III Domenica Avvento - A

Pubblicato in Domenica Missionaria
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La buona novella per i poveri

Is 35,1-6.8.10;
Gc 5,7-20;
Mt 11,2-11

La terza domenica di Avvento è caratteristicamente la domenica della gioia, del “laetari”, “rallegrarsi”.
Nella prima lettura, con una pagina di altissima poesia e bellezza, Isaia descrive la felicità della venuta del Signore, quando i deboli troveranno vigore, gli ammalati la salute, i prigionieri la libertà, ed anche il deserto fiorirà (Is 35,1-10).
Nella seconda lettura (Gc 5,7-10), Giacomo ci invita alla magnanimità (“macrothymìa”), cioè ad avere il “cuore grande” di Dio stesso, la sua capacità di comprensione e misericordia, di accogliere e di perdonare; sue esplicitazioni sono la “hypomonè”, la perseveranza, e la “kakopathèia”, la sopportazione: “perché la venuta del Signore è vicina” (Gc 5,8).
Nel Vangelo, Gesù si presenta ai messaggeri di Giovanni come colui che realizza finalmente la grande attesa della vittoria sul male, sulla malattia, sulla morte, e che porta ai poveri la gioia della liberazione dall’oppressione e la giustizia: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,4). La risposta di Gesù si articola in sei segni: l'unico segno non miracoloso è l’ultimo, ma è il più importante, perché li riassume tutti: “Ai poveri è predicata la buona novella”. Gesù addirittura annuncerà: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,24).

Gesù non si è limitato a proclamare ai poveri il Regno di Dio, ma lo ha “iniziato” facendosi egli stesso povero, rinunciando a ogni logica di dominio e di potere, prendendo su di sé tutta la condizione umana di sofferenza, di malattia, di peccato, di morte. Inoltre la vita di Gesù fu tutta un aiutare concretamente chi era nella sofferenza: “Passò beneficando e risanando tutti” (At 10,38).

Tutti gli Evangeli insistono sulla sua attività di straordinario taumaturgo, sui suoi miracoli (Mt 4,24; 9,35; 12,15; 14,35-36; 19,2…). Ma le sue meravigliose guarigioni non erano solo un beneficio per i fortunati che ne potevano godere: erano il segno esplicativo della sua essenza di Salvatore, la migliore spiegazione del senso più profondo della sua missione. Egli era venuto per sconfiggere definitivamente il male e la morte, e la sua vittoria iniziava proprio nel limite spazio-temporale della povera umanità ammalata che a lui accorreva. I miracoli quindi nei Vangeli hanno importanza non tanto in quanto rivelano la potenza salvifica di Gesù Cristo (Gv 2,11; 20,30-31), ma soprattutto perché svelano la sua sollecitudine per i sofferenti. E si capisce l'insistenza della fede richiesta a chi viene guarito (Mt 8,8-13; 9,22.28-29; 14,29-31…): Gesù ribadisce che la salvezza totale viene solo dall'adesione a lui, e l'evento di guarigione, seppure miracoloso, altro non è che un epifenomeno della totale liberazione di tutti i poveri, gli oppressi, gli afflitti di tutti i tempi e di tutta la terra che la sua incarnazione realizza.
Gesù non solo soccorre concretamente i tribolati che incontra: egli è venuto per “evangelizzarli”, cioè per far loro conoscere che essi sono amati in maniera particolare da Dio, e che Dio porrà fine alle loro sofferenze, per il tramite dell'incarnazione, morte e resurrezione del Figlio.

Ma chi sono, secondo la Bibbia, i poveri a cui e annunciata la buona novella? Siamo tutti poveri, perché tutti abbiamo bisogno di Dio, come spesso si sente dire con grande faciloneria, o la Sacra Scrittura delimita e precisa meglio il significato della povertà?

Nella traduzione greca dell'Antico Testamento, quella dei LXX, per indicare il povero si usano il termine “pènes”, colui che fa fatica (da “pènomai”), e soprattutto “ptochòs”, il mendicante, l'accattone (da “ptòsso”, “accatto”). “Ptochòs”, unico termine ad essere usato nel Nuovo Testamento per indicare il povero, compare nella traduzione greca dell'Antico più di cento volte, traducendo cinque vocaboli ebraici: “ani”, “il curvato”, l'oppresso, il senza terra (trentotto volte); “dal”, il debole, colui che socialmente non conta (ventitré volte); “'ebjon”, il mendicante, il senza tetto (sessantun volte tradotto con “ptochòs”, ma trenta con “pènes”); “rash”, il bisognoso (nove volte); “misken”, il meschino, appartenente a classi inferiori. “Ptochòs” ha quindi essenzialmente un significato di povertà materiale, e pertanto nell'Antico Testamento designa le categorie socialmente emarginate, gli orfani, le vedove, gli stranieri e inoltre i malati, gli affamati, gli oppressi economicamente e giuridicamente. Ma anche nel Nuovo Testamento il termine “ptochòs”, in ventun casi su ventisei, indica i poveri in senso concreto: i miseri, gli afflitti, gli affamati, i ciechi, gli storpi, i lebbrosi, i sordi, i morti, le prostitute e le donne, nel contesto storico di allora.

Dirà Giacomo: “Dio non ha forse scelto i poveri del mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno? ” (Gc 2,5). E Paolo: “Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti..., ciò che nel mondo è debole per confondere i forti..., ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor 1,26-29). La prima Chiesa ha chiara coscienza delle scelte del Maestro.
Ma l'atteggiamento di Gesù mostra ai suoi discepoli che essi non potranno limitarsi ad annunciare il Regno ai poveri, ma che dovranno come lui cercare di costruire il Regno già ora sulla terra, ponendone dei segni concreti: “Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie” (Lc 9,1). Si è discepoli di Gesù solo se si condivide con lui la sollecitudine per tutti i poveri e i derelitti della terra, lottando ogni giorno come lui per debellare il male e la sofferenza (Mt 19,19; 22,39; 25; Gv 13,35).
Le nostre Eucarestie, sono il luogo della festa dove i poveri hanno il primo posto e ad essi è annunciata concretamente la liberazione e la salvezza? O sono sempre il ritrovarsi di tanta “gente-bene”, venuta a celebrare una ritualità svuotata della sua più profonda e rivoluzionaria carica dinamica di giustizia sociale e di condivisione con gli emarginati e i calpestati della storia?

Scrive Bernier, riferendo uno dei tanti episodi dell’invasione delle Americhe da parte dei bianchi: “Pizzarro e i suoi uomini, dopo essersi confessati ed aver partecipato alla Messa, sorpresero Atahualpa e, armati fino ai denti, uccisero oltre tremila uomini disarmati, per non parlare di donne e bambini. Gran bella Messa, davvero! Questo è un esempio particolarmente raccapricciante, ma la storia ci tramanda molti casi in cui l’Eucarestia è stata usata per giustificare un comportamento assolutamente non cristiano. Qualche volta dovremmo fare meno chiasso e ripensare con vergogna a situazioni, personaggi e momenti storici in cui la partecipazione alla mensa del Signore è servita da alibi a tanti gesti inumani. Anche ai nostri giorni, più vicino a noi, sono tanti coloro che sfruttano la terra, minacciano con i loro affari interi sistemi economici, riducono la gente in povertà e si arricchiscono in vari modi a spese degli altri. Eppure, alcune di queste stesse persone non trovano nulla di strano nel frequentare la chiesa e partecipare alla liturgia”.

Si pensi a quante Messe sono celebrate per notabili di cosche mafiose, o per battaglioni militari impegnati nella repressione di popoli indigeni, di minoranze, o responsabili di violenze…; o per operatori economici che con le loro scelte determinano la morte per fame o per malattie curabili di tanti poveri nel mondo… E’ possibile che tanti ricchi si accostino all’Eucarestia immemori delle necessità dei fratelli, o addirittura elogiati dal celebrante perché hanno dato ai poveri qualche briciola dei loro averi?

Diceva il cardinal Pellegrino: “La Messa è, nell’insegnamento di Paolo, il <<convenire in ecclesiam>> (1 Cor 11,18), il <<convenire in unum>> (ivi, v. 20) dei credenti in Cristo, che li impegna tutti a sentirsi fratelli e trattarsi come fratelli. Il rimprovero dell’apostolo all’egoismo di chi sta bene e mangia a sazietà senza curarsi del fratello che ha fame è sempre attuale… Dovrebbe essere chiaro che profana il Corpo del Signore chi partecipa al convito eucaristico e viola, nei rapporti coi fratelli, la legge di giustizia sociale, di solidarietà e di amore essenziale alla buona novella”. Affermava Bühlmann: “Non è permesso né gradito a Dio che si celebri l'eucarestia quando ci si comporta con indifferenza riguardo all'ingiustizia del mondo; l'eucarestia non è cristiana quando nell'altra metà del mondo milioni di uomini che soffrono vengono abbandonati al proprio destino; non si commemora sensatamente nella chiesa la sofferenza di Cristo se non si prende parte alla sofferenza di Cristo di oggi nel mondo, sofferenza dei fratelli e delle sorelle”.


Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 20:12
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