Crisi India-Pakistan, le religioni al lavoro per la pace

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Il recente attentato nella regione contesa del Kashmir genera una nuova escalation della tensione bilaterale tra due potenze nucleari: i credenti promuovono un percorso di riconciliazione.

Non è più tempo di indugiare. O di lasciare che sia il terrorismo a dettare l’agenda politica, verso la pericolosa deriva di un confronto tra due nazioni che, parte dello stesso subcontinente e unite da medesime radici e cultura, sono oggi potenze nucleari che si guardano in cagnesco. La crisi sul confine tra India e Pakistan, riacutizzatasi dopo il sanguinoso attentato del 14 febbraio nell’area contesa dl Kashmir, che ha ucciso 44 poliziotti indiani, interroga i credenti, le comunità religiose, la società civile nelle due nazioni che, fino alla partition compiuta dall’Impero britannico nel 1947, erano un’unica entità condividendo origini, storia e culture millenarie.

Eppure quella dolorosa divisione che intendeva creare in Asia meridionale uno stato per gli indù (l’India) e uno per i musulmani (il Pakistan) ha lasciato scorie che tuttora, a settant’anni da quell’evento, si fa fatica a smaltire.

Punto dolente, da allora, è la regione contesa del Kashmir, al confine tra i due Stati, teatro di due guerre (nel 1948-49 e poi nel 1965) e di quella che gli osservatori definiscono una prolungata proxy war, ovvero una «guerra per procura» condotta, dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, da gruppi militanti islamisti che, con la complicità dei servizi segreti e degli apparati di sicurezza pakistani, sconfinano e portano scompiglio in territorio indiano. Proprio la stessa dinamica registrata nell’attentato di pochi giorni fa, rivendicato dal gruppo jihadista Jaish-e-Mohammed (JeM), già responsabile di un attacco alla base aerea di Pathankot che nel 2016 generò una escalation della tensione bilaterale.

Sta di fatto che da decenni i governi che si sono susseguiti a Delhi e Islamabad, spesso spinti da impeti nazionalistici, poco o nulla hanno fatto per trovare una soluzione definitiva e stipulare un accordo di pace per porre fine al travaglio della regione dove, negli ultimi trent’anni, si sono registrate, secondo fonti ufficiali 40mila vittime, in quello che può a ragione definirsi un conflitto a bassa intensità. Sospeso ma sempre aperto, pronto a degenerare pericolosamente in guerra vera e propria.

L’aggravante, in uno scenario già di per sé complesso, è costituita dall’abuso del fattore religioso che, nel corso degli anni, si è affiancato alle questioni politiche: da un altro l’islamismo militante che ha usato a mani basse il ricorso al nome di Dio per legittimare azioni terroristiche; dall’altro il nazionalismo indiano condito di religione, che ha usato l’ideologia dell’hindutva (“induità”, che predica l’India agli indù) per mantenere saldo il potere e usarlo in funzione anti-pakistana.

Da troppo tempo la questione si trascina con la conseguenza di farsi più ingarbugliata, lasciando sedimentare odi, pregiudizi e violenze: questa consapevolezza si fa strada nella società, rilevando la necessità di dare una sterzata alla storia del Kashmir e di restituire serenità e pace agli oltre 16 milioni di abitanti che, nel complesso, vivono in quel territorio. Per questo si è andata configurando tra i fedeli cristiani, i gruppi interreligiosi, i movimenti della società civile, al di qua e al di là della frontiera, una proposta politica, sociale e religiosa per un serio cammino di riconciliazione che, partendo dalla guarigione delle ferite del passato, rimetta al centro dell’agenda politica la questione della pace in Kashmir.

Su questo punto concordano i vescovi indiani e quelli pakistani. In una recente marcia per la pace organizzata da Lahore alla frontiera, la Commissione episcopale per il dialogo interreligioso in Pakistan, coordinata dal francescano Francis Nadeem, segretario esecutivo, ha rilanciato l’urgenza di riprendere in mano seriamente il nodo di un accordo di pace, per scongiurare ogni nuova conflittualità tra le sue potenze.

«Il Pakistan ha urgente bisogno di pace e di armonia e l’India non è da meno: una intesa pacifica sul Kashmir andrà a beneficio di tutti, soprattutto dei civili che soffrono in quella terra per sfollamento e paura di nuovi atti terroristici», spiega Nadeem a Vatican Insider.

D’altro canto a Delhi, attivisti e di tutte le religioni si mobilitano per far sì che un momento di dolore e di cordoglio nazionale non sfoci in sentimenti di vendetta che, sull’onda del populismo e del nazionalismo, portino ad atti di aperta belligeranza.

Per questo i vescovi hanno inviato un messaggio che mette l’accento sull’urgenza della preghiera, della pace e di «azioni ispirate dalla saggezza e dalla grazia di dio». Anche perché in India il governo del leader Narendra Modi, salito al potere da “uomo forte”, sta attraversando un periodo di difficoltà e di declino nel gradimento degli elettori e così potrebbe usare al crisi del Kashmir come carta per riguadagnare il consenso perduto, ponendo l’accento sui temi della sicurezza e dell’identità, rispetto al nemico da combattere. Tali questioni fanno facilmente presa sull’elettorato e giungono tempestivi in vista delle elezioni generali previste tra aprile e maggio.

Di nuovo il Kashmir al centro di un gioco politico e religioso, dunque? Il pericolo è reale: la società civile e le comunità religiose in India e in Pakistan vogliono evitare che il virus del fanatismo e dell’ideologia alimentino nuove divisioni e provochino nuove, immani sofferenze alla popolazione.

Ultima modifica il Domenica, 17 Febbraio 2019 23:07

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