“Non voglio utilizzare le mie parole, ma voglio fare cantare soltanto la Parola di Dio”. Con questa motivazione, il biblista e professore, padre Antonio Magnante, IMC, ha iniziato la sua meditazione nel ritiro quaresimale predicato alla comunità della Casa Generalizia IMC questo sabato, 02 marzo a Roma. Le sue riflessioni dimostrano una raffinata e sistematica conoscenza biblica, e una profonda capacità di meditazione, radicata nella Parola di Dio, frutto di molti anni di studi e di esperienza di insegnamento nelle facoltà teologiche di Londra e Nairobi.

20240303Croce“Uno dei momenti cosiddetti «forti» dell’anno liturgico è certamente la Quaresima. Un lungo periodo in cui siamo chiamati a impegnarci seriamente per penetrare il significato del grande mistero della croce, che è stato e lo è ancora «uno scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23). Va subito rilevato, tuttavia, che per Paolo, la cui Teologia si può definire una «soteriologia cristocentrica» (salvezza incentrata su Cristo), la croce diventa il punto di partenza della sua riflessione cristologica e teologica”, sottolinea padre Magnate nell'introduzione alla sua meditazione.

“La Quaresima va considerata non a sé stante, ma in una visione diacronica dei due Testamenti. Infatti, la croce e la sofferenza del Messia trovano il loro antefatto nella prima economia. La sofferenza del Messia-Cristo è prefigurata nell’Antico Testamento soprattutto dalla figura del Servo Sofferente. Nel Nuovo Testamento tale sofferenza diventa un dato di fatto e cioè un evento sconvolgente della storia umana. Un evento tragico che si consuma sul legno della croce. Nello scorrere delle generazioni la croce diventa poi memoriale salvifico per coloro che credono e modellano la loro vita sullo scandalo della croce stessa. Dunque, noi ci soffermeremo sulla croce e ne vedremo la sua prefigurazione, e poi la considereremo come evento salvifico e come memoriale”.

Di seguito, pubblichiamo il testo integrale della meditazione di padre Antonio Magnante che ringraziamo per averla messa a disposizione di tutti.

 

Dai «Discorsi» di san Gregorio Nazianzeno, vescovo
(Disc. 45, 23-24; PG 36, 654-655)

Saliamo anche noi di buon animo sulla sua croce. Dolci sono infatti i suoi chiodi, benché duri.
Siamo pronti a patire con Cristo e per Cristo, piuttosto che desiderare le allegre compagnie mondane. 
Se sei Simone di Cirene prendi la croce e segui Cristo. Se sei il ladro e se sarai appeso alla croce, se cioè sarai punito, fai come il buon ladrone e riconosci onestamente Dio, che ti aspettava alla prova. Egli fu annoverato tra i malfattori per te e per il tuo peccato, e tu diventa giusto per lui. Adora colui che è stato crocifisso per te. Se vieni crocifisso per tua colpa, trai profitto dal tuo peccato. Compra con la morte la tua salvezza, entra con Gesù in paradiso e così capirai di quali beni ti eri privato. Contempla quelle bellezze e lascia che il mormoratore, del tutto ignaro del piano divino, muoia fuori con la sua bestemmia.
Se sei Giuseppe d'Arimatèa, richiedi il corpo a colui che lo ha crocifisso, assumi cioè quel corpo e rendi tua propria, così, l'espiazione del mondo.
Se sei Nicodemo, il notturno adoratore di Dio, seppellisci il suo corpo e ungilo con gli unguenti di rito, cioè circondalo del tuo culto e della tua adorazione.
E se tu sei una delle Marie, spargi al mattino le tue lacrime. Fà di vedere per prima la pietra rovesciata, vai incontro agli angeli, anzi allo stesso Gesù.
Ecco che cosa significa rendersi partecipi della Pasqua di Cristo.

Nel secondo centenario della ricostituzione della Compagnia di Gesù, inaugurata l’opera di Safet Zec che Francesco ha benedetto il 27 settembre. Padre Libanori: «È l’immagine del cantiere della carità»

 Passato e presente, storia e modernità, rivivono nella Chiesa del Gesù, dove ieri, lunedì 29 settembre, è stata presentata la “Deposizione del corpo del Signore dalla croce”, nuova pala d’altare della Cappella della Passione, realizzata dall’artista bosniaco Safet Zec nel secondo centenario della ricostituzione della Compagnia di Gesù. L’opera, benedetta da Papa Francesco sabato 27, dopo la celebrazione dei vespri solenni per il bicentenario, è frutto di un percorso lungo e impegnativo, segnato, come ha sottolineato il rettore della Chiesa del Gesù padre Daniele Libanori, «dalla difficoltà di introdurre un’opera moderna che dialogasse con le altre della chiesa, e di scegliere un artista capace lavorare in accordo con la committenza».

Al pittore bosniaco è stato affidato il compito di esprimere nel linguaggio dell’arte contemporanea la continuità con il passato, raccontando la storia della Compagnia nei volti dei protagonisti. «I personaggi che depongono Cristo dalla croce sono i padri sepolti nella cappella in cui si trova la tela: Giuseppe Pignatelli, Jan Philip Roothaan, primo Generale della Compagnia ricostruita, e Pedro Arrupe, che ha segnato il rinnovamento post conciliare – continua il rettore -. Dovevano rappresentare come ci sentiamo noi nei confronti della Chiesa e come vogliamo svolgere il nostro servizio». I volti contratti, i muscoli tesi, le maniche arrotolate: i dettagli nell’opera parlano della fatica di deporre il corpo di Cristo, icona del corpo sofferente; raccontano la dimensione del servizio della Chiesa verso ogni uomo, nell’immagine del catino con l‘asciugamano ai piedi della croce; celebrano la regalità, espressa dalla veste bianca e dalla corona di spine dorata. Tutto questo raffigurato in un cantiere, perché, spiega padre Libanori, «la deposizione è l’immagine del cantiere della carità: la Chiesa nasce dove le persone nel nome del Signore si pongono al servizio dell’uomo».

L’opera inaugurata al Gesù segna una nuova tappa nella carriera di Zec, frutto dell’esperienza maturata come paesaggista e nella rappresentazione figurativa di abbracci e corpi provati dalla sofferenza. «La pittura – ha dichiarato – è bisogno naturale per me, è il mio paradiso. Per la prima volta però ho lavorato con un committente, che chiedeva un’opera molto concreta: ho cercato di creare qualcosa che fosse degno di questa grandissima chiesa». Il risultato è «un capolavoro fuori dal tempo, espressione di umiltà e coraggio, capace di riscoprire la spiritualità nell’arte contemporanea» e «una narrazione, fortissima, che usa tutte le “parole” della lingua della pittura» come l’hanno definita gli storici dell’arte Pascal Bonafoux e Giandomenico Romanelli.

Inserita nel ciclo pittorico di Giuseppe Valeriani e Gaspare Celio, la pala crea l’ideale connessione tra passato e presente e ridona alla Cappella della Passione la completezza narrativa interrotta dalla scomparsa, agli inizi del 1800, della pala originale di Scipione Pulzone, oggi esposta al Metropolitan Museum di New York. Numerosi gli schizzi e i bozzetti preparatori, esposti fino al 27 ottobre in una mostra nella sagrestia della Chiesa del Gesù: un modo per raccontare in immagini il lungo percorso di realizzazione, per andare «al di là del risultato finale e del rapporto tra pubblico, committente e artista – spiega Romanelli-, scoprendo la semplicità ma anche la fatica e la sofferenza della produzione artistica».

 Fonte: Romasette.it

Una selva di croci scolpite nelle rocce del deserto dell'Arabia Saudita, segno della presenza di una vivace comunità cristiana intorno al V secolo dopo Cristo; una serie di nomi cristiani e biblici, forse di martiri uccisi in una persecuzione sempre del V secolo. E' la scoperta fatta da un gruppo franco-saudita di archeologi - riferisce l'agenzia AsiaNews - guidati da Frédéric Imbert, professore all'università di Aix- Marseille. 

La scoperta sulle pareti di una roccia
In una conferenza all'università americana di Beirut, di cui dà notizia l'Orient-Le Jour, il prof. Imbert ha esposto le sue scoperte sulle pareti di roccia del Jabal Kawkab ("la montagna della stella"), nella zona sud dell'Arabia Saudita, nell'emirato di Najran. La zona si chiama Bir Hima o Abar Hima, un nome "che rinvia a una zona di pozzi conosciuti fin dall'antichità". Per l'archeologo, è probabile che l'area fosse una zona di sosta per l'approvvigionamento dell'acqua" per le carovane che viaggiavano dallo Yemen a Najran. Sempre secondo Imbert, le croci e le iscrizioni sono "il più antico libro degli Arabi", scritto "sulle pietre del deserto", una "pagina di storia degli Arabi e del cristianesimo".

Testi in una lingua araba pre-islamica
Le croci, afferma Imbert, "non sono le sole conosciute nell'Arabia del sud e dell'est", ma "sono senza dubbio le più antiche croci cristiane in un contesto datato al 470 della nostra era". Alle croci sono mescolati dei testi. L'insieme delle iscrizioni si estende per più di un chilometro, con una serie di nomi, in una forma che si può definire una lingua aramaica locale. Esse rappresentano una "lingua araba pre-islamica", o ancora più precisamente, una lingua "nabateo-araba". Le iscrizioni si collocano nel periodo del regno himairita di Shurihbil Yakkuf, che ha governato l'Arabia del sud dal 470 al 475. Durante il suo dominio sarebbero iniziate le persecuzioni dei cristiani. E' interessante notare che fra i nomi iscritti fra le croci vi siano i nomi di Marthad e Rabi, entrambi iscritti nella lista dei martiri di Najran, nel cosiddetto "Libro degli Himairiti".

Cristianesimo nella penisola arabica grazie ai missionari persiani e siriaci
Da parte sua, il cristianesimo si è diffuso in Arabia a partire dal IV secolo, ma "è nel VI secolo che si diffonde nella regione del Golfo, nelle regioni costiere dello Yemen e a Najran". La diffusione del cristianesimo avviene grazie ai missionari persiani dell'impero sassanide ed ai missionari siriaci (che non accettavano il concilio di Calcedonia, sulle due nature - divina e umana di Gesù Cristo). Due vescovi, consacrati nel 485 e nel 519, apparterrebbero alla comunità siriaca, forse proveniente dall'Iraq. (R.P.)

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