Il 12 novembre del 1916 il nostro carissimo Padre fondatore, dopo aver in giornata contemplato con gioia il suo santuario, così si esprimeva alla sera con i suoi figlioli missionari: “Vedete, se oggi foste andati alla Consolata avreste visto accese per tutto il giorno 12 candele: quattro a S. andrea, sei tutt’attorno e due ai lati, così come a ricordare i dodici apostoli. È l’anniversario della dedicazione, una festa solennissima già dall’antichità, dalla bibbia”. E, tradendo la propria fede e devozione, il Padre tenne una delle sue più lunghe conversazioni. Descrisse le solenni celebrazioni bibliche ed ancora il lungo rituale di oltre cinque ore del pontificale romano, preceduto da digiuni e preghiere.
La consacrazione del primo tempio voluto da Davide e realizzato da Salomone fu una festa protrattasi per sette giorni e sette notti, segnata dal fuoco e dalla nube, indice del gradimento e della presenza di Dio. La gente fischiava per la meraviglia.
La dedicazione del secondo tempio, nel 515 a.C., dopo la distruzione e l’esilio di Babilonia. La dedicazione fu caratterizzata dalla proclamazione solenne della lettura del libro sacro, acclamato da tutta l’assemblea.
Poi le feste nel tempio già profanato dai riti ellenici e purificato da Giuda nel 164 a.C. e grandiosamente ampliato dal re Erode con nove anni di lavoro e dieci mila operai. È in questo terzo tempio che Gesù passeggiava durante la festa della dedicazione, detta hannuka o encenie. Era inverno, osserva l’evangelista. La festa infatti cominciava il 25 dicembre e si protraeva per otto giorni al canto degli alleluia e dei salmi 112-117.
Nell’era cristiana, dopo il periodo clandestino delle chiese domestiche, sorgono nel terzo secolo le prime chiese e basiliche. Ovunque era un pullulare di templi. Così Eusebio, lo storico imperiale, rievoca l’avvenimento: feste di dedicazione in ogni città; insieme uomini e donne, ilari nello spirito e nella mente, glorificavano Dio; digiuni, processioni, triplice incensazione, aspersioni con acqua gregoriana, cenere – sale – vino, unzione dei quattro corni dell’altare. E quasi a sigillo, sotto l’altare si deponevano i corpi dei martiri. Commentava S. Ambrogio, deponendo i corpi dei martiri Gervaso e Protaso: “Dove il Cristo offre se stesso come ostia, là prendono posto le vittime trionfanti da lui riscattate”.
Così nella cappella di San Giuseppe, nell’altare messo dal Fondatore alla Consolatina, potete venerare la finestrella confessionis con le reliquie dei martiri.
Il Concilio ha dato il via ad un nuovo rituale, pur sempre ispirato ai tre concetti tradizionali: Domus Dei, domus sanctificationis, domus ecclesiae.
Lo spazio del tempio viene ridisegnato secondo la triangolarità dei ministeri liturgici. Non più il monumentale altare tuttofare per un sacerdozio che usurpava ogni ministero, bensì il triplice punto di riferimento ministeriale: altare, ambone, cattedra. Tre spazi per la presenza di Cristo; per tutti e tre va quindi il segno della venerazione, l’incenso e il bacio. Tre gesti carichi di significato, purtroppo messi fuori uso perché vanificati come puro rituale.
L’altare, dominato dal crocifisso, è ridimensionato alla semplicità della mensa del cenacolo e al dire di S. Agostino: altare ecclesiae ipse Christus. Frase che P. Morando ha voluto inciso sull’altare del noviziato (Bedizzole). Osservava S. Crisostomo: “Questo meraviglioso altare che pur essendo di semplice pietra riceve il Corpo di Cristo”. Dall’altare, posto in posizione centrale, tutto si diparte e all’altare tutto si orienta.
L’ambone, che vuol dire salire, non più elevato ma pur sempre decoroso, si aggancia all’altare ed è il luogo della Parola, della teofania, della manifestazione del Cristo, maestro di verità. Per questo il diacono vi intronizza l’evangelario, al canto del’alleluia, tra luci e incenso. Al bacio del vangelo segue l’acclamazione del ministro e del popolo: Verbum Dei, alleluia.
Terzo elemento è la cattedra circondata dalle sedi dei celebranti che, mediatori, si aprono ad anfiteatro verso l’assemblea, segno della presenza del Cristo.
Domus Dei, il tempio, è anche domus ecclesiae, casa della chiesa, ossia casa della convocazione, casa dell’assemblea, casa della fraternità. Avverte S. Agostino: la dedicazione della casa di preghiera è la festa della nostra comunità; ma noi stessi siamo casa di Dio. Siamo sì pietre vive, come dice San Pietro, ma noi diventiamo casa di Dio solo quando siamo uniti nella carità, strettamente connessi, perfettamente combacianti.
L’arco dell’assemblea si chiude nella riserva eucaristica ove il Cristo continua la sua presenza sacramentale in mezzo a noi. Andatevi sovente, invita il Fondatore, stateci volentieri, con affetto e, come lui, orientiamoci anche fisicamente verso il tabernacolo.
Hic est domus et porta coeli, anticamera del paradiso. La raggiera splendente del Crocifisso sembra compiere il cammino tracciato dalla liturgia della dedicazione. Dal tempio storico, al tempio spirituale, al tempio celeste, quello escatologico, cioè futuro.
Con gioia e con letizia celebriamo oggi il giorno natalizio di questa chiesa; ma il tempio vivo e vero dobbiamo essere noi. E lo saremo se come gli apostoli con Maria saremo perseveranti nello spezzare il Pane sulla mensa, nell’ascolto della Parola dall’ambone, nell’amore fraterno. Così volle il Fondatore, così le Costituzioni presentano l’icona della nostra famiglia missionaria e mariana.