Le prime due letture della Liturgia odierna vibrano di tensione missionaria. La prima lettura ci presenta il Messia come colui porterà finalmente la giustizia per i poveri e la pace cosmica; a lui guarderanno tutte le genti: “In quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli, le genti la cercheranno con ansia, la sua dimora sarà gloriosa” (Is 11,1-10).
Paolo nella seconda lettura richiama tutti ad allargare la Chiesa veramente alle dimensioni di tutti: “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi! ” (Rm 15,7). L’imperativo non è rivolto solo ai “forti” e ai “deboli” di cui ha parlato nella parte precedente della sua epistola (Rm 14,1-12; 15,1-2), ma a tutta la comunità, cioè ai suoi componenti giudeo-cristiani ed etnico-cristiani, gruppi che sono stati entrambi accolti da Cristo con la sua fedeltà e la sua misericordia.
Caratteristica del Vangelo di Matteo è di essere moraleggiante: per Matteo incontrare il Messia non è una pia esperienza, ma una trasformazione radicale del proprio stile di vita (Mt 6,33). E subito nel Vangelo odierno il Battista ci mette in guardia dal sentirci salvi “perché abbiamo Abramo per padre”: occorre convertirsi, e produrre concretamente “ frutti buoni” (Mt 3,9-10).
Ormai siamo in una situazione socio - culturale dove spesso la religiosità è ridotta a partecipazione cultuale. Ma a Gesù non interessa un’adesione formale a lui. La sequela del Maestro implica una vita fattiva di giustizia e di amore. Ci ammonisce Giovanni: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). Gesù lo ha richiamato esplicitamente: non è sufficiente una religiosità esteriore. “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici». Ma egli vi risponderà: «Non vi conosco, non so di dove siete». Allora comincerete a dire: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». Ma egli dichiarerà: «Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità!»” (Lc 13,25-28).
Neanche se profetassimo o facessimo miracoli in nome di Cristo sarebbe sufficiente: “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: «Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?». Io però dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità»” (Mt 7,21-23).
Dirà Giacomo: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa… Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (Gc 2,14-26).
Questo ammonimento è particolarmente importante quando celebriamo l’Eucarestia. Guai a ridurre l’Eucarestia ad un semplice rito! Per capire i testi neotestamentari di istituzione dell'Eucarestia bisogna avere ben presente quel genere letterario, così frequentemente adoperato nei libri profetici, che è il “mimo”, gesto simbolico che deve servire a imprimere bene, nella mente degli astanti, un determinato concetto o una particolare rivelazione. Quando Gesù istituisce l'Eucarestia, opera proprio una di queste “azioni profetiche”. Porgendo il pane, dice: “Questo è il mio corpo dato per voi”; offrendo il calice: “Questo è il mio sangue, versato per voi” (Lc 22,19-20): il primo significato di questo atto è che egli si è donato totalmente agli uomini, che la sua vita è stata oblazione piena per la vita dei fratelli, che si è interamente consumato per essi, e che egli è diventato, offrendosi per loro come il pane e il vino, il loro sostegno e la loro sopravvivenza. Nel successivo comando: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1 Cor 11,24), Gesù ordina innanzitutto non di ripetere un rito, ma che anche i suoi discepoli si facciano pane e bevanda per gli altri, divengano cibo per tutti, si lascino “mangiare” dai fratelli. “Fate questo in memoria di me”, è primariamente invito a farci anche noi offerta pura, agape, servizio fino al dono totale.
Celebrare l’Eucarestia è gesto quindi quanto mai impegnativo: unendomi personalmente a Cristo, anch’io mi “cristifico”, divento davvero un “cristiano”, un “alter Christus”. Come dice Paolo nella seconda lettura, devo ormai “avere verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Gesù Cristo”, devo “accogliere gli altri come Cristo accolse noi” (Rm 15,5-7). D’ora in poi non sono più chiamato ad una morale del “tu devi”, ma all’etica del “tu sei”. Devo “essere Cristo” per gli altri, per i miei famigliari, i membri della mia comunità, tutte le persone che incontro non solo in chiesa ma anche sul lavoro, per strada, nel quartiere, nel mondo. Devo come Cristo essere dono totale, servizio umile, capace di ogni condivisione, con un cuore povero e per i poveri.
Celebrare l’Eucarestia è quindi convertirsi nel Signore, è “diventare lui”. Molte persone, - e quante volte anche noi! -, come scrive Arturo Paoli, “prendono l’Eucarestia in modo magico…: hanno fatto la comunione per vent’anni senza aver cambiato nulla nel pensiero…; non è avvenuta in loro la conversione, la «metànoia», il cambiamento di mentalità, la conversione del cuore. Il fatto è che non hanno comunicato con Cristo vivente, ma in modo magico…E’ per questo che c’è un certo immobilismo nei cattolici: un’inerzia spirituale, di mentalità, di abitudini, di vita, che sostiene poco l’Eucarestia nei suoi effetti… Tutta questa «metànoia», la mentalità di Cristo, si dovrebbe vedere specialmente nella dimensione della carità, dell’amore”. Se l’Eucarestia non mi lancia verso i fratelli, io ho mangiato e bevuto la mia condanna (1 Cor 11,29).
Is 11,1-10;
Sal 71;
Rm 15,4-9;
Mt 3,1- 12