Gn 15,1-6; 21,1-3;
Eb 11,8.11-12.17-19;
Lc 2,22-40
Oggi a ridosso del Natale, la Chiesa celebra la festa della Sacra Famiglia di Nazareth; vuole anzitutto esaltare e riaffermare la dignità della Famiglia da cui essa stessa ha ricevuto il Salvatore, vuole aiutare a riflettere su questa realtà in seno alla quale tutti viviamo e alla quale anzi dobbiamo la vita stessa.
La Sacra Famiglia è colta oggi nel momento più intimo e più felice che ci sia per ogni famiglia: quello in cui è allietata e completata dalla nascita del primo figlio. Nonostante il clima di mistero in cui avveniva la nascita del loro bambino, Maria e Giuseppe vissero gli eventi della loro famiglia in modo non diverso da quello in cui lo vivono le nostre famiglie.
Dopo la nascita del bambino all’ottavo giorno c’era la circoncisione (Lc 2,21) l’atto ufficiale col quale si entrava a far parte del popolo eletto, e il padre imponeva il nome al bambino.
San Giuseppe gli impose il nome di Gesù: gli fu detto dall’angelo “essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). “Imponendogli il nome san Giuseppe dichiara la propria legale paternità sul bambino, e chiamandolo Gesù proclama la di lui missione di Salvatore” (Redemptoris custos). Quaranta giorni dopo c’era la presentazione del primogenito al Tempio per offrirlo al Signore (entrando nel mondo Gesù aveva detto “ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,5); Gesù subito offrì a suo Padre la sua volontà e il suo corpo, si mise in stato di immolazione, sebbene il suo vero sacrificio lo compì solo sulla croce).
Questo rituale includeva la purificazione della madre, secondo quanto prescrive il Levitico (12,6): non si trattava di purificarsi la coscienza da qualche macchia di peccato, ma soltanto di riacquistare la purità rituale, secondo le idee del tempo. Maria ha dato esempio di obbedienza, umiltà, nascondimento, silenzio. Poi c’era il riscatto del bambino: infatti tutti i primogeniti vengono considerati proprietà di Dio (Es 13,1).
Era dovere del padre riscattare il figlio, dovere adempiuto da Giuseppe “nel primogenito era rappresentato il popolo dell’Alleanza, riscattato dalla schiavitù per appartenere a Dio” (Redemptoris custos).
La legge di Mosè prescriveva questo per ricordare che Dio aveva riscattato il suo popolo della schiavitù d’Egitto, quando l’angelo passò quella notte a colpire tutti i primogeniti degli egiziani, mentre risparmiò quelli degli ebrei. Di per sé Gesù non era soggetto a questo, perché Egli sarà il prezzo del nostro riscatto, diede se stesso in riscatto per tutti.
Offrirono in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi (Lc 2,24): il dono dei poveri, dando esempio di umiltà e di povertà. Quando Maria e Giuseppe si sono recati al Tempio per presentare Gesù, hanno incontrato un uomo che non conoscevano, né aspettavano.
Simeone, dice l’evangelista, “era un uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele”. Era lo Spirito Santo che aveva sviluppato nel suo cuore questa speranza. Lo Spirito Santo aveva suscitato in Simeone una viva aspirazione alla venuta del Messia, al punto che era divenuta lo scopo essenziale della sua vita.
Inoltre lo Spirito Santo gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore (Lc 2,26). Lo Spirito Santo che aveva sviluppato in lui questa aspirazione, e gli aveva dato la certezza che sarebbe stata soddisfatta, lo conduce al Tempio e gli fa discernere nel bambino il Messia sperato. Simeone non solo vede il Bambino, ma lo riceve nelle sue braccia con grande entusiasmo (il vecchio portava il bambino e il bambino sosteneva il vecchio).
Questo entusiasmo è il preludio di tanti entusiasmi che proveranno più tardi coloro che incontreranno Cristo riconoscendo in lui il Salvatore dell’umanità. La gioia che si impadronisce di lui si esprime subito in un cantico di lode. Si dichiara pronto a morire poiché ha incontrato il Salvatore, e vede la morte come un cammino nella pace. In questo cantico Simeone riconosce nel Bambino non solo il Messia mandato al popolo giudaico, ma la luce destinata a illuminare le nazioni e la salvezza di tutta l’umanità. Giuseppe e Maria si stupirono dinanzi a questa proclamazione profetica.
Seguendo la luce ricevuta dallo Spirito, Simeone annuncia a Maria il cammino doloroso assegnato al suo figlio; attira l’attenzione sulla grande prova che farà soffrire la Madre “anche a te una spada trafiggerà l’anima”. Scopriamo l’intenzione del Padre che ha voluto una cooperazione molto estesa della Madre di suo Figlio all’opera della salvezza dell’umanità. Con tutta la sua vita materna, Maria era chiamata a questa cooperazione. Doveva sapere che Gesù era venuto sulla terra per offrire il sacrificio. La Madre doveva condividere pienamente questo orientamento (Jean Galot).
Anna invece è la rappresentazione della vecchiaia operosa e piena di speranza. Si erge come il segno della vera pace, della gioia e della pienezza. Anch’essa, sopraggiunta in quel momento, vede nel figlio di Maria il portatore della Redenzione (Lc 2,36).
Simeone e Anna, entrambi appartengono idealmente al popolo degli a’nawîm cioè dei “poveri del Signore” coloro che pongono la loro fiducia non sul proprio orgoglio, sui beni materiali e sul potere ma solo in Dio, sulla giustizia e sulla verità (Gianfranco Ravasi).
Simeone è molto anziano e Anna ha la bella età di ottantaquattro anni. Eppure si sono conservati giovani, perché hanno coltivato l’attesa e la speranza nei loro tanti anni. Ma per sperare come hanno fatto Simeone ed Anna, per sperare tutto dall’amore di Dio, bisogna custodire nel cuore la Promessa lasciando che essa risuoni dentro spazi di grande silenzio. Simeone e Anna sono personaggi di straordinazia bellezza spirituale perché modellati da un grande silenzio (Luigi Pozzoli).
Fecero ritorno a Nazareth “il bambino cresceva e si fortificava” (Lc 2,39) – il Natale continua nel mistero di Nazareth, che ci entusiasma e ci turba insieme: Dio nascosto nel silenzioso quotidiano, uomo tra e come gli uomini, assorbito nel lavoro comune a ogni mortale. Cristo che vive oscuro, in un oscuro paese, con un oscuro lavoro, ci svela una realtà luminosa: il nostro vivere e lottare, il successo o fallimento diventano preziosi materiali di costruzione; l’ordinario diventa straordinario, la povertà ricchezza, l’umiltà grandezza, nulla più nell’uomo è banale. Tutto è assunto da quell’uomo che è anche Dio! Questa trasformazione del banale in grandioso, però, non avviene magicamente e senza di noi - ma solo se abbiamo coscienza e conoscenza di Dio.
Non sono le grandi cose che rendono grande l’uomo, ma l’anima grande; il nostro silenzioso e onesto lavoro, il nostro coraggio fedele e discreto, la nostra bontà aperta e sorridente... sono mezzi poveri ma sicuri per godere ogni giorno di quella misura di gioia che Dio assicura ai suoi amici (Franco Galleone).