Domenica della XXV settimana del Tempo ordinario (Anno A). La logica del Regno

Domenica della XXV settimana del Tempo ordinario (Anno A). La logica del Regno Foto di Fabio da Pixabay
Pubblicato in Domenica Missionaria

Is 55,6-9.
Sal 144;
Fil 1,20-24.27;
Mt 20,1-16.

La logica del Regno

La parabola che ascoltiamo oggi, narrata quando Gesù è ormai prossimo alla sua passione, tratta di presentare la logica del Regno di Dio, nel quale "i primi sono gli ultimi e gli ultimi i primi" (Mt 20,16).

Gesù è il Regno di Dio, il suo è un mondo rovesciato, dove la nostra logica di potenza, guadagno, ricompense, abilità, sforzo, è sconfitta e sostituita da un'altra logica, quella della gratuità assoluta, dell'amore misericordioso e sovrabbondante. Se io credo di essere primo, di essere forte e capace; se mi sono già messo al primo posto alla tavola del Signore, è meglio che adesso mi alzi e vada ad occupare l'ultimo posto. Lì il Signore verrà a cercarmi e, chiamandomi, mi solleverà, mi trarrà in alto, verso di sé.

Il padrone di casa e la vigna

Nella narrazione della parabola Gesù ci offre queste due immagini che hanno radici profonde nei testi biblici e che ci parlano dell'amore e della preoccupazione quotidiana di Dio per tutta l'umanità.

Il PADRONE DI CASA è il padrone della vigna che si prende cura di essa, circondandola con un muro, scavando in essa un frantoio, coltivandola con amore e fatica (Mt 21, 33ss.), perché possa dare i migliori frutti. E' il padrone di casa che offre una grande cena, facendo molti inviti, chiamando alla sua tavola i più derelitti, gli storpi, gli zoppi, i ciechi (Lc 14, 21ss.). E' colui che torna dalle nozze e che noi dobbiamo aspettare vegliando, perché non sappiamo l'ora (Lc 12, 36); è il padrone di casa partito per un viaggio, che ci ha ordinato di vigilare, per essere pronti ad aprirgli, non appena torna e bussa, alla sera, o a mezzanotte, o al canto del gallo, o al mattino (Mc 13, 35). Il Signore Gesù, padrone della casa e della vigna, esce ripetutamente per chiamare e inviare; all'alba, alle nove, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio, alle cinque, quando ormai la giornata è alla fine. Lui non si stanca: viene a cercarmi, per offrirmi il suo amore, la sua presenza, per stringere un patto con me. Lui desidera offrirmi la sua vigna, la sua bellezza.

Quando ci incontreremo, quando lui fissandomi, mi amerà (Mc 10, 21), io cosa gli risponderò? Mi rattristerò, perché ho molti altri beni (Lc 18, 23)? Gli chiederò di considerarmi giustificato, perché ho già preso altri impegni (Lc 14, 18)? Fuggirò via nudo, perdendo anche quello straccio di felicità che mi è rimasto per coprirmi (Mc 14, 52)? Oppure gli dirò: “Sì sì” e poi non andrò (Mt 21, 29)? 

LA VIGNA. Isaia 5 ci dice chiaramente che sotto la figura della vigna è significato il popolo di Israele, come sta scritto: “La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita” (Is 5, 7). Questo popolo il Signore ha amato di amore infinito ed eterno, sigillato da un’alleanza inviolabile; Lui se ne prende cura, proprio come farebbe un vignaiolo con la sua vigna, facendo di tutto perché essa possa dare i frutti più belli. Israele siamo ognuno di noi, tutta la Chiesa: il Padre ci ha trovato come terra desolata, riarsa, devastata, ingombrata dai sassi e ci ha coltivati, ci ha vangati, concimati, irrigati ad ogni istante; ci ha piantati come vigna scelta, tutta di vitigni genuini (Ger 2, 21). Che cosa ancora avrebbe potuto fare per noi, che già non abbia fatto? (Is 5, 4) Nel suo abbassamento infinito, il Signore si è fatto vigna Egli stesso; è diventato la vite vera (Gv 15, 1ss.), di cui noi siamo i tralci; si è unito a noi, così come la vite è unita ai suoi tralci. Il Padre, che è il vignaiolo, continua la sua opera d’amore in noi, perché portiamo frutto e pazientemente aspetta; Lui pota, Lui coltiva, ma poi invia noi a lavorare, a raccogliere i frutti da offrirgli. Siamo inviati al suo popolo, ai suoi figli, quali figli noi stessi, quali suoi discepoli; non possiamo tirarci indietro, rifiutare, perché siamo stati fatti per questo: perché andiamo e portiamo frutto e il nostro frutto rimanga (Gv  15, 16). Signore, volgiti; guarda dal cielo e vedi e visita la tua vigna (Sal 79, 15)

Noi nella vigna

Il testo offre alla nostra vita un'energia molto forte, che scaturisce dai verbi "inviare, mandare" e "andare", ripetuto due volte; entrambi riguardano noi, ci toccano nel profondo, ci chiamano e ci mettono in movimento. E' il Signore Gesù che ci invia, facendo di noi degli apostoli: "Ecco, io vi mando" (Mt 10, 16). Ogni giorno egli ci chiama per la sua missione e ripete su di noi quel: "Andate!" e la nostra felicità è nascosta proprio qui, nella realizzazione di questa sua parola. Andare dove Lui ci manda, nel modo che Lui ci indica, verso le realtà e le persone che Lui ci pone davanti.

Poi nella vigna non siamo soli: ci sono altri operai, contrattati ad ore diverse, così che la parabola ci pone davanti alle relazioni con gli altri, i fratelli e le sorelle che condividono con me il cammino di sequela di Gesù. Siamo tutti convocati presso di Lui, alla sera, dopo il lavoro della giornata: Lui apre il suo tesoro d’amore e comincia a distribuire, a consegnare grazia, misericordia, compassione, amicizia, tutto se stesso. Non si ferma, il Signore, continua solo a traboccare, a effondersi, a consegnarsi a noi, a ciascuno. 

La mormorazione

Il rumore della mormorazione viene da molto lontano, ma ugualmente riesce a raggiungerci e si insinua nel nostro cuore; Israele nel deserto ha mormorato pesantemente contro il suo Signore e noi abbiamo ricevuto in eredità quei pensieri, quelle parole: “Il Signore ci odia, per questo ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto per darci in mano agli Amorrei e per distruggerci” (Dt 1, 27) e dubitiamo sulla sua capacità di nutrirci, di condurci avanti, di proteggerci: “Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?” (Sal 77, 19). Mormorare significa non ascoltare la voce del Signore, non credere più al suo amore per noi. Allora ci scandalizziamo, ci irritiamo fortemente contro il Signore misericordioso e ci indigniamo contro il suo modo di agire e vorremmo cambiarlo, rimpicciolirlo secondo i nostri schemi: “E’ andato ad alloggiare da un peccatore! Mangia e beve con i peccatori!” (Lc 5, 30; 15, 2; 19, 7).

Come guarire? San Pietro suggerisce questa via: “Praticate l'ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare” (1 Pt 4, 9); solo l’ospitalità, cioè l’accoglienza possono, piano piano, cambiare il nostro cuore e renderlo ricettivo.

“Accoglietevi”, dice la Scrittura. E’ proprio così: dobbiamo imparare ad accogliere, prima di tutto, il Signore Gesù, così com’è, col suo modo di amare e di rimanere, di parlarci e cambiarci, di aspettarci e attirarci. Accogliere Lui e accogliere chi ci sta accanto, chi ci viene incontro; solo questo movimento può sconfiggere l’indurimento della mormorazione.

Preghiera

Grazie, o Padre, per avermi rivelato il tuo Figlio e avermi fatto entrare nella sua eredità, nella sua vigna. Tu mi hai reso tralcio, mi hai reso uva: ora non mi resta che rimanere, rimanere in Lui, in te e lasciarmi prendere, quale frutto buono, maturo, per essere posto nel torchio. Sì, Signore, lo so: è questa la via. Io non ho paura, perché tu sei con me. Io so che l’unica via alla felicità è il dono a te, il dono ai fratelli. Che io sia tralcio, io sia uva buona, per essere spremuto, come tu vorrai. Amen.

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