La testimonianza

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La testimonianza è l’espressione radicale delle possibilità del discorso umano: è nella testimonianza, infatti, che avviene l’incontro creativo tra l’evvenimento ed il suo senso, tra l’esperienza e la sua comunicazione. Un avvenimento che non è inserito in un contesto linguistico, che non diventa comunicazione e testimonianza, si trasforma subito in un avvenimento insignificante. La testimonianza è la radicale possibilità umana di superare il positivismo dei fatti e delle parole per incontrarsi con la possibilità assolutamente libera di chi decide di comunicare qualcosa a qualcuno. In una parola, la testimonianza ha una struttura personale vitale dove quella conoscenza che è la base della propria visione e delle proprie scelte e l’apertura, l’incontro con l’altro coincidono.

In un mondo come il nostro dove il sapere personale è spesso separato dalla funzione sociale e dove la vita personale non di rado fatica ad aprirsi ed a comunicare, fermarsi a riflettere su quella forma alta di comunicazione che è la testimonianza, sul suo significato e sulla sua struttura, è non solo utile ma addirittura necessario.

Il contesto semantico della testimonianza

Per comprendere la struttura della testimonianza è utile mettere a fuoco il contesto semantico in cui si colloca. Poiché le espressioni linguistiche sono convenzionali, le condizioni in cui vengono formulate incidono profondamente sul valore veritativo che intendono comunicare. Solo la determinazione del contesto – favola, romanzo, cronaca… – permette di capire quale elemento dei molti che accompagnano una affermazione sia decisivo per la sua comprensione. A noi interessa qui delineare il contesto semantico dell’utilizzo della testimonianza come sustrato dell’uso che ne fanno le Scritture e che ne fa il credente: rappresenta una prima elementare approssimazione al suo valore comunicativo.

  • Nozione usuale. Abitualemente si parla di testimonainza per indicare l’espressione di chiha visto od udito ciò che testimonia. La testimonianza è quel sapere che si comunica. Va osservato che la testimonainza non è tanto il vedere ma il narrare, il comunicare ciò che uno ha visto: la testimoinainza, insomma, si colloca nel contesto della comunicazione tra persone ed aiuta il formare una opinione circa fatti od avvenimenti di cui non abbiamo una diretta esperienza. L’accogliere una testimonianza comporta un certo tasso di fiducia così che essa appare doppiamente decisiva: perché serve a formare il proprio giudizio sulle cose e perché qualifica una rete di relazioni interpersonali.
  • Nozione giuridica. Un particolare contesto semantico della testimonianza è quello giuridico del processo: la testimonianza si colloca qui in un tribunale, di fronte ad un giudice chiamato a decidere una situazione controversa. In poche parole, la testimonianza si colloca qui sullo sfondo di una situazione di divisione, di opposizione, come prova a favore dell’una o dell’altra parte. La possibilità che si diano testimonainze a favore dell’accusa e della difesa permette di comprendere come la testimonianza non sia decisiva di per sé ma sia piuttosto necessario al formarsi di quel giudizio con il quale una persona prende liberamente posizione su un punto discusso.

Su questo sfondo va collocato il significato religioso della testimonianza; per un verso il suo contenuto si identifica con una globale visione della vita fondata sulla fede in Dio e, per un altro verso, la testimonianz assume qui un significato del tutto nuovo rispetto al cimune modo di esprimersi. Lo ricercheremo partendo dalle Scritture senza pretendere, per questo, di presentarlo in modo esaustivo.

  • Nozione profetica. Mi limito a ricordare Is 43,9-13 per indicare che il testimone non è chiunque parla e pretende di comunicare qualcosa ma è chi è inviato, chi è mandato per questo. Nell’ambito biblico la testimonianza non nasce dalla scienza, da ciò di cui le persone sono convinte, dalla loro interiorità ma da ben più in alto; religiosamente, infatti, non si testimoniano solo dele cose che ognuno potrebbe conoscere ma si testimonia quel senso globale e singolare dell’esistenza, quel valore della persona umana che Dio ha fatto conoscere, cioè che l’uomo – immagine di Dio – è chiamato alla comunione con Lui attraverso un cammino di fedeltà. È questo il senso della testimonainza profetica: proclamata di fronte al popolo od a popoli e re non credenti, la loro testimonainza ha la forma del “kerygma”, dell’nnuncio che risuona e che nessuno può fingere di non aver sentito.

In questa prospettiva, la testimonianza non appartiene al testimone ma procede fondamentalmente da una iniziativa divina vuoi quanto alla sua origine vuoi quanto al suo contenuto. Poiché si rifà ultimamente ad un messaggio divino, la testimonainza di un profeta corrisponde comunque ad una adesione vitale ed impegnativa del profeta anche nel caso – come è per Geremia e per Giona – che in qualche modo la patisca. Comunicazione di un messaggio divino, la testimonianza assume la forma di una professione, di una confessione. Il contesto comunicativo e giuridico è qui piegato ad un avlore diverso: nell’ambito della opposizione che divide il vero Dio dagli idoli, il popolo eletto dai popoli idolatri, la testimonianza è la presa di posizione dl credente a favore di Dio: Is 44,6-8.

  • Nozione neotestamentaria. Preparata dal messaggio profetico, la testimonainza si arricchisce qui dei caratteri propri del fatto cristiano: la testimonianza appare riconoscimento aperto, professione dell’evento cristiano: si qualifica cioè come confessione del fatto che Gesù risorto è il Cristo, il Signore e che la nostra vita ne dipende completamente. Si veda At 2,32-36; 13,26-32. Si tratta di una testimonianza che si avvale della garanzia dello Spirito: At 2,15-18 nel senso che la comunicazione della testimonainza si costrusce attorno a quella esperienza dello Spirito che, per un verso, è illuminazione e comprensione delle Scritture e degli avvenimenti e, per un altro, comprende una missione, un essere inviati proprio per questo: At 1,7-8.

Possiamo dire che, nel Nuovo Testamento, la testimonianza si raccoglie attorno adue fondamentali linee di comprensione che, per comodotà, possiamo raccoglier attorno all’insegnamento di Luca e di Giovanni. Per Luca la testimonianza è certamente testimonianza delle cose viste ed udite ma soprattutto è testimonainza della loro interpretazione che è possibile solo alla luce dei doni divini. L’episodio della sostituzione di Giuda: At 1,21-25 è emblematico al riguardo: due hanno visto ed udito ma uno solo è scelto per la testimonianza.

Per Giovanni invece la testimonianza non è tanto annuncio e proclamazione ma è piuttosto manifestazione ripetitiva del gesto rivelativo di Cristo testimone fedele della luce e della verità: Gv 1,7; 18,37. In questa prospettiva occorre leggere i brani di Gv 5,31-39; 8,13-18 dove la testimonianza umana risale alla testimonianza che il Padre dà a quel Gesù che lui stesso ha inviato. La testimonainza ha qui il valore di una rivelazione divina, di un evento puntuale nel quale si rende presente la stessa vita divina. Per questo, per Giovanni, la testimonainza è sempre confessione cristologica ed, in quanto tale, epifania della vita divina, manifestazione che esprime e chiede di introdurre alla comunione con Dio. Matteo ne ricaverà una fiducia che gli apostoli devono avere nel Padre e nello Spirito: Mt 10,16-20; saranno loro a guidare i passi dei testimoni.

Si può perciò dire in conclusione che il Nuovo Testamento conosce una testimonianza-narrazione o confessione ed una testimonianza-rivelazione; la prima rimanda ad un preciso nucleo storico men tre la seconda, pur comprendendolo, ha in se stessa la ragione della propria verità. Queste indicazioni andrebbero poi integrate con il lungo cammino della vita e della storia della Chiesa vista nel suo insegnamento e nella sua santità. Mi preme semplicemente richiamare due integrazioni del concilio Vaticano II: dei molti spunti presenti nel concilio vorrei solo indicare qui alcuni ampliamenti.

Il primo riguarda la Chiesa chiamata a considerare con ssincerità e intelligenza«ciò che deve essere rinnovato e fatto nella stessa famiglia cattolica affinché la sua vita renda una testimonianza più fedele e più chiara della dottrina e delle istituzioni tramandate da Cristo per mezzo degli apostoli» (Unitatis Redintegratio 4); legata al rinnovamento interno, la testimonianza appartiene anche alla missione, ai compiti apostolici della Chiesa come ricorda Ad Gentes 6 che insegna che «tutti i battezzati sono chiamati a radunarsi in un solo gregge e a rendere, così uniti, testimonianza a Cristo, loro Signore di fronte alle genti». Ovviamente questo rinnovamento e questa missione richiedono una fede viva ed una santità reale che trovano nell’amore fraterno e nell’impegno apostolico il loro splendore. Ne viene che la testimonianza è una basilare dimensione della vita cristiana.

Non si dovrebbe dimenticare che il concilio, nel capitolo II dell’Ad Gentes. dedica una piccola sezione – nn. 11-12 – alla testimonianza che legano al rispetto dei semina Verbi ed alla condivisione della esistenza umana e della sua espressione culturale e sociale: i discepoli «profondamente animati dallo Spirito di Cristo, devono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono e improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e paziente affinché conoscano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ma nello stesso tempo devono tentare di ulluminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di riferirle al dominio di Dio salvatore». Una sottolineatura merita anche l’osservazione che, là dove non è possibile annunciare pienamente Cristo, i credenti devono promuovere la dignità e la fraterna unione delle persone promuovendo quelle verità morali e religiose che appartengono alla persona umana: «così gradualmente aprono una via sempre più larga al Signore».

La teologia della testimonianza: il testimone

Si può dire che la testimonianza è quella libera e gratuita comunicazione che una persona fa ad un’altra per provocarla ad una decisa presa di posizione. Così intesa, la testimonianza nasce da un personale impegno della propria libertà che va in cerca d’altri; in questo senso, la testimonainza nasce dalla capcità che una persona ha di disporre di se stesso in estrema libertà e secondo quelle mete che lui stesso si pone. Ogni testimonianza, in quanto comunicazione, presuppone questo libero disporre di sé, questa soggettività attenta alla propria vita ed aperta all’incontro con altri. Ogni testimonianza presuppone insomma un testimone, cioè una persona che – nel dinamismo della sua esistenza – ha raggiunto una adesione talmente profonda alla verità della vita da sentire il bisogno di comunicarla ad altri.

In questo senso la testimonianza esige non un semplice sapere ma quel sapere impegnativo per cui questa conoscenza da testimonianre è, al tempo stesso, la vertià che ha fatto chiarezza sulla nostra personalità, che ci permette di essere pienamente noi stessi pur trascendendo l’espressione che noi ne diamo. Nel suo essere per tutti, la testimonianza non è riducibile alla sola interpretazione che noi ne diamo. Il testimone è colui che è giunto alla scoperta ed alla realizzazione del suo proprio io attraverso quella stessa verità che poi testimonia; alla sua base sta quindi una relazione ed un confronto continuo tra la persona concreta così come essa é, la libertà radicale di come può costitutirsi e di ciò che può diventare e l’esperienza reale di un cammino nel quale impara e vive quanto in ogni situazione lo porta alla piena chiarezza di se stesso. In questo senso è evidente che non ogni sapere conduce alla testimonainza ma solo quel sapere che aiuta a costruire la propria persona. Appare così l’originalità dell’insegnamento religioso rispetto ad altre forme di insegnamento.

Nell’ambito biblico-cristiano, questo sapere è quello che nasce dall’incontro con l’Assoluto, con il Dio di Gesù: è quel sapere che mi permette di pensarmi all’interno della paternità di Dio come sua immagine, come sui figlio per il dono dello Spirito di Cristo. La possibilità della testimonianza nasce quindi da un evento di grazia come grazia che diventa luce per la nostra vita e che ci permette di capirci nel quadro paradigmatico del Signore Gesù. Per un verso esige un’interrogativo ed una comprensione globale di sé; la frammentazione della vita, tipica di una società complessa, genera una condizine antropologica che si apre a Dio solo a prezzo di una lacerante esperienza del proprio mondo. Su questo sfondo globale, sta la maturazione dell’io e la costruzione della propria personalità come testimone. Chi non è testimone, chi non ha nessuna testimonianza da offrire non è ancora giunto ad una vera comprensione di se stesso. non è ancora giunto a decidersi. La testimonianza è il primo scandaglio della profondità del proprio io in un contesto di rapporti interpersonali visti come fondamentali per la stessa nostra vita.

In pratica vi è qui una chiara declassazione del sapere astratto ed oggettivo che resta esteriore alla vita dell’individuo; questo sapere conduce soltanto all’esterno di se stessi e svolge in quell’ambito tutta la propria funzione. La forte affermazione dei Soliloquia di Agostino: Deum et animam scire cupio; quid plus? Va integrata con una migliore visione relazionale ma contiene una grande verità che mette in guardia da comodi riduzionismi. La testimonianza presuppone un saper che costringe ad entrare nelle profondità della propria vita per diventare, così trasformato, capace di vivere la molteplicità delle relazioni. Mentre riempie il vuoto della vita, la testimonianza mobilita il nostro esistere ricolmandolo di scopi. In questo senso è con la testimonainza che la verità di Cristo diventa verità-per-noi passando così dal piano della certezza logica a quello della appassionata esperienza; questa vertià è luce e sale, è realtà esistenziale senza di cui non si saprebbe esistere.

In una certa misura è questa entusiasta adesione a coronare di credibilità la testimonianza. Al tempo stesso va riconosciuto che non è la mia adesione a costituirla ma, al contrario, è questa verità a dare valore alla nostra esistenza. In poche parole, non è il testimone che si impadronisce della testimonianza: il vero testimone non la domina ma la serve. In questo senso il vero testimone è sempre un profeta, cioè è qualcuno che rimanda ad Altri, che – cogliendo a fondo il prooprio nulla senza la verità che lo sostiene – sa interpellare radicalmente gli altri. Del pari, il testimone è sempre un martire, cioè è una persona che non manomette mai la sua fede per circostanze avverse ma è disposto a pagarne il prezzo, tutto il prezzo.

La teologia della testimonianza: il suo contenuto

La testimonianza possiede un suo contenuto: è ovviamente testimonianza di qualcosa. Questo qualcosa ha a che fare con l’esperienza di una radicale apertura all’Assoluto, di un incontro con Dio come ambito di realizzazione personale. Questo nucleo – fides qua o fides fiducia – ha dinamiche molto soggettive e ben poco verbalizzabili. Ad esso è però collegata la manifestazione della potenza di Dio attiva nella storia , il tessuto concreto dei gesti divini nei quali Dio si manifesta come Salvatore in Gesù. È l’ambito della fides quae o fides notitia. Il contenuto della testimonianza si lega così ad una confessione cristologica, alla confessione di Gesù Signore e Salvatore.

Al riguardo alcune cose andrebbero chiarite. La prima riguarda ciò che indichiamo come “confessione di fede”: in nessun modo è equiparabile ad una informazione così come in nessun modo il testimone è equiparabile ad un sapiente. La testimonianza implica la presenza della informazione ma la trascende nella confessione di fede. Ma resta la domanda: che cosa si intende per “confessione di fede”? la questione va istuita con chiarezza per i suoi molteplici aspetti.

Il punto di partenza della critica moderna restano l’illuminismo e la critica storica che da una parte hanno distrutto la fiducia assoluta nella Parola, propria dei protestanti e, dall’altra, hanno messo in crisi l’atteggiamento cattolico di una fede poggiata sull’autorità come norma proxima fidei. Ne è venuta una situazione nuova. Da una parte si è giunti alla perdita del senso storico della fede: la Leben-Jesu Forschung, praticata in termini positivistici, ha trovato la sua formulazione più alta nel distacco bultmanniano tra rivelazione e kerygma che, raccogliendo la rivelazione attorno al suo carattere di evento (Dass), ha espresso un radicale disinteresse per il suo contenuto (Was). La gravità di questa frattura è evidente: la frattura tra kerygma e storia giustifica una frattura tra mondo/pensiero biblico e mondo/pensiero contemporaneo.

Per un altro verso l’illuminismo, risolvendo la verità nella sua evidenza razionale, ha reso inaccettabile l’abbandono fiducioso della persona all’autorità rivelante di quel Dio che non si inganna e non può ingannare. Ne è venuto un sequestro della verità ad esclusivo vantaggio della ragione: mettendone in crisi ragionevolezza e intelligibilità, ne ha messo in crisi il senso profondamente umano. Questo spiega il valore che papa Ratzinger attribuisce all’incontro tra fede cristiana e mondo ellenista e rende più chiaro il senso del suo famoso interventoa Regensburg e Parigi su una fede amica della ragione.

L’insieme di questi problemi spiega la fatica di comprendere il confessare la fede oggi e giustifica tutta una serie di tentativi di soluzione. Vale la pena di ricordare il cosiddetto Heidelberger Kreis dove un gruppo di giovani docenti cercherà di dare espressione teologica ai lavori biblici di G. von Rad; ne verrà il volumetto programmatico Rivelazione come storia [1961; ed. italiana: 1969] nel quale W. Pannenberg sostiene che l’irruzione di Dio nella storia umana corrisponde ad una sua automanifestazione che può essere solo indiretta e mediata dagli avvenimenti. La rivelazione non rimanda alla immediatezza della Parola ma a quella storia che é sotto gli occhi di tutti, é percepibile da tutti e solo così trova espressione nella Parola. È quanto Dei Verbum 2 ha accolto ed integrato in una visione più ampia quando insegna che «l’economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi». Vi è qui il criterio di una basilare conciliazione tra rivelazione/fede e storia.

La scelta teologica di Pannenberg abbandona la tradizione protestante della sola scriptura e, pur mantenendo la centralità della fede ne modifica il significato passando da fides fiducia a fides notitia. Questo recupero della storia mette al centro l’avvenimento: è l’evento a generare fiducia nella verità e non il contrario. Pannenberg evita così un esistenzialismo teologico fondato sul soggetto ma lascia aperto il tema della comprensione del senso ultimo della storia, cioè il tema ermeneutico; la sua visione della fine della storia anticipata in Gesù vorrebbe mantenerne la centralità ma rischia di esaurire Gesù nella globalità della storia invece di mantenerlo come il suo giudice.

Ma se Gesù non è una semplice anticipazione o prolessi della fine della storia resta pesantemente aperta la questione ermeneutica: come si passa dall’evento-Gesù alla fede e da questa alla storia? cosa signifca confessare una fede dal contenuto cristologico? ed in che modo il recupero del senso storico della fede non vanifica il suo significato paradossale sostituendo la sua fedeltà al mistero della croce con i criteri del successo e del potere? ed, alla fin fine, la fede rimanda ancora a ciò che la carne e il sangue non possono rivelare ma solo il Padre che è nei cieli o tutto si risolve in un solare razionalità?

Per il Vaticano II – Dei Verbum 5 – la fede é l’atto con cui una persona se totum Deo libere committit: la fede si radica nell’incontro vitale e personale con Gesù. È quanto insegna Deus caritas est 1: «all'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» e ribadisce Verbum Domini 11. Su questo sfondo personale e vitale si deve porre e custodire la dimensione conoscitiva della fede; poiché, in questa concezione, il problema di Dio é inseparabile da quello della persona umana, anche la comprensione di Dio sarà inseparabile dalla nostra utocomprensione: la fede spalanca la nostra vita ad una possibilità di senso solo in quanto la mantiene aperta ad una costitutiva relazione con il Padre di Gesù.

Per questo, nella fede, il Dio di Gesù e la sua vita diventano il contenuto, donato, della nostra. Vera della verità di Cristo, questa conoscenza di fede non é mai un sacrificium intellectus; nonostante una certa tradizione teologica attribuisca a Tertulliano l’effato credo quia absurdum, la Chiesa ha sempre ritenuto – con 2Tm 1,12 – di poter dire «io so a chi ho creduto e sono convinto che egli é capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi é stato affidato». Con la sua abituale acutezza e semplicità, Agostino dirà: nullus quippe credit aliquid nisi prius cogitaverit esse credendum (De praedestinatione sanctorum 2,5; PL 44,962). In quanto persona, il credente non può rinunciare alla sua ragione senza rischiare credulità facilona e superstizione.

Appare allora la necessità e la povertà della dottrina di fede, Mentre la fede è collegata ad un contesto vitale e spirituale, la dottrina della fede la coglie isolandola ed oggettivandola, come costringendola in asserzioni precise e limitate. Per questo si dovrà sempre ricordare quanto scriveva Tommaso quando insegnava che actus autem credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem (Summa Theologica, IIa IIae, q. 1, a. 2, ad secundum). Pensare e comunicare la fede impone il ricorso a confessioni, simboli e formule dottrinali ma il paradosso proprio della intelligenza della fede ci richiama la realtà inarrivabile del suo contenuto: la forma intellettuale e verbale di una confessione di fede va poi colmata nella sua eccedenza con un impegno vitale.

Questa tensione tra la fede e la sua espressione dottrinale permette di coglierne necessità e povertà. Sia qui permesso di ribadirne oggi la necessità. Sia permesso di ribadire la necessità di un intellectus fidei in un’epoca segnata da una sottile vena di anti-intellettualismo, da una certa diffidenza per il lavoro intellettuale; alla fatica del conoscere, si preferisce l’immediatezza del fare, l’evidenza della carità. Là dove la carità fosse sganciata dalla fede e dalla sua intelligenza, allora finirebbe per esaurirsi in semplice filantropia; se è vero che l’ortodossia senza una ortoprassi è del tutto povera, è altrettanto vero che la rilevanza sociale della fede senza il rispetto della sua struttura e della sua identità finisce per perdere il suo volto.

Una ulteriore distinzione dovrebbe distinguere tra la dimensione dottrinale della fede e la sua elaborazione in dottrine teologiche: mentre la fede ha un carattere dossologico confessante e testimoniale, la teologia ha una forte valenza conoscitivo-dottrinale che trova elaborazione nelle sue tesi. Poiché la teologia parte dalla fede e mira a far sì che la fede rimanga tale, l’asserto teologico ha il suo scopo nel servire la fede, cioè nel favorire il dispiegarsi intelligente del fondamento cristiano in una vita e nelle sue molteplici dimensioni. Questo dispiegarsi non è quasi mai di tipo logico e deduttivo, come avverrebbe se la teologia fosse una scienza delle conclusioni; é invece legato alla vita – cioè alla liturgia ed alla missione, alla catechesi ed alle eresie – e cioè al servizio che una intelligenza della fede svolge nel suo cammino. In questo ambito vitale la fede cresce come conoscenza e come linguaggio: si esprime in preghiere e con inni, in confessioni di fede e con esortazioni, in testi teologici e motivi giuridici e via dicendo. Tutto il popolo di Dio, nelle sue molteplici espressioni, è capace di teologia.

Poiché è lo Spirito di Cristo la forza che mantiene la Chiesa nella verità, J.A. Möhler – nel § 38 della Simbolica – dirà che «il divino non esiste senza l’umano» e che questo è «organo e manifestazione del divino». In effetti già Giovanni aveva insegnato che «l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca. Ma, come la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così voi rimanete in lui come essa vi ha istruito» (1Gv 2,27); in questa direzione Agostino parlerà dello Spirito come «maestro interiore», cioè come di Colui che aiuta ad anadare oltre le parole per comprenderne il significato profondo e vero mentre Tommaso parlerà di un habitus fidei tramite il quale «inclinatur mens hominis ad assentiendum his quae conveniunt rectae fidei et non aliis» (IIa IIae, q. 1, art. 4, ad tertium). Sarà poi Newman, nel lavoro Gli ariani del IV secolo, a conciliare queste affermazioni con la storia secolare della Chiesa.

Per questo Lumen Gentium 35 dirà che Cristo «continua a svolgere la sua funzione profetica fino alla sua gloriosa manifestazione non soltanto per mezzo della gerarchia che insegnain suo nome e con la sua potestà ma anche per mezzo dei laici che pertanto costituisce suoi testimoni». Se qui sembra presente una certa opposizione – o almeno diversità – tra gerarchia e laicato, più limpido è l’insegnamento di Lumen Gentium 12 quando richiama il sensus fidei di tutto il popolo di Dio; il concilio osserverà che «col senso della fede suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero cui si conforma fedelmente, accoglie non già una parola d’uomini ma realmente la parola di Dio, aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa una volta per tutte ai santi, vi penetra più a fondo con retto giudizio e la applica più pienamente alla vita».

Ne verrà una molteoplicità di forme comunicative e linguistiche. Al riguardo vale la pena di ricordare il lavoro di J.L. Austin, Come fare cose con le parole (Marietti, Genova 1974) che distingue tra formule constatative o descrittive e formule performative che, diversamente dalle prime. conducono l’affermazione al suo compimento. La fede non é pura constatazione ma non é nemmeno riconducibile al solo valore performativo per quanto il linguaggio performativo sia forse il più adatto a cogliere la tipicità delle affermazioni teologiche; il linguaggio teologico é promessa e giudizio, grazia e peccato, elezione e compimento... e queste affermazioni non sono autofondate ma illuminano quella certezza che é dono della fede.

Conclusione

Ponendosi all’interno della socialità storica della fede, la teologia attuale chiede che tenga conto dei profondi cambiamenti che investono il nostro tempo e che non sono senza conseguenze né sul concetto stesso di cultura né sulla necessità di una coerente testimonianza. Uno degli ultimi numeri di Concilium – 47(2011), n. 1 – ospita due contributi di R. Schreiter e di N. Hintersteiner che sviluppano la cultura in termini di dialogo inter-religioso e la testimonianza in una prospettiva di ripensamento della missione legato a questa temperie culturale. Costruire una chiesa ed una coerente teologia locale implica una presentazione della fede attenta alla secolare tradizione della Chiesa ed una testimonianza sensibile alla globalizzazione della cultura ed ai cammini di una ermeneutica interculturale.

Queste indicazioni portano a sottolineare una grande attenzione alla storia umana ed al suo significato ma non presta abbastanza attenzione al fatto che quella fede, che deve stare attenta alla storia, deve anche conoscerne i limiti e li conosce nella misura in cui – legata allo Spirito – mette al centro la coscienza della intoccabile dignità umana e, unitamente allo Spirito, ne fa il fondamento del suo cammino e della sua testimonianza. Forse una citazione di Mt 5,13-16 può chiudere bene questa nostra ricerca: «voi siete il sale della terra […[. Voi siete il sale del mondo […]. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

Domande

Il contesto della testimonianza.

In che cosa consiste la testimonianza cristiana: deve privilegiare l’identità cristiana o la sua rilevanza nel mondo d’oggi? l’ortodossia o l’ortoprassi? la verità o l’amore?

In che modo il testomone può affrontare i cambiamenti attuali? attraverso la continuità della tradizione o la novità di comportamenti diversi? tornando ad un passato di cristianità o guardando al futuro? privilegiando quanto si riceve dalla famiglia e dagli educatori o valorizzando le scoperte personali?

Quale è il ruolo della fede nella società d’oggi? deve limitarsi alla coscienza o è un fatto pubblico? i vescovi devono parlare e offrire indicazioni di comportamento? cosa significa e quale valore ha la laicità dello stato?

L’educazione della testimonianza.

La testimonianza è educabile o è una scelta assolutamente personale? al di là della coerenza/incoerenza, cosa significa credere? la famiglia, la scuola, la parrocchia sanno educare? dove stanno le difficoltà e le possibilità? il gruppo condiziona o sostiene il cammino dei giovani verso la loro maturità civile e cristiana?

Educatore o testimone?

Come deve essere un educatore? la scuola può e sa educare? l’insegnante di IRC svolge un compito educativo? in che modo?

Il dialogo deve sempre trovare una risposta e deve mettere tutti d’accordo? la diversità di opinioni educa alla tolleranza e alla democrazia o scivola verso contrapposizioni drastiche? quale spazio esiste nella Chiesa per la diversità di opinioni?

 

Ultima modifica il Giovedì, 09 Luglio 2015 15:22

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