Gb 19, 1;23-27a
Sal 26
Rm 5, 5-11
Gv 6, 37-40
La sequenza delle letture di oggi sintetizza il cammino compiuto nelle Sacre Scritture nella comprensione della Salvezza.
Partiamo da Giobbe: la sua esperienza mette in crisi l'insegnamento deuteronomista secondo cui chi rispetta la “Legge” riceve la ricompensa da Dio, mentre il malvagio è castigato. Giobbe è un uomo giusto che proclama “Io so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!”, la speranza riposa nella certezza che un giorno il Signore si ricorderà del suo servo e ristabilirà la giustizia. Eppure anche i suoi più cari amici lo considerano castigato da Dio, se tante disgrazie gli stanno capitando qualcosa di male deve pur aver fatto!
Il salmo 26 riprende questa idea, si invoca la protezione del Signore come la si invoca da un giudice o da un re giusto. Il Signore è il rifugio dei giusti di fronte alle iniquità dei malvagi, “abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita” al riparo dalle sventure che affliggono la vita degli umani è l'ambizione del fedele.
Nel Vangelo la prospettiva cambia profondamente, Gesù ci insegna che è il Padre che cerca ognuno dei suoi figli perché non vuole perderne neppure uno. Per questo invia il suo Figlio, il quale contrariamente a quanto atteso dal popolo di Israele non “compie la vendetta tra i popoli”, non restaura il regno di Davide, insomma non fa nulla di quanto ci si attendeva dal Messia.
A questo già drammatico capovolgimento di prospettiva ne aggiunge un altro: i più amati e protetti dall'Amore di Dio, sono proprio coloro che venivano giudicati reietti e abbandonati da Dio per le loro colpe. E' rivelatore in questo senso l'episodio del cieco Bartimeo del quale i discepoli chiedono “ha peccato lui o i suoi genitori”?
Che questo insegnamento non sia solo una pia esortazione, una frase di circostanza per consolare gli afflitti lo dimostra Gesù stesso con la sua vita e, ancor di più, con la sua morte. Accettando la sconfitta umana del profeta rifiutato dal suo stesso popolo, la fuga dei suoi discepoli e la morte infame della croce, Gesù ci indica una verità nuova, una Salvezza non meritata dall'umanità, ma grazia e dono dell'Amore incontenibile di Dio che ci cerca per primo perché “nulla si perda”.
San Paolo scrive ai Romani alla luce della propria esperienza di “riscattato” da Dio, parla di una speranza che non è fiducia in qualcosa che un giorno verrà, ma frutto della presenza dello Spirito Santo che già vive in ciascuno e nella Comunità. La fede cristiana si fonda sulla certezza dell'Amore di Dio, dimostrato dalla fedeltà di Gesù fino alla morte di croce per la nostra Salvezza, prima ancora che potessimo meritarla.
Essere qui tra le montagne del Nord del Cauca per annunciare la Salvezza ed essere testimone credibile del Vangelo è estremamente complesso. Il processo storico in cui si è svolta l'evangelizzazione di queste terre ha lasciato profonde ferite nella coscienza collettiva, la Fede è vissuta come imposizione di regole e doveri da adempiere per non incorrere nell'ira divina e nel conseguente castigo; quanto è difficile annunciare la gioia di essere stati liberati!
La Parola indica la strada da percorrere, però la sua attuazione richiede sempre grosso coraggio da parte di chi la annuncia e denuncia l'ingiustizia. E' già difficile capire secondo quali logiche e su quali cammini agisca la Grazia Divina, ma qui è ancora più complesso perché non esiste neppure la giustizia umana, tante sono le violenze e gli abusi da parte di chi dispone della forza delle armi o di una piccola o grande autorità.
D'altro canto è grande la speranza delle persone che permette loro di sopportare e resistere di fronte a situazioni inimmaginabili rendendo la frase tipica “gracias a Dios”, conclusiva di ogni discorso, piena di significato. All'inizio questa ripetizione cantilenante ci dava un po' fastidio, ma ora riusciamo perlomeno a condividerne il senso.
Ancora più forte è l'impressione che si ha quando si vede l'atteggiamento di fronte alla morte: che sia la morte naturale di un anziano sazio di anni o quella inspiegabile di un bambino di pochi giorni, quella ingiusta di chi muore di denutrizione, quella indigeribile dei giovani che si suicidano, quella criminale di chi viene ucciso per il suo impegno a favore dei popoli indigeni o quella prodotta dalla stolta guerra che strazia da troppo tempo in queste terre.
L'ultimo vero tabù delle società occidentali qui viene accolto e vissuto con naturalezza come parte della vita, al principio ci sembrava fosse rassegnazione e fatalismo, invece è piena convinzione che la vita non finisce con la morte.Ci è capitato diverse volte di partecipare al dolore di conoscenti e in alcuni casi anziché consolare essere consolati, dalla fede che traspariva in loro.
In questa ricorrenza dei defunti ci azzardiamo a proporre una riflessione sul senso della morte, che è poi il senso della vita. Nella storia della Chiesa i martiri hanno segnato il cammino ed hanno seminato la fede, nella nostra “agenda latinoamericana” si ricordano ogni giorno santi e persone come catechisti, campesinos, gente comune, che hanno riconosciuto il male ed hanno scelto Dio, fino in fondo, fino al sacrificio di sé.
Alla stragrande maggioranza dei cristiani non è chiesto questo sacrificio estremo, eppure un giorno questa vita giungerà alla fine per tutti.
E allora quanto è grande la nostra fede?
<<Un uomo di nome George Thomas, era il Pastore della Chiesa del suo piccolo paese. Una domenica mattina si recò in Chiesa,portando con se una gabbietta arrugginita. La sistemò vicino al pulpito. I fedeli si chiedevano cosa c'entrasse la gabbietta con la predica del giorno,e attendevano, desiderosi di sapere. Il pastore cominciò a parlare: “Ieri stavo passeggiando,quando vidi un ragazzo con questa gabbia. Nella gabbia c'erano degli uccellini,che tremavano per lo spavento. Fermai il ragazzo e gli chiesi cosa doveva fare con quegli uccellini e il ragazzo rispose che li portava a casa per divertirsi con loro, per stuzzicarli, strappargli le piume, per sentirli gridare, per vederli soffrire e litigare tra loro e potersi divertire tantissimo. Gli chiesi perché lo facesse e cosa ne avrebbe fatto alla fine. Il ragazzo rispose che quando si fosse stancato li avrebbe dati ai suoi gatti. Rimasi in silenzio per un momento,poi gli chiesi quanto volesse per quegli uccellini e il ragazzo sorpreso mi chiese perché volessi degli uccelli di campo. Io insistei e pensando che fossi pazzo il ragazzo mi chiese 10 dollari. Io dissi 'AFFARE FATTO', li misi in mano al ragazzo e come un fulmine il ragazzo sparì. Andai in un campo,aprii la gabbia e lasciai liberi gli uccellini.”
Dopo aver chiarito il perché di quella gabbia sul pulpito il Pastore riprese a raccontare:“Un giorno Satana e Gesù stavano conversando. Satana era appena ritornato dal Giardino di Eden,era borioso e si gonfiava di superbia. Diceva al Signore di aver appena catturato l'intera umanità, usando una trappola che sapeva non avrebbe trovato resistenza e li aveva presi tutti! Il Signore gli chiese cosa ne volesse fare e Satana rispose che voleva divertirsi con loro, insegnandogli come sposarsi e divorziare; come odiare e farsi male a vicenda;come bere,fumare e bestemmiare;a fabbricare armi da guerra, fucili, bombe e ad ammazzarsi fra di loro. Il Signore gli chiese cosa ne avrebbe fatto quando si sarebbe stancato. Satana rispose con superbia che li avrebbe uccisi. Il Signore chiese quanto volesse per loro e Satana rispose: 'Ma va,non la vuoi questa gente,loro sono cattivi. Li prenderai e ti odieranno, ti sputeranno addosso,ti bestemmieranno e ti uccideranno..Non puoi volerli! 'Quanto?',chiese di nuovo Gesù. Satana sogghignando disse: 'Tutto il tuo sangue,tutte le tue lacrime..Insomma la tua vita!!!'. Gesù disse: 'AFFARE FATTO'..e pagò il prezzo......”Il pastore prese la gabbia e lasciò il pulpito....>>
Joseph e Raffaella Parolini (LMC Bevera)