contesto culturale del tempo Gesù era riconosciuto come un uomo della città di Nazaret. Maria invece era detta “Maddalena” perché, non avendo un padre,  un marito o un figlio maschio; allora era conosciuta dal luogo da cui proveniva. 

Doveva essere così per la donna cananea (Mt 15,22), o la samaritana (Gv, 4,1-45) e quindi anche questa donna di Magdala, la nostra Maria Maddalena. 

Il nome di questa località chiamata Magdala deriva da Migdal in ebraico, o Magdala in aramaico, e significa fortezza o torre; un tempo era conosciuta come Tarichea, il nome greco di una ricca città sulla rotta commerciale fra l’Egitto e la Siria. Magdala era una città della Galilea, sorgeva sulle rive del lago di Tiberiade ed era edificata in un amplia pianura ricca d’acqua. In quella cittadina si commerciavano pesce salato, prodotti agricoli e tessuti tinti grazie all’abbondanza di acqua.

Grazie alla ricerca storica e all'archeologia sappiamo molte cose su questa importante città: al tempo di Alessandro Magno, quando il greco era la lingua internazionale parlata lungo le rotte commerciali, a Tarichea c’erano lussuose case che contrastavano con le povere abitazioni del villaggio di Cafarnao, menzionato nel Vangelo, a soli otto chilometri da li. Durante la dominazione romana si ricorda la ribellione dell’anno 54 aC, come reazione alla esose imposte con le quali i romani opprimevano le provincie dell’impero, quando un contadino occupò la città di Tarichea-Magdala. finché i romani non sedarono la rivolta. Anni dopo fu nota la violenza di Erode il Grande, nominato re dai Romani nel 37 aC: nella regione dei monti di Arbela, vicino a Magdala, lui fece incendiare le caverne dove si sarebbero nascosti i ribelli considerati nemici dei romani e banditi.

Sorprendentemente nel Nuovo Testamento non ci sono testi che fanno riferimento a Maria Magdalena il cui nome è molto noto nella narrazione evangelica: dov'era Maddalena quando negli Atti degli Apostoli si raccontano i meriti degli uomini? Solo l'apostolo Paolo menziona una Maria (Rm 16,6), non riconosciuta come la nostra Maria Maddalena. Invece troviamo molte altre storie fra gli scritti apocrifi, testi “segreti e riservati” nei quali si valorizza Maria Maddalena in modo concreto e intrigante. I documenti rinvenuti a Nag Hammadi, nel 1945, nell'Alto Egitto, meritano uno studio approfondito.

La storia successiva afferma che Maria Maddalena, nel 200 dC, era conosciuta come seguace di Gesù e propagatrice del vangelo di Gesù. Sant'Ippolito di Roma (170-235), teologo e martire, la proclamò “Apostola degli Apostoli” e fu così riconosciuta dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa. 

Invece, più di 300 anni dopo, papa Gregorio Magno (540-604) propagò l'idea che fosse una prostituta interpretando in quel modo il testo che fa riferimento ai sette demoni (Lc 8,2) e forse anche Lc 7,36-50 che menziona una peccatrice che unge i piedi di Gesù. Molti storici affermano che non è possibile accettare un atto di malafede da parte di Papa Gregorio Magno e invece, in atteggiamento di pastore, aiutava ad affrontare i disordini e le violenze della fine dell'Impero Romano ricordano la certezza del perdono di Dio e l'accoglienza di ogni peccatore. 

Le diverse interpretazioni a proposito di Maria Maddalena si sono poi consolidate dopo lo scisma tra la chiesa ortodossa d’oriente e quella romana d’occidente avvenuto nel 1054: nel culto delle chiese orientali si distinguevano le tre donne: la peccatrice anonima presentata da Luca, Maria Maddalena e Maria di Betania. Nella chiesa occidentale si consolidava l’immagine della prostituta pentita e perdonata che sintetizzava le tre donne.

In una settimana di studio dedicata a Maria Maddalena abbiamo concluso l'incontro con una Celebrazione della Vita, proclamando il testo di Gv 20,11-18. Mentre il lettore stava ancora leggendo: “va’ dai miei fratelli e di’ loro” una giovane donna si alzò e gridò: “ho visto il Signore!” E fissando gli occhi su diverse persone della comunità, le indicava con il dito e ripeteva: “ho visto il Signore quando davi da mangiare agli affamati! Ho visto il Signore in una giornata calda, quando davi da bere a quelli che avevano sete nei campi! Ho visto il Signore quando hai accolto quella famiglia migrante nella tua casa! Ho visto il Signore quando voi mamme avete organizzato una bazar per vestire i nudi! Ho visto il Signore ogni volta che tu, tu e tu consolavate e visitavate un malato! Ho visto il Signore ogni giorno quando andavi a insegnare ai carcerati. Ho visto il Signore!”... e allora la comunità si alzò e si abbracciò. Ancora una volta i poveri e gli impoveriti mi hanno insegnato a capire la Bibbia!

* Mercedes de Budalles Diez, è Master in Scienze Religiose presso l'Università Metodista di São Paulo. Articolo pubblicato su: www.cebi.org.br

Riflessioni sui 18 gli anni di servizio come Superiore Generale (TERZA PARTE)

Tutte le sfide che abbiamo davanti, nuove o non più nuove, tutto ci parla dell’urgenza della formazione: se come Istituto vogliamo andare avanti dobbiamo metterci tutti in formazione, incluso a costo di chiudere le missioni. Se passa questo messaggio credo che potremmo dire di avere raggiunto un obbiettivo importante, forse il più importante.

Poi c’è anche un altro aspetto organizzativo che preoccupa ed è quello della economia. In questo campo è particolarmente importante il tema della responsabilità. È necessario capire con chiarezza che in missione non siamo andati a far soldi e che quelli che la provvidenza mette nelle nostre mani sono per la buona realizzazione della missione e non per altre cose.

Una parola per i giovani

Ho tante cose da dire ai giovani per l’affetto che ho per loro e riconoscendo la difficoltà di donarsi al Signore e alla missione nel momento attuale. Principalmente mi sento d’indicare TRE esigenze, percorsi e cammini che considero fondamentali per aiutare la persona a donarsi, l’Istituto ad avere un senso, la grande famiglia della Consolata una credibilità di vita e di testimonianza.

1. IL CAMMINO DI CONVERSIONE. La prima di queste urgenze è quella di un reale cammino di conversione, un andare avanti sulle tracce di Cristo, senza mai sentirsi pienamente arrivati. Prima di ogni missione, di ogni diaconia, prima delle opere, è necessario un ritorno a Dio, un cambiamento di vita, una conversione sempre in atto. Giorno  dopo giorno, dobbiamo essere disposti ad accettare la precarietà degli assetti rinnovando ogni giorno la decisione di amare l'altro senza reciprocità e incontrando gli uomini, gli ultimi, che si vogliono servire. Se un giovane entra in formazione e non si lascia convertire non ha futuro. Non si tratta semplicemente di una pia esortazione. Sulla piena disponibilità a questa conversione sta o cade la consacrazione alla missione. Vivere i voti è difficile. Piantiamola con il dire che nella vita consacrata e missionaria tutto è bello, quasi che non ci fosse un prezzo da pagare. Certe seduzioni creano facili entusiasmi che, alle prime difficoltà svaniscono come la neve al sole. La disponibilità all'azione dello Spirito Santo esige una lotta spirituale continua. Non ci può essere una consacrazione alla missione senza rinuncia, senza patire delle mancanze, senza soffrire. Per questo è fondamentale accogliere la conversione come una grazia, una purificazione, un cammino di vita. 

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2. LA PIENA UMANIZAZZIONE. Questo cammino di conversione dev'essere, però, accompagnato da una piena umanizzazione. Non dimentichiamolo mai: la consacrazione per la missione è vita umana, vissuta da persone che cercano di innestare la loro umanità nell'umanità di Gesù. È un innesto tutt'altro che semplice. Può avvenire solo attraverso un'arte del vivere, che esige spoliazione semplificazione, unificazione, ricerca di ciò che è essenziale per l'uomo d'oggi. 

Molto spesso, ciò che ostacola la realizzazione sia personale come comunitaria, è la scarsa qualità umana. Il vero problema di tante comunità è la carenza di umanità: si ha a che fare con esistenze vissute senza passione, senza convinzioni profonde, senza sensibilità, senza bellezza, senza libertà interiore. Ma senza libertà, si diventa schiavi. Bisogna avere il coraggio di dircelo e di dirlo ai giovani: o la nostra vita di consacrati per la missione è un cammino di umanizzazione, diversamente non riusciamo a viverla. Come la conversione, anche l'umanizzazione è un cammino faticoso che attraversa tutte le fasi della vita.

3. LA VITA FRATERNA ESSENZA DELLA CONSACRAZIONE PER LA MISSIONE. Sia il cammino di conversione che quello di una piena umanizzazione, non possono non tendere alla comunione. Proprio il celibato chiede di essere vissuto in una vita di comunione, li dove l'amore fraterno sa anche vivere di distanza, di discrezione, di sobrietà, il rispetto della libertà di ciascuno, una vita che già di per sé è una profezia in atto. La vita fraterna è il fine e la ragion d'essere degli stessi voti religiosi. Nella misura in cui vuole essere memoria reale e concreta della comunità vissuta da Gesù, la vita fraterna diventa il dono per eccellenza dello Spirito. Anche se questa comunione comporta il mettere in comune i propri beni, l'abitare e il pregare insieme, significa soprattutto lotta contro l'individualismo o contro una vita comune che obbedisce a regole mondane. Una vera vita di comunione è una vita strutturata e regolata e dev'essere pensata in primo luogo come servizio reciproco, dove la prima opera è amarci gli uni gli altri perché solo allora Dio dimora in noi. In questo modo saremo riconosciuti come discepoli di Gesù con la missione nel cuore!!!

Guardando a futuro

Proprio pensando al futuro, sarebbe opportuno, di tanto in tanto, guardare indietro, non dimenticando quel passo straordinariamente eloquente con cui Isaia si rivolge ai suoi figli (discepoli): «Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui. Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato, siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion» (8,17-18). 

Non dobbiamo temere. Ogni comunità può essere segno e presagio. Anche se l’Istituto sarà ridotto ad un piccolo “resto”, continuiamo a non temere. Sempre Isaia ci assicura che se anche restasse soltanto un ceppo, perché l'albero è abbattuto e tutti i rami e anche il tronco sono a terra, quel ceppo, dice Isaia, è un “ceppo santo” che continuerà a gettare virgulti e sarà “seme santo” (6,13)». Come il Signore non è mai venuto meno alla sua fedeltà nel passato, così sarà anche nel futuro. Ecco, è questa la consolazione!

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La consolazione è utile anche per le nostre fragilità

Consolazione è fare i conti anche con le nostre fragilità e questo lo vediamo spesso quando ci avventuriamo nella missione. Ricordo un viaggio al nord dell'Argentina, nel periodo di Natale, che nell’emisfero sud è il periodo più caldo dell’anno e la temperatura era quasi insopportabile. Il viaggio era stato lunghissimo in parte perché l'Argentina è grande ma anche perché la strada era stata chiusa in più di una occasione da picchetti per qualche tipo di manifestazione.

Dopo ben 20 ore di viaggio ho raggiunto la parrocchia dove lavorava il padre Juan Domingo Varela e ci siamo preparati per celebrare il Natale in un villaggio chiamato “el pozo del tigre”. Sono venute sette persone in tutto; non c’erano nemmeno le suore che in quei giorni avevano la visita della superiora. Quando il giorno dopo sono andato a salutarle... nell’atrio della casa mi accolse una gigantografia di Ernesto Che Guevara.

Nella parrocchia vicina la nostra presenza è stata più utile perché il sacerdote incaricato della comunità non aveva celebrato la messa di Natale per andare a far festa con la sua famiglia. In cambio in quella chiesa abbiamo potuto contare con la presenza preziosa di una comunità di suore che giustamente a Natale ci hanno fatto cantare “tu scendi dalle stelle... e vieni in una grotta al freddo e al gelo!”.

Vorrei terminare questa mia riflessione con una riflessione di Marco Guzzi, tratto dal libro “Darsi pace”, titolato “Infinita consolazione”. Dice bene quello che ho vissuto o cercato di vivere in questi 18 anni di servizio all’Istituto.

Noi esseri umani abbiamo sempre bisogno di consolazione, anzi di un’infinita consolazione.

Abbiamo sempre bisogno di essere consolati, confortati nella nostra sofferenza strutturale, nella nostra fragilità, nella precaria giornata terrena. Non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione. 

Tutto dovrebbe essere finalizzato a questo scopo: il lavoro, la sapienza, ogni forma di compassione e di amore, siano modi per consolare, per dire all’essere umano: tu hai un grande valore. Non temere, non sei solo, e questa scarpata ripida e dolorosa ti sta portando sempre più prossimo alla gioia, a tutto ciò cui aneli, spesso senza nemmeno saperlo.

LEGGI LA PRIMA E LA SECONDA PARTE

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