At 9,26-31;
Sal 21;
1 Gv 3,18-24;
Gv 15,1-8
Dopo che Gesù si è rivelato come “il pastore bello”, comunemente detto “buon pastore”, nel brano del Vangelo di questa domenica, egli stesso si rivela come “la vite vera” e i discepoli sono i tralci che devono rimanere in Lui, poiché solo rimanendo in Lui, possono, come afferma Luca, consolidarsi e camminare nel timore del Signore. Perciò sono chiamati ad osservare i suoi comandamenti poiché “chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui”
Gesù è la vite vera, il Padre è il vignaiolo, i discepoli sono i tralci
La pagina del Vangelo di questa domenica, Gv 15,1-8, è inserita nell’ampio contesto dei discorsi di addio (cc 13-17). L’Evangelista, attraverso il linguaggio figurato della vite e dei tralci, attira l’attenzione dei lettori sulla relazione vera e profonda tra i discepoli, tra Gesù e il Padre, i tralci tra loro, e tra la vite vera e il vignaiolo. Tale relazione viene enfatizzata dal verbo “rimanere”, ripreso per ben sette volte nel brano odierno. Tale invito a vivere la relazione vera e profonda con Gesù, viene preceduta da una auto-rivelazione: IO SONO LA VITE VERA. Gesù stesso s’identifica e si auto-rivela come la vite.
Nell’Antico Testamento la vite è una pianta familiare agli ebrei, nei testi sacri rappresenta il popolo ebraico, oggetto delle cure di Dio, che ne è l’agricoltore attento ed esperto. Era da sempre piantata in Palestina, tanto che l’immagine della vigna simboleggiava il popolo di Israele, la comunità del Signore. (La vite esprime la fecondità della terra donata dal Signore (cfr. Dt 6 8) e significa una vita che si svolge nella quiete e nella pace: «Giuda e Israele erano al sicuro; ognuno stava sotto la propria vite e il proprio fico, da Dan fino a Ber-sabea per tutta la vita di Salomone» (cfr.1Mac 14,2; 1Re 5,5). Per i Profeti, il popolo d’Israele era la vigna del Signore, piantata e curata dal Signore. Ma, ora, nel Nuovo Testamento, per Gesù, la vigna non è più quel popolo d’Israele bensì è egli stesso: “Io sono la vite vera”. Gesù realizza nella sua stessa persona la vite, mentre il Padre è il vignaiolo e i credenti sono i tralci se vivono uniti a Lui. Gesù è il figlio di Dio, amato e mandato da Dio; Egli è la vite vera i cui tralci e le radici fanno crescere la nuova vigna, la Chiesa, che nei primordi della sua storia, come ci narra Luca, “si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero”.
Nella sua auto-rivelazione, Gesù aggiunge l’aggettivo vero: “Io sono la vite vera.” L’aggettivo “vero” non va inteso nel senso di “sincero” ma nel senso di “definitivo”, “autentico”. Indica dunque il legame e la superiorità di Cristo alla legge antica. In Gesù l’immagine della vite trova l’espressione più autentica, definitiva. Egli è il Messia che porta a compimento, in modo autentico e definitivo, la legge antica. Egli porta a compimento la speranza d’Israele: è Lui il nuovo Israele.
Dunque se Egli è la vite vera, i suoi discepoli sono i tralci. All’immagine della vite Gesù associa il tralcio, immagine dei suoi discepoli, coloro che entrano in comunione con Lui e diventano così membri del nuovo popolo di Dio. Il Padre suo, viene definito come vignaiolo e, in quanto tale, Egli taglia i rami infruttuosi e pota quelli che danno frutto. Il Padre pota cioè monda e rende puro, Lui purifica i tralci che devono portare frutto. Per tale motivo, bisogna rimanere in Gesù. I credenti sono i tralci e se vivono uniti a Lui, come il tralcio vive dalla linfa della vite, godono della vita piena e portano frutti (cfr.Gv15,1-7). Se, invece, si staccano dalla vite, seccano e vengono bruciati. L'immagine punitiva, del tralcio secco che viene bruciato, riprende le parole del profeta Ezechiele quando avverte gli israeliti a rimanere fedeli al Signore per non essere bruciati: «Come il legno della vite fra i legnami della foresta io l'ho messo sul fuoco a bruciare, così tratterò gli abitanti di Gerusalemme» (Ez 15,16.).
Rimanere per portare frutti
I discepoli, raffigurati dai tralci, devono rimanere in Gesù poiché senza di Lui non possono fare nulla. Per sottolineare che c’è la necessità di questa relazione vera, profonda in cui bisogna dargli spazio, tempo, attenzione ed amore, l’uso del verbo “rimanere” è ripetuto 7 volte in 4 versetti. Rimanere significa “essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita”. Non è solo restare, dimorare, permanere ma indica un legame dinamico, stabile e reciproco. Da una parte Gesù che, per primo, rimane nel discepolo perché Egli è sempre fedele e, dall’altra, il discepolo che è invitato a fare altrettanto: “Rimanete in me e io in voi”. Gesù assicura ai discepoli la sua presenza solo se essi rimarranno uniti a lui. Essere discepoli significa essere intimamente uniti a Gesù. Il discepolo è invitato a rimanere, per primo, in Gesù affinché ci sia anche il rimanere di Gesù nel discepolo. È vivere una relazione di amore e di comunione.
Gesù presenta la relazione che c’è tra Lui stesso e il discepolo che rimane in Lui. In tal modo il rapporto che unisce Gesù al Padre è posto sullo stesso piano di quello che unisce Gesù ai suoi. Rimanere è dunque quel lavoro interiore in cui il discepolo, sull’esempio di Gesù, obbedisce alla volontà del Padre e porta al mondo il frutto dell’amore. Rimane in Gesù chi obbedisce e chi osserva i comandamenti di Dio e chi fa quello che è a Lui gradito. Infatti, Giovanni nella sua prima Lettera afferma: “questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. E’ necessario amare non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Gesù insegna che il frutto più desiderabile è assimilare la sua parola e rimanere in Lui nell’amore.
Il discepolo missionario, come ha ben ricordato Papa Francesco, deve rimanere in Gesù per avere la linfa, la forza, per avere la giustificazione, la gratuità, per avere la fecondità e Lui rimane in noi per darci la forza del [portare] frutto (cfr. Gv. 15,5), per darci la forza della testimonianza con la quale cresce la Chiesa.