L’ALTRO SOLE. INTERVISTA A OLIVIER CLÉMENT

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Andai a trovarlo per la prima volta nel 1983. E in quell’occasione, con una troupe televisiva, rischiammo di incendiargli la casa. Sistemando le luci, l’operatore spostò una lampada che bruciava davanti a un’icona. E le tende di casa presero fuoco. Quando gli ricordo quell’episodio, Olivier Clément sorride. Si limita a raccomandare, a me e ai tecnici che mi accompagnano, maggiore prudenza. Sono venuto a intervistarlo di nuovo. Una lunga conversazione sui temi che da sempre sono al centro del suo lavoro di teologo: il difficile incontro tra Oriente e Occidente, la spiritualità della bellezza, il senso del messaggio cristiano di fronte alle sfide dell’ateismo e del nichilismo. Il tono di Clément è pacato, la voce profonda. Ma in ogni parola brucia lo stesso fuoco che vediamo anche ora bruciare in una lampada davanti a un’icona, come nel 1983.

Intervista di Piero Pisarra (1999)

D.: Nella sua autobiografia spirituale (L’altro sole, Jaca Book, Milano) lei ha descritto il suo itinerario. È nato in una città del Sud della Francia, in un ambiente che non era cristiano, e ha scoperto il cristianesimo grazie all’Ortodossia. Come è avvenuto questo incontro?

Olivier Clément: È stata una strada lunga, non ho scoperto l’Ortodossia da un giorno all’altro. Prima ero ateo, perché tutti erano atei intorno a me, e quando facevo alcune domande importanti come: “Quando si muore, cosa succede?”, mi rispondevano: “Quando si muore, è il nulla”. Ho avuto momenti di grande angoscia a causa di questo tipo di risposta. Nello stesso tempo, ero uno del Mediterraneo, perché ero vicino al Mediterraneo, ero in una città… i miei genitori si erano stabiliti a Montpellier, a 10 chilometri dal mare, spesso ci andavo in bicicletta. Ero… meravigliato. Meravigliato della bellezza delle luci, meravigliato dei narcisi in primavera, della periferia in fiore, tutte queste cose, ed ero già dibattuto tra l’angoscia e la meraviglia. Poi, quando sono diventato, come dire?, un giovane che cerca, uno studente alla ricerca… sono stato tentato dal marxismo (in fondo, è stata una delle grandi mode del nostro secolo). Ma a un certo momento ho avuto la sensazione che non rispondesse alla domanda più profonda che mi portavo dentro, e a poco a poco in me è avvenuta una specie di conversione, di conversione a un Dio sconosciuto, come se tra tutte le religioni ci fosse una sola religione di colore diverso a seconda del luogo e dei tempi. È stata la mia prima tappa. Beninteso, il cristianesimo mi interessava, anche se mi poneva molti problemi. C’erano cose che mi inorridivano in certi cristiani. Spesso non li trovavo molto vivi, ed è così anche oggi purtroppo. Dico a me stesso che se il mondo si secolarizza così in fretta è perché i cristiani sono come morti… ma non ha molta importanza. Dopo dieci anni di ricerca attraverso le religioni, attraverso i miti, in questo universo fantastico dei miti e delle religioni (non si sa cosa si perde quando non ci si interessa a questa dimensione delle cose!) diciamo che sono stato attratto dal cristianesimo attraverso l’Ortodossia. Ho letto Dostoevskji, ho letto i grandi filosofi religiosi russi, Nicolas Berdiaev mi ha molto colpito, poi ho conosciuto alcuni grandi pensatori, alcuni grandi teologi della diaspora russa in Francia…

D.: In particolare, Vladimir Lossky, autore di un libro che s’intitola La teologia mistica della Chiesa d’Oriente (Il Mulino, Bologna, 1967). Olivier Clément: Sì, in particolare Lossky, di cui sono stato allievo. E poi altri, un grande monaco che si chiamava Sophrony, un grande teologo dell’icona, Léonide Ouspensky. E così un giorno mi è sembrato che dovevo mettere da parte tutti i miei problemi, tutti i miei interrogativi, tutti i miei dubbi, e sono divenuto interiormente…, mi sono convertito al cristianesimo. E dato che mi rendevo conto che non si può essere cristiani in qualunque modo o da qualsiasi parte, ho deciso di diventare ortodosso, come Lossky, come Berdiaev, come Dostoevskji… Ho imparato tante cose, mi sono formato alla scuola di Lossky e poi di altri, e sono diventato a poco a poco una persona che cerca di capire nello stesso tempo l’Oriente e l’Occidente, di capire nello stesso tempo l’Ortodossia, il Cattolicesimo, la Riforma… direi che sono diventato prima di tutto cristiano. Molto spesso gli occidentali che diventano ortodossi (ce ne sono, non molti, non è un movimento di massa, ma ce ne sono) sono persone che si convertono dal Cattolicesimo o dalla Riforma, soprattutto dal Cattolicesimo, all’Ortodossia, talora perché si sentono più libere, talora perché si sentono meno libere, come avviene ora, ma sono sempre lì a dover giustificare il loro passaggio. Per me il passaggio è stato dall’ateismo al cristianesimo… ero ateo, e sono diventato cristiano. Insomma, cerco di esserlo… Si diventa davvero cristiani? Lo si diventa un po’. Il mio problema dunque non è di collocarmi rispetto alle confessioni… alle diverse confessioni, in particolare alle confessioni occidentali. Al contrario, l’Ortodossia mi ha permesso di amare tutte le espressioni del cristianesimo, ed è questo che ha deciso il mio destino, il mio servizio, la mia esistenza… la scelta di essere un collegamento tra questi diversi mondi spirituali.

D.: Lei è diventato a sua volta un passeur, un “traghettatore”, un uomo di frontiera. E ha dedicato un libro che si intitola, appunto, Deux passeurs (Labor et fides, Ginevra) a due grandi teologi, Vladimir Lossky e Paul Evdokimov. Lossky ed Evdokimov erano dei passeurs, cioè due “traghettatori” da una cultura all’altra, da un’esperienza religiosa all’altra…

Olivier Clément: Questo lo dice lei. Io non so che cosa ho fatto. Ho cercato di fare delle cose. In genere ho scritto perché me lo hanno chiesto o perché vedevo che c’era un problema più o meno scottante. Non sono uno di quelli che hanno bisogno di esprimersi. Non ho nessun bisogno di esprimermi. E ciò stupisce alcune persone… “Perché non collabora al nostro giornale?”. “Collaborerei se mi chiedeste qualcosa. Se non mi chiedete niente, non faccio niente”.

Spiritualità della bellezza

D.: Chateaubriand parlava del “genio del cristianesimo”. Qual è il “genio” della Chiesa Orientale, o almeno qual è stato per lei, al momento della sua conversione, il “genio” della Chiesa Ortodossa? Olivier Clément: Senta, una delle prime cose che mi hanno colpito, leggendo Delitto e castigo di Dostoevskji, è il momento in cui si vede un piccola prostituta che legge a un assassino il Vangelo della resurrezione di Lazzaro. Mi sono detto: “Ma guarda, è sorprendente, una prostituta e un assassino non sono dei benpensanti, non sono persone che possono vantarsi di essere virtuose, e sono turbate da un brano del Vangelo”. Questo lato profondamente evangelico dell’Ortodossia è uno degli aspetti che mi hanno colpito. Non è ciò che sembra più evidente ora che gli ortodossi sono tesi, chiusi, si sentono minacciati… ma questo è un altro problema. Se volessi riassumere in una parola, direi che oggi l’Ortodossia si ispira alla filocalia. La Filocalia è un libro in cui si trovano dei testi molto belli, testi lunghi peraltro, di teologia mistica, ascetica e mistica, un libro che è stato pubblicato a Venezia nel 1782 in greco, e che ora viene tradotto nella maggior parte delle lingue occidentali (c’è una bellissima edizione italiana della Filocalia). Quindi direi che il “genio” dell’Ortodossia è un “genio” che si ispira alla filocalia, è, cioè, profondamente legato alla bellezza…

 

Le icone: teologia a colori

D.: A parte questa dimensione “filocalica”, si può dire che la teologia ortodossa sia essenzialmente liturgica. Padre Cyprien Kern diceva che “il coro della chiesa è una cattedra di teologia”. È vero ancora oggi nell’esperienza vissuta della Chiesa Ortodossa? Olivier Clément: Sì, certo. Credo che la maggior parte degli ortodossi vivano la loro appartenenza attraverso una teologia di grande respiro e spesso di grande bellezza e di grande profondità teologica, ma una teologia che diventa poesia, diventa canto, diventa musica e quindi è vissuta dal corpo stesso e non soltanto dalla mente o dai sentimenti.

D.: Uno dei suoi libri, che s’intitola Il volto interiore (Jaca Book, Milano), è dedicato al cristianesimo come religione dei volti. Lei ha scoperto questa dimensione del cristianesimo nell’Ortodossia… Olivier Clément: Sì, forse grazie alle icone. A causa delle icone. Sono rimasto molto, molto colpito dalla qualità – non di tutte le icone: c’è anche un artigianato religioso estremamente ripetitivo – ma di certi affreschi, di certe icone, sono rimasto molto colpito, come se in essi si compisse il mistero del volto. Non c’è soltanto il volto che ci appare, che spesso è estremamente banale, oppure è un volto indurito o un volto flaccido. Dio sa che nella civiltà europea attuale il volto è minacciato. Se andiamo nei Paesi in via di sviluppo o anche nei Paesi del Mediterraneo, ci sono a volte dei volti cattivi, dei volti crudeli, ma sono quasi tutti belli, è una cosa che mi colpisce, e mi colpiva il mistero del volto da bambino, e da giovane. Mi dicevo: “Ma se tutto è materia, se tutto va verso il nulla, che cos’è questo volto nella sua bellezza profonda?”. In russo, non c’è lo stesso termine per parlare del volto che appare e di quello che si rivela, del volto che viene dal cuore. Allora, questo volto che viene dal cuore che cos’è? Ho l’impressione di aver trovato la chiave del mistero guardando certe icone.

D.: L’icona è il volto trasfigurato, è la luce del Tabor che trasfigura la nostra realtà. Olivier Clément: Sì, sì, la nostra realtà è scolpita nella luce del Tabor, ma noi non sappiamo accorgercene. Non è niente di straordinario, è una cosa molto semplice, è l’evidenza più profonda delle cose. Non c’è soltanto la bellezza del volto. La bellezza dei volti si riflette sulla bellezza del mondo, c’è questa sensazione della bellezza del mondo, questa sensazione che la luce divina penetra ogni cosa, purifica ogni cosa, che nel cuore di ogni cosa c’è una specie di trasparenza, come nell’uomo c’è una specie di richiamo, quel richiamo che noi chiamiamo l’immagine di Dio. L’immagine di Dio non è un pezzo di vetro non so dove nell’uomo, ma è un invito rivolto all’uomo a diventare davvero una persona, una persona che comunica.

D.: L’icona ha un posto molto importante anche nella celebrazione della liturgia. Questi due aspetti – icona e liturgia – sono inseparabili nell’esperienza della Chiesa d’Oriente. Olivier Clément: Sì. L’icona è un’arte liturgica. Oggi forse si sbaglia a mettere le icone nei musei e a vederle troppo in fretta. Direi che ogni icona conta. Quando si celebra un festa in una chiesa, si mette l’icona corrispondente su un banco, e poi le chiese sono piene di icone, di affreschi, di mosaici: gli affreschi, i mosaici e l’icona sono la stessa cosa.

 

Alle sorgenti, in compagnia dei Padri

D.: In un libro che s’intitola Riflessioni sull’uomo, lei propone le basi di un’antropologia cristiana. Un’antropologia che va alle fonti… che si ispira ai Padri della Chiesa. Nella sua opera c’è questo riferimento costante ai Padri. Qual è stata l’influenza dei Padri nel suo lavoro di teologo?

Olivier Clément: I Padri sono ottimi commentatori di certi aspetti della Sacra Scrittura. Non c’è tutto nei Padri. Quello che è interessante nei Padri è un certo modo di vedere i problemi, sempre, in fondo, a partire dalla morte e resurrezione di Gesù Cristo. È una teologia della resurrezione, si potrebbe dire, e credo che oggi dovremmo riprendere il lavoro dei Padri non solo in riferimento al mondo mediterraneo o al Medio Oriente dei primi secoli della nostra èra, bensì in riferimento al mondo intero, in riferimento all’India, alla Cina, al Giappone, al mondo africano o sudamericano, è il compito che ci aspetta. In linea con i Padri (e, in definitiva, in linea con la Sacra Scrittura) abbiamo di fronte questo compito immenso. Per questo un grande teologo russo ha potuto dire: “Il Cristianesimo è soltanto all’inizio”.

D.: Si tratta in un certo senso di tornare alle origini, alle sorgenti e Sources, cioè sorgenti, è il titolo di un libro che lei ha dedicato ai mistici cristiani delle origini… Olivier Clément: Sì, è vero, per farli conoscere. La storia di questo libro è piuttosto curiosa. Uno dei miei amici, che era direttore letterario delle edizioni Stock, mi ha detto: “Vedo tanti giovani che si interessano all’India, al Buddhismo, a Hare Krishna. ma perché non riscoprire le grandi figure spirituali del cristianesimo, in particolare dei primi secoli, tra i Padri della Chiesa? Lei ne sa qualcosa. Mi prepari dei testi, e io ne farò il commento”. Allora ho passato mesi e mesi a preparare dei testi, a ritradurli, perché fossero belli e parlassero, perché molto spesso i Padri della Chiesa, non quelli dei primissimi secoli, ma a partire dal IV secolo, pensano attraverso quella che veniva chiamata “retorica”, e i testi non sono immediatamente accessibili per noi. Ho lavorato molto; ho portato tutto al mio amico, e lui mi ha detto: “È finito il tempo, ora mi occupo di politica. Cosa vuole che faccia con questi testi?”. Allora, mi sono messo a scrivere io stesso i commenti, li ho preparati e li ho portati all’editore. L’editore mi ha detto: “Ora non pubblichiamo più libri religiosi, non ci interessano più. Mi lasci tutto, darò un’occhiata al manoscritto, ma non lo pubblicherò”. Poi, tre giorni dopo, mi ha telefonato e mi ha detto: “Ho visto il suo libro. Sono ateo, ma lei ha fatto vacillare il mio ateismo, perché questi testi sono belli. Li pubblico”. Ed è così che è uscito quel libro che ho chiamato Sources, sorgenti.

 

Il patriarca Atenagora

D.: Prima abbiamo ricordato i nomi di Vladimir Lossky e Paul Evdokimov, ma c’è un terzo personaggio che bisognerebbe citare, perché ha avuto un’influenza forse determinante su di lei. È il Patriarca Atenagora. Che ricordo ha di lui? Olivier Clément: Anche questa è una storia piuttosto divertente. In quel momento Jean Guitton, il filosofo cattolico francese, aveva pubblicato un libro su Paolo VI. E allora l’editore si è detto: “Sarebbe bello pubblicare un libro del genere sul Patriarca di Costantinopoli, Atenagora”, ed è vero che Atenagora si affermava in quel momento come uomo del dialogo. Lui e Paolo VI hanno aperto una quantità di porte… Allora mi hanno detto: “Non vuole scriverlo lei, questo libro?”. Ho risposto: “Non so se ne sarei capace”. Hanno scritto ad Atenagora il quale ha risposto: “Non so… non ne ho tanta voglia”. Forse era diffidente: “Che cosa ci viene a fare qui quel tale? Che cosa intende attribuirmi?”. Insomma, non è successo niente. Il patriarca mi ha mandato una scatola di loukoum o di altri dolcetti turchi tradizionali e la cosa sembrava finita lì. È stato l’editore a tagliare la testa al toro. All’inizio dell’estate, mi ha mandato un telegramma che diceva: “È atteso a Istanbul, ci vada”. Allora sono andato a Istanbul. Atenagora riceveva tutti, al mattino, fino all’una. Ci sono andato, mi sono presentato, ho fatto la fila, c’era tanta gente che voleva incontrarlo. Mi riceve, riceveva tutti, e mi dice: “Cosa vuol fare? Cos’è questa storia dell’editore che vorrebbe che scrivessi un libro di dialoghi con lei? Non ho ancora deciso… Rimanga, così ci conosciamo”. Allora, mi ha portato con lui, andava a celebrare delle funzioni nelle chiesette sulle rive del Bosforo, e a poco a poco abbiamo fatto amicizia. Si è reso conto che non venivo per questioni di diplomazia ecclesiastica o per un qualche desiderio di potere, ero lì… ero lì come un figlio vicino al padre, avevo una grande ammirazione per lui, era pur sempre molto più vecchio di me, aveva più di ottant’anni, io ne avevo una quarantina. Un giorno mi ha detto: “Senta, se vuole… non vuole prendere appunti davanti a me?”. E io gli ho detto: “No, no, parleremo”. E gli facevo delle domande, o lui me ne faceva, mi raccontava delle cose, mi ha parlato della morte, della sua morte, dei gabbiani che volano dal Mar di Marmara al Corno d’Oro, mi ha parlato delle formiche, mi ha parlato… che so… E poi della gente, della Chiesa, la Chiesa che lo faceva arrabbiare (è l’unica volta che l’ho visto arrabbiato). “Sì, la Chiesa… hanno costruito una macchina… funziona, funziona, ma non significa più niente”, diceva. E alla fine, quando tornavo a casa, cioè all’albergo, scrivevo, scrivevo quello che avevo sentito. Poi ha preso la cosa sul serio e mi ha detto: “Andiamo a Halki”. Halki è un’isoletta sul Mar di Marmara, non lontana da Costantinopoli, una di quelle che chiamano le “Isole dei Principi” perché è là che venivano esiliati i principi più o meno ribelli, che non erano più nelle grazie dell’Imperatore all’epoca bizantina, e lì c’era ancora una Scuola di Teologia che è stata chiusa dal governo turco poco tempo dopo. Era in edifici molto ben conservati, su una collina con una pineta. Era magnifico, era estate, il periodo delle vacanze, non c’era nessuno e noi dovevamo lavorare, ed era lui a dire: “Domani parleremo della liturgia. Domani parleremo dell’ecumenismo…”. Ci incontravamo in giardino e lui parlava, parlava, parlava, e la sera io prendevo appunti. Il libro è nato così. Naturalmente, io l’ho sottoposto alla sua approvazione, lui era d’accordo, e il libro è stato pubblicato un anno dopo.

 

Paolo VI e il dialogo della carità

D.: Atenagora è l’uomo del dialogo ecumenico, l’uomo dell’incontro con Paolo VI, ma è anche l’uomo del dialogo dell’Ortodossia con il mondo moderno. Olivier Clément: È vero. Pensava che il ravvicinamento dei cristiani avrebbe potuto dar senso al terzo millennio. C’è stato un millennio in cui eravamo tutti insieme, poi c’è stato un millennio in cui tutto si è scomposto, il mondo cristiano si è trovato in uno stato fissile, per usare il linguaggio della bomba atomica, o dell’energia atomica, e ora dobbiamo rimetterci in uno stato di ravvicinamento, di approfondimento comune e alla fine di unificazione, e allora daremo un senso all’unificazione del pianeta, a quella che oggi chiamiamo la mondializzazione.

D.: Che cosa le ha detto del suo incontro… dei suoi rapporti con Paolo VI? Olivier Clément: Che Paolo VI gli piaceva molto. Che aveva per lui una vera amicizia. Il momento più buffo è stato quando, una mattina, mi ha detto: “Ha visto…?”. Aveva in mano un libretto, era l’enciclica di Paolo VI sui problemi della sessualità… D.: Humanae vitae. Olivier Clément: Sì, Humanae vitae. Allora mi ha detto: “Ammiro Paolo VI, guardi cosa ha scritto… Ma sono trenta pagine, Dio mio, perché trenta pagine? Io me la caverei con una sola pagina. Direi semplicemente che… parlerei della santità dell’amore umano, del mistero del bambino, e quanto ai metodi anticoncezionali, questo non mi interessa. Quando un uomo e una donna si amano veramente credo che sia l’essenziale, non entro nella loro camera, e a questo proposito non ho niente da dire. Ma si deve parlare dell’amore. Si deve dire che l’amore è possibile, e che è una cosa meravigliosa. Allora…”. Gli piaceva Paolo VI. “Certo, c’è tutta una tradizione… bisogna capirlo, io capisco quello che ha voluto dire…”. Aveva questo rapporto con Paolo VI, e credo che tra loro ci fosse una grande amicizia che si esprime molto bene nel libro che è stato pubblicato contemporaneamente a Costantinopoli e a Roma e che si chiama O Tómos Agapìs, il libro dell’amore, della carità, fatto dei loro discorsi, dei loro incontri, dei loro scambi di idee, dove si vede il Papa che parla tanto della Chiesa locale, della Chiesa come comunità eucaristica, e dove si vede che il Patriarca riprende le espressioni di Sant’Ignazio d’Antiochia nel II secolo, su Roma, la Chiesa che deve presiedere nell’amore. A mio avviso è un libro estremamente importante per il pensiero teologico del XX e del XXI secolo.

 

In ascolto dello Spirito

D.: Nei dialoghi con Atenagora, nei dialoghi che lei ha scritto, Atenagora insiste spesso sull’importanza, sul ruolo dello Spirito. La Chiesa deve porsi in ascolto dello Spirito per non sbagliare strada. Olivier Clément: Proprio così. Altrimenti diventa un piccolo mondo chiuso su se stesso, un meccanismo ben oliato che però ben presto non interessa più nessuno. Credo proprio che la Chiesa debba diventare in Cristo la Chiesa dello Spirito Santo, è una cosa fondamentale, e lo Spirito significa la libertà, l’inventiva, la creatività dell’uomo, una risposta. Come diceva Berdiaev: “In Cristo Dio si è totalmente rivelato all’uomo, e ora Dio aspetta la risposta dell’uomo nello Spirito Santo”. Dobbiamo lavorare, collaborare col Creatore perché il mistero della Resurrezione si comunichi a tutta la storia.

 

 

Monachesimo interiorizzato

D.: Atenagora era un monaco. È noto il ruolo del monachesimo nella tradizione ortodossa. Secondo lei, qual è il messaggio del monachesimo ortodosso per l’uomo d’oggi?

Olivier Clément: Direi che il monachesimo ortodosso è in un momento di passaggio, in una fase di transizione tra il ruolo che aveva in una società che si definiva cristiana, in cui in realtà diventare cristiani, convertirsi, significava diventare monaci… oggi non è così, credo che il monachesimo debba essere essenzialmente un esempio… deve darci dei padri spirituali, dei padri spirituali che ci capiscano, che ci ascoltino, che ci aiutino, e deve essere una specie di fermento nella vita cristiana. È molto importante che nella nostra società in cui la gente ha un grande desiderio di denaro, di sesso, ci siano degli uomini che rinunciano a tutto questo, che non si interessano né al denaro né alla sessualità, ma che si interessano semplicemente a Dio e dicono che Dio è interessante, e che ci sono metodi che consentono di far scendere la coscienza nel centro dell’essere umano (centro che chiamano, come fa la Bibbia, il cuore). In quel momento, sono esploratori di spazi spirituali davvero immensi. E ci vogliono uomini così per dialogare con i buddhisti, ad esempio, nel momento in cui tanti occidentali diventano buddhisti, e certi italiani, l’ho visto in Italia, diventano sufi, aderiscono alla mistica musulmana.

D.: Paul Evdokimov parlava del monachesimo interiorizzato come di un’aspirazione di tutti i cristiani… Olivier Clément: Certamente. È un modo per non perdere quella specie di aristocrazia del monachesimo forse sotto sotto superba nei confronti dei cristiani comuni. Evdokimov e altri teologi dicevano: “Ognuno deve avere in sé una cella in cui si può ritirare nel silenzio”, ed è quello che chiamavano il monachesimo interiorizzato, con le grandi scelte monastiche, ma anche con la possibilità di dare un senso spirituale all’amore umano, cosa che naturalmente non fanno, per definizione, i monaci.

 

Il pellegrinaggio cristiano

D.: Presto i cristiani festeggeranno il secondo millennio dalla nascita di Cristo. Si celebrerà il grande Giubileo. E si torna a parlare del senso del pellegrinaggio cristiano, dell’essere pellegrini. Questo tema nella spiritualità orientale occupa un posto molto importante, basti pensare al celebre pellegrino russo… È, questa del pellegrinaggio, una dimensione ancora attuale della spiritualità ortodossa? Olivier Clément: Sì, il pellegrinaggio continua ad essere molto praticato nel mondo ortodosso, molto praticato. Sono rimasto molto colpito, all’epoca di Ceaucescu, dal fatto che il cristianesimo sia stato salvaguardato in un Paese come la Romania da alcuni padri spirituali che si trovavano in santuari molto venerati dal popolo e dove la gente andava in pellegrinaggio. Dato che non erano monasteri di clausura, la gente poteva vedere questi monaci, e faceva la fila. I pellegrini a volte si accontentavano di una frase che apre il cuore, che libera l’uomo e lo mette in cammino. Sì, il pellegrinaggio è una cosa tuttora molto viva. In Russia, per esempio, da quando le reliquie di San Serafino di Sarov sono state riportate a Divéiévo, la gente si accalca, c’è un pellegrinaggio molto frequentato dalla gente di tutte le classi sociali, dalla gente del popolo, molti si tuffano in una fontana fresca che si trova lì… quindi il pellegrinaggio è davvero molto vivo nel mondo ortodosso attualmente. È questa la condizione dell’uomo, homo viator. D.: Homo viator, come diceva anche Sant’Agostino… Olivier Clément: Come diceva Sant’Agostino, sì. D.: Mettersi in cammino dev’esssere ancora oggi uno degli atteggiamenti fondamentali del cristiano? Olivier Clément: È nella Lettera agli Ebrei ed è stato sviluppato magnificamente da un testo del III secolo ad Alessandria (non sappiamo chi l’abbia scritto), la Lettera a Diogneto, in cui viene spiegato che il cristiano è come uno straniero che abita in un luogo, fa il suo dovere nell’ambiente in cui si trova, e nello stesso tempo è nel mondo senza essere del mondo, per riprendere un’espressione di Cristo nel Vangelo di Giovanni. Siamo impegnati in un pellegrinaggio che è anche un pellegrinaggio interiore, è la ricerca del luogo del cuore. Il nostro cuore spesso è nello stesso tempo così vicino e così lontano, e allora occorre un lungo pellegrinaggio interiore prima di poterlo aprire un po’.

 

Il dialogo ecumenico

D.: Ho ancora qualche domanda di attualità. Una riguarda lo stato del dialogo ecumenico. Dopo un periodo non molto felice, di gelo, come dicono alcuni, a che punto è in questo momento il dialogo ecumenico?

Olivier Clément: Credo che ci sia ancora molta freddezza o gelo ai vertici delle Chiese. Ma Papa Giovanni Paolo II ha un atteggiamento profondamente ecumenico rispetto al mondo ortodosso. La visita in Romania è stata un raggio di luce in un’epoca buia, addirittura tragica, e si è visto che il Papa, il Vescovo di Roma, può recarsi in un Paese ortodosso, e che in quel momento può manifestarsi una vera amicizia… Credo che oggi l’ecumenismo possa essere soltanto un ecumenismo di amicizia e di preghiera. C’è davvero, in Occidente, lo vedo ad esempio in Francia, un grande interesse per l’icona, un grande interesse per la filocalia, per la preghiera di Gesù, la gente va e viene, va nei Paesi Ortodossi, spesso si instaurano legami di amicizia, e io credo molto in questo, credo all’ecumenismo dell’amicizia… Per quanto riguarda gli episcopati, i Patriarcati e il Consiglio Ecumenico delle Chiese, la situazione non è favorevole attualmente. Non è favorevole, ma non bisogna disperare. Finché c’è amicizia, fino a che ci sono uomini che scoprono l’altro e accettano di amare l’altro nella sua diversità, c’è qualche speranza. Anche se è cosa difficile per gli ortodossi, perché l’Ortodossia spesso è chiusa, e in realtà gli ortodossi tendono ad amare negli altri solo quello che hanno di simile a loro. Bisogna insegnare loro ad amare quello che non è simile a loro. È un’altra visione della Chiesa, e tutte queste visioni della Chiesa si completano. Ci sono degli ortodossi che lo sanno, che lo vivono. Direi che la Chiesa Ortodossa è divisa a proposito dell’ecumenismo. Ci sono ortodossi aperti, estremamente cordiali. E ce ne sono altri che sono… che hanno paura, che sono tesi, che sono stati delusi, prima schiacciati dal comunismo per tre quarti di secolo in Russia, per mezzo secolo nei Balcani e in Romania, e che ora sono rimasti delusi dall’intrusione, direi, della sottocultura americana con le sette, la sessualità sfrenata, la droga… e questo porta spesso a un atteggiamento di diffidenza e di chiusura. Ritrovano antichi atteggiamenti storici di diffidenza e di chiusura.

La guerra del Kosovo, l’Ortodossia e i nazionalismi D.: La guerra che è appena finita ha portato alla ribalta le divisioni dei cristiani. Lei ha scritto vari articoli per dire che si deve fare attenzione, non si deve pensare che l’atteggiamento della Chiesa Ortodossa sia monolitico. Ci sono ad esempio personaggi come il Vescovo Artemiye nel Kosovo che hanno assunto un atteggiamento molto chiaro di condanna nei confronti di Milosevic… Olivier Clément: Sì, sì, l’episcopato serbo non ha mai – nemmeno con i Vescovi più nazionalisti, e ce ne sono – l’episcopato serbo non ha mai chiesto la pulizia etnica nel Kosovo, è qualcosa che non viene assolutamente dai responsabili cristiani serbi. Tutti hanno chiesto l’applicazione dei diritti dell’uomo, l’applicazione dei principi della democrazia, il rispetto reciproco, alcuni avevano proposto all’inizio dei colloqui di Rambouillet di fare una divisione in cantoni del Kosovo, con qualche cantone serbo, i serbi sarebbero stati in maggioranza intorno ai loro santuari, e tutti gli altri cantoni sarebbero stati cantoni kosovari. È una proposta che non è stata presa in considerazione, ma non era priva di interesse. Una delle cose che si dicono sempre, perché tanti luoghi comuni sono venuti a galla, è che nell’Ortodossia la Chiesa è asservita allo Stato. Ma proprio per questo in Serbia la Chiesa si è staccata nettamente dallo Stato da una decina d’anni, ha preso posizioni di netta opposizione nei confronti di Milosevic, e dunque credo che a questo proposito si debba essere molto chiari, bisogna dire queste cose. Mi sono adoperato come ho potuto. E ho scritto sui giornali italiani, sull’Avvenire o su Repubblica, quello che ho potuto, non so se qualcosa è arrivato.

D.: In ogni caso è meglio diffidare dai luoghi comuni… Olivier Clément: Nel modo più assoluto. C’erano moltissimi luoghi comuni nell’articolo di una signora di origine bulgara sul quotidiano Le Monde (e sull’italiano La Stampa, ndr)…

D.: Julia Kristeva, semiologa e psicanalista… Olivier Clément: …che sembra però avere completamente dimenticato le sue origini. E allora ha sviluppato due luoghi comuni: primo, nell’Ortodossia lo Stato ha il sopravvento e, secondo, non esiste il concetto di persona, cosa che mi sembra assurda, perché se c’è un tema ricorrente nel pensiero ortodosso del XIX e XX secolo è proprio quello della persona. Beninteso, in Occidente quando si parla della persona si parla dell’individualismo. Del resto, non sappiamo dove finisce l’individuo e dove comincia la persona: qui bisogna diffidare dai luoghi comuni ortodossi che denunciano l’individualismo occidentale. In oriente, l’accento è posto maggiormente sulla comunione delle persone. Si diventa persona nella misura in cui si comunica.

D.: Una sua raccolta di articoli, di cronache, si intitola Anachroniques (DDB, Parigi). “Anachroniques”, cioè cronache, articoli anacronistici. Nonostante il gioco di parole intraducibile, direi che in questo caso si tratta di una riflessione ancora straordinariamente attuale. Allora perché scegliere l’espressione di “articoli anacronistici”? Forse per sottolineare ciò che resta, ciò che conta, ciò che non passa come passano le mode?

Olivier Clément: Devo dire che è un’espressione di Nietzsche – e io leggo Nietzsche con attenzione, finisco sempre col respingerlo, ma nello stesso tempo mi attira. Ma devo aggiungere, con un po’ di ironia: “Vedete, vi occupate talmente tanto di quello che è attuale che forse dimenticate qualcosa di essenziale”. Il mio è un modo “ana-cronistico” per parlare di qualcosa che non è nel chronos, non è nel tempo, ma sarebbe piuttosto nel kairòs, per usare un termine teologico, cioè nell’occasione spirituale che Dio ci dà per parlare del mistero.

D.: È l’invito a tornare all’essenziale.

Olivier Clément: Sì, è così.

 

 

 

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 17:05
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13-07-2024 Allamano sarà Santo

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L'11 maggio 1925 padre Giuseppe Allamano scrisse una lettera ai suoi missionari che erano sparsi in diverse missioni. A quel...

Un pellegrinaggio nel cuore del Beato Giuseppe Allamano

11-07-2024 Allamano sarà Santo

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In una edizione speciale interamente dedicata alla figura di Giuseppe Allamano, la rivista “Dimensión Misionera” curata della Regione Colombia, esplora...

XV Domenica del TO / B - “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due"

10-07-2024 Domenica Missionaria

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Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13 La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata...

"Camminatori di consolazione e di speranza"

10-07-2024 I missionari dicono

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I missionari della Consolata che operano in Venezuela si sono radunati per la loro IX Conferenza con il motto "Camminatori...

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