La cura e la guarigione dei malati è un segno del Regno di Dio presente nel mondo, come insinua Gesù stesso rispondendo alla domanda di Giovanni Battista. E mandando i suoi discepoli, tutti noi, ad annunciare il suo vangelo in ogni parte della terra, raccomanda di “curare i malati” (Lc 9, 1.2). “Medico dei corpi e delle anime” è detto Gesù dai Padri della Chiesa, “medico supremo che poteva curare ogni infermità e dolore”; egli si è fatto uomo per “guarire le ferite del corpo e tutte le patologie che si annidano nell’anima” (Origene), passò per questo mondo “beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male”. E’ lui il buon samaritano che si prende cura dell’uomo, cioè di tutta l’umanità, ferita e abbandonata dolente sul ciglio della strada, e spesso disattesa anche da chi dovrebbe farlo. E “ancora oggi viene accanto a ogni essere umano piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza” (pref. comune VIII). Lo fa attraverso i sacramenti, soprattutto l’eucaristia, spessi indicata come “medicina”, “guarigione del corpo e dello spirito”, “cura delle ferite del peccato”. E lo fa attraverso di noi, ricordando che quello che viene compiuto per il fratello ferito, è fatto a lui. Di qui la schiera di santi della carità che si sono presi cura dei malati, specialmente abbandonati o emarginati, appestati, oggi malati di AIDS, Ebola o altre malattie infettive. Da S. Giovanni di Dio e S. Camillo del Lellis che danno vita a Istituzioni religiose per la cura dei malati, a Vincenzo de Paoli che esortava le sue suore a vedere nel malato il volto di Cristo, al Beato Damiano de Veuster apostolo dei lebbrosi e dai quali contrasse il contagio, a Teresa di Calcutta che si impegnò e insegnò a servire il Signore in coloro che sono “non voluti, non amati, non curati”.
La missione manifesta ancora con innumerevole opere e servizi sanitari l’amore di Dio per i sofferenti, che a loro volta diventano portatori di consolazioni presso altri. Il modo della sofferenza, guardato con paura o come castigo, diventa trampolino di redenzione. Anzitutto per gli stessi malati che comprendono il valore salvifico della sofferenza che, associata a quella di Cristo, diventa strumento di salvezza per il mondo.
Il comportamento di Cristo mette in luce che Dio non vuole il male, ma piuttosto che ci si impegni a lottare contro la malattia in tutte le sue forme, a portare sollievo al corpo e allo spirito di chi soffre. Insegna pure ad apprezzare il dono della salute e di considerarlo un bene da mettere a servizio anche degli altri. E’ quanto propone il vangelo di oggi. La guarigione della suocera di Pietro che, alzatasi dal letto, subito si mette a servire Gesù e i suoi discepoli, lo indica con chiarezza. E, senza forzature, viene richiamato che il primo servizio che si può prestare anche oggi a ogni essere e all’intera umanità è l’annuncio del vangelo (cf. RM 2). Gesù stesso lo mostra. Egli non si lascia trattenere da coloro che lo volevano soltanto per loro, e tra i quali lui stesso si sentiva bene e aveva da fare, ma parte per altri posti, perché sa di essere venuto per tutti e che altri lo aspettano. Tutti hanno il diritto di ascoltare la sua parola, di incontrarlo. Le necessità di un luogo non possono trattenere dal preoccuparsi di altri che pure sono in necessità e dall’accorrere in loro aiuto. Non ci si può rifugiare nella scusa spesso ripetuta per trattenere chi vuole andare in missione: “c’è tanto da fare qui!”. Rafforza questo richiamo la parola di Paolo, primo grande evangelizzatore, che proclama: “Guai a me se non predicassi il vangelo!”. E per il vangelo e il bene dei fratelli si fa tutto a tutti.
Gb 7, 1-4.6-7
Salmo 146
1Cor 9. 16-19.22-23
Mc 1, 29-39