Se il chicco di frumento non muore…
È questa un’immagine quanto mai efficace che Gesù usa per spiegare il mistero più profondo e forse più impenetrabile della nostra fede. Essa è tratta dalla creazione per illuminare il mistero della nuova creazione. Gesù, pane e parola, si paragona al chicco di frumento che cadendo in terra e morendo esplica tutta la sua forza vitale. Il destino di Gesù è simile a quello del seme: solo morendo potrà produrre molto frutto e potrà attirare tutti i popoli a sé.
Se invece il Figlio dell’uomo non muore, allora rimane “solo”, come il seme che non produce frutto. Ma in tal caso, egli non sarebbe Figlio del Padre, perché non vivrebbe della sua vita che è invece donazione perfetta agli altri. L’amore e la donazione sono vita; l’egoismo è sterilità. Chi vuole “conservarsi”, muore. Chi invece muore donandosi, ritrova la pienezza della vita.
È questo il grande principio pasquale, segreto della vita nuova che il mistero della Redenzione ha donato all’umanità. “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserva quale vita eterna” (Gv 12, 25).
Quanto utile soffermarsi, oggi, su questi preziosi verbi giovannei: amare-odiare, perdere-conservare, morire-vivere, dare-conservare!
“Dove sono io, là sarà anche il mio servo”
“Dove dimori?” sono le prime parole che i discepoli del Battista rivolgono a Gesù prima di mettersi alla sua sequela. La dimora di Gesù è nell’amore del Padre. Anche il discepolo è chiamato a dimorare nel Padre mediante l’amore, perché è l’amore che fa casa.
Il vangelo invita noi oggi a mettere la nostra dimora in Gesù “crocifisso”, mentre egli realizza in pienezza la “sua ora” e raggiunge il culmine della sua missione. Con lui nel dolore e nella croce, anche noi possiamo realizzare in pienezza sia la nostra vocazione di discepoli che quella di missionari, “attirando tutti a Lui”.
Se guardiamo al dipanarsi quotidiano della nostra vita, non possiamo fare a meno di constatare quanto ogni momento sia caratterizzato da qualcosa di gravoso, da aspetti pesanti, da molteplici quozienti di fatica, di disagio, di sforzo, di travaglio. Mentre il “mondo” rifugge da tutto ciò, il cristiano lo accoglie, lo valorizza, fino a giungere ad amarlo. Il dolore e la croce contengono in sé qualcosa di paradossale: sono il canale della felicità vera e duratura, quella che sazia il cuore, la stessa che Dio gode e alla quale ogni credente può attingere. Come Gesù che, proprio attraverso il dolore, ha donato all’uomo la gioia, così ogni persona può procurare felicità per sé e per gli altri, passando attraverso lo stesso suo cammino di croce e di dolore.
Ma occorre prendere la croce…
Questo insegnano i nostri santi:
“Svegliarsi al mattino in attesa di essa (croce), sapendo che solo per suo mezzo arrivano a noi quei doni che il mondo non conosce, quella pace, quel gaudio, quella conoscenza di cose celesti, ignote ai più. La croce… cosa tanto comune. Così fedele, che non manca all’appuntamento di nessun giorno. Basterebbe raccoglierla per farsi santi. La croce, emblema del cristiano, che il mondo non vuole perché crede, fuggendola, di fuggire al dolore, e non sa che essa spalanca l’anima di chi l’ha capita sul regno della Luce e dell’Amore: quell’Amore che il mondo tanto cerca, ma non ha”.
“S. Paolo esclamava: Sono stato crocifisso con Cristo! Non accontentarsi di portare il simbolo, ma praticare quello ch’esso insegna. Volere o no, la nostra vita è seminata di patimenti, da cui nessuno va esente. Tutto sta nel sopportarli con pazienza, anzi amarli e anche desiderarli”.
Ebr 5, 7-9
Gv 12, 20-33