Il Levitico con le norme riguardanti l’apparizione della lebbra su una persona codifica un comportamento generalizzato (cf. I lettura). Da sempre, i lebbrosi sono i “paria della storia”, come li definiva un grande apostolo dei lebbrosi, Raoul Follereau. Con un rituale come quello descritto dal Levitico venivano espulsi dalla comunità, costretti a vivere isolati, a segnalare la loro presenza per impedire il contatto con altri, costretti, in seguito, a vivere in lebbrosari, per lo più in completo abbandono. Separazione aggravata da un inesistente e insensato legame tra la malattia e la punizione per un peccato. Ancora oggi, pur sapendo che può essere curata, i contagiati dal morbo di questa malattia sono troppo spesso ripudiati e abbandonati. Questo viene ribaltato da Gesù con il suo comportamento. Egli non solo guarisce il lebbroso, ma “stese la mano e lo toccò”.
Gesù è venuto nel mondo e si è fatto uno di noi per colmare ogni separazione tra gli esseri viventi. Il gesto di “toccare” il lebbroso significa il superamento di una legge che segregava, di una paura che allontana dal malato, e propone un rapporto di comunione che reintegra.
La lebbra resta una grande metafora dai molti richiami. Curarla oggi è possibile. Eppure l’Organizzazione Mondiale della Sanità calcola che siano circa venti milioni i lebbrosi nel mondo con un aumento annuale di 400 mila casi. Molti sono ancora abbandonati a se stessi. Ma questa situazione ne richiama molte altre. Malaria, tubercolosi, malattia del sonno, senza parlare dell’AIDS dilagante e devastante specialmente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia, seminano vittime tra milioni di poveri, tra l’indifferenza delle organizzazione mondiali e per la speculazione dei produttori di farmaci, impossibili da acquistare per il loro costo. Chi può pagare si cura, gli altri sono praticamente ignorati e segregati. Malattie considerate debellate in Occidente, continuano a fare migliaia di vittime nei Paesi in via di sviluppo. Toccare il malato significa togliere questa discriminazione causata dal profitto, da un “business” che esclude chi non interessa.
Indica pure un impegno per “umanizzare” la cura della salute, soprattutto attraverso un comportamento di accoglienza, di interessamento manifesto, amore e compassione per le persone sofferenti. E’ meravigliosa l’intuizione di Madre Teresa di Calcutta per una amorevole vicinanza al malato, anche quando non si può fare altro che donare ai morenti un sorriso di benevolenza. Tutti i malati hanno bisogno di trovare nella propria casa o nelle strutture di accoglienza, un calore umano, comprensione fraterna, fiducia incoraggiante, un rapporto cortese e sereno, che spesso fa più delle stesse terapie. Rimuovere l’emarginazione dei lebbrosi come di tanti altri segregati del mondo, significa costruire relazioni nuove, di profonda umanità, rispetto per le persone e il loro dolore. Dice l’importanza di far sentire il permanere del collegamento con il proprio mondo che si è dovuto lasciare per la malattia, e ancora più della comunione con la comunità ecclesiale e con Dio.
La lebbra richiama così atrofie spirituali, che spesso si instaurano in noi senza che ce ne accorgiamo. Alla perdita della sensibilità cutanea e della articolazione può corrispondere l’indifferenza verso il dolore dell’altro, l’egoismo o la pigrizia che blocca l’impegno per servire chi è nel bisogno, la cecità che impedisce di vedere le necessità e le sofferenze degli altri, il mutismo che rende incapaci di confortare e consolare.
I malati di lebbra invitano a scrutare dentro di noi per curare eventuale nostre lebbre che creano separazioni e insensibilità contrarie alla legge cristiana dell’amore senza riserve.
Lv 13, 1-2.44-46
Salmo 31
1Cor 10, 31-11,1
Mc 1, 40-45