“Modernità contro modernismo” è il titolo della conferenza che si è tenuta il 3 Marzo presso l’Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, relatore dell’incontro il filosofo francese Fabrice Hadjadj.
Il cardine dell’argomentazione del filosofo francese mostra il conflitto tra modernità e modernismo, la grande essenza della modernità in contrasto con coloro che si definiscono “modernisti”.
Per Hadjadj la modernità presenta tre caratteristiche fondamentali: una di tipo cronologico, una di tipo ideologico ed una di tipo pratico.
Dal punto di vista prettamente cronologico la modernità occupa un periodo temporalmente determinato, essa è dopo Gesù. Ideologicamente presenta una caratteristica essenziale per essere compresa, essa è senza Gesù e senza Dio e dal punto di vista pratico si caratterizza con una tendenza esasperata verso il progresso.
La modernità si fonda dunque sull’assenza di Dio. A tal proposito il filosofo ha citato la famosa frase di Nietzsche “Dio è morto” come caratteristica del moderno, e al Suo posto si creano nuovi idoli. Questo mi ha riportato alla mente il passo dell’Esodo in cui il popolo ebraico creò il vitello d’oro pur di venerare qualcosa in assenza di Mosè.
Rispondendo ad alcune domande sull’Avvenire del 3 Marzo 2011, Hadjadj afferma che l’ateismo rischia di cadere costantemente nella venerazione di ciò che nega chiamandolo con nomi diversi.
Il filosofo francese afferma: “Ho cercato di essere il più possibile ateo. Alla fine sbarazzandomi di ogni idolo, mi è rimasta la disponibilità di accogliere quanto non veniva da me, ciò che per alcuni è la trascendenza e che il catechismo chiama Rivelazione”.
Nella conferenza ha esaltato questo “pericolo” ricordando che in realtà vi sono vangeli dappertutto e che sono in funzione del mercato.
La modernità si contrappone dunque all’antichità e al termine “antico” che spesso ha avuto un’accezione negativa.
In realtà “antico” significa “venerabile, si avvicina alle origini” e rimanda ad un termine caro a tutta la filosofia occidentale ovvero “archè”, cioè una costante ricerca dell’origine.
Preoccuparci dell’origine vuol dire dunque ammettere che in realtà le radici sono state perse e per spiegare questo il filosofo utilizza una metafora semplice ma molto chiara:
“Un albero che ha le sue radici piantate nel terreno non si preoccupa di esse ma dei frutti mentre l’albero che non ha radici ben salde si preoccupa per esse”.
Ritornando al rapporto con la modernità, Hadjadj mostra una nuova caratteristica che la pone in contrasto con l’antichità ovvero l’essere critica.
La modernità è sempre critica, denuncia ma non annuncia e per questo spesso si ricade nel “virtuale”, un altro grande pericolo del mondo moderno.
Come nella caverna platonica, di cui il filosofo non parla ma sicuramente allude, guardiamo delle ombre “virtuali” che non indicano la Verità.
Costantemente ci rinchiudiamo nel passato o nei videogiochi perché la nostra società non ci mostra l’avventura della vita. Bisogna quindi costantemente “ritornare” nella caverna per aiutare l’altro, il prigioniero cieco, che non si è “convertito” alla luce (infatti “convertire” vuol dire secondo l’etimologia latina “volgere il capo”).
Il nostro mondo è quindi in disgrazia, in piena “décadence” come direbbe Nietzsche, e solo una cosa può salvarlo secondo il filosofo francese: la gioia.
Quest’ultima soffre per diffondersi ed ha bisogno che i tempi non siano “pronti” per poter agire.
Proprio per questo ogni cristiano sa che il momento di massimo gioia, ovvero la nascita di Cristo, coincide con il momento di massimo dolore, ovvero la sua crocifissione .
Qui si mostra la grande “contraddizione” che dovrebbe farci riflettere: “Il mondo che ha ucciso Gesù ha ricevuto da lui la vita”.
Il dolore è il contesto in cui il cristiano deve agire e deve poter fare qualcosa per gli altri.
Infatti, ricordando le tentazioni di Cristo nel deserto, il filosofo ha mostrato come il socialismo smodato o lo spiritualismo esagerato siano dei difetti e delle “tentazioni” che il cristianesimo non deve perseguire.
Bisogna trovare il giusto mezzo tra questi due eccessi per poter essere veramente seguaci di Cristo.
Fossilizzandosi sulle “tentazioni” prima citate il mondo ha distrutto l’umanesimo e per molti anche la modernità stessa.
Sempre di più si parla infatti di post-modernità e post-umano e della sparizione stessa dell’umanesimo.
La post-modernità mostra la finitezza della specie umana e un oblio che può essere superato solo con la gioia, come prima citato.
Il post-umano ha alcune caratteristiche peculiari: è tecnocratico, teocratico o ecologico.
Queste sono le tre grandi tendenze che superano l’umanesimo.
La prima tendenza mostra il “superuomo” (ovviamente non inteso come l’ubermensch di Nietzsche ma piuttosto come un progressista potente simile a quello che intendeva mostrare D’Annunzio) come superamento dell’umanità ed esaltazione della tecnica e del progresso.
La seconda tendenza è fondamentalista e mostra la completa contrapposizione ontologica tra istante (qui e ora) ed aldilà (eternità) proiettandosi già nel mondo ultraterreno.
La terza e ultima tendenza si basa sul ritorno alla “natura” e ai cicli naturali che sostituiscono interamente l’uomo (un tentativo simile alle religioni del passato fondate sul culto di Mater Cibele o su Dioniso).
Tutti questi elementi distruggono e dimenticano l’uomo e tutta la cultura umana.
Davanti a questa distruzione i moderni e gli antichi devono formare un fronte comune attraverso il dialogo.
Tradizione e modernità possono riconciliarsi per evitare la distruzione dell’uomo, come ricorda il filosofo francese citando il salmo di David: “solo in questo modo si potrà cantare un salmo nuovo” Proprio per questo la tradizione è più “viva” del moderno ed anche più critica. Essa supera la critica e si regge sull’Eterno mentre la modernità solo sul “qui e ora”.
Questo Eterno crea dunque le sue stesse condizioni di possibilità e si “incarna” nei nostri tempi.
Hadjadj fa notare l’importanza della “parola” che si incarna come vivo “logos” nel mondo, nel nostro mondo pieno di dolore e di distruzione, per poter portare la luce.
Solo soffrendo per raggiungere la luce e rischiando di morire per gli altri potremo vivere attivamente una vita degna di essere vissuta..
Il cristianesimo deve essere attivo più che mai per poter dar frutti.
Per poter dar frutti dovremmo preoccuparci anzitutto delle nostre origini e dell’archè che è comune a tutti noi.
Bisognerebbe a mio avviso ben riflettere su questa costante origine, su questo “soffermarsi” in un mondo che tenta la fuga assoluta dal mondo e dalla realtà.