Cile, la presa di coscienza di una Chiesa ferita

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La clamorosa decisione dei 34 vescovi di mettere nelle mani del Papa la loro rinuncia apre una fase di rinnovamento. Che sarà lunga e faticosa...

Mai nella storia della Chiesa era accaduto un fatto del genere: l’episcopato di un intero Paese che rimette nelle mani del Papa la rinuncia. Un gesto clamoroso e inedito, che rappresenta la prima riposta veramente adeguata alla drammaticità della situazione. Lo scandalo degli abusi sessuali sui minori, degli abusi di coscienza e di potere, le coperture e gli insabbiamenti, la pervicace incapacità di prendere coscienza di quanto accaduto e di quando discredito tutto ciò abbia rappresentato per la Chiesa, hanno reso necessaria questa decisione. 

Nel documento di dieci cartelle scritto dal Papa, che i 34 vescovi si sono visti consegnare al loro arrivo in Vaticano, Francesco non ha fatto l’inquisitore, non è andato a caccia di colpevoli come capri espiatori da sacrificare. È andato alla radice del problema, mostrando, con dati alla mano e grazie all’approfondita indagine condotta da monsignor Scicluna, quanto la malattia fosse strutturata e sistemica. Per questo ha potuto affermare che quanto è stato fatto fino ad oggi per riparare al male commesso «non è servito molto», forse perché si è voluto «voltare pagina troppo rapidamente» o perché «non si è avuto il coraggio di affrontare le responsabilità, le omissioni e specialmente le dinamiche che hanno permesso che le ferite si verificassero e si perpetuassero nel tempo». 

Francesco ha ricordato il passato glorioso, profetico, della Chiesa cilena, che negli anni Settanta ha difeso il popolo dalla dittatura alzando coraggiosamente la propria voce in favore dei più deboli. Poi qualcosa è accaduto, è cambiato il centro attorno a cui tutto ruotava. «La Chiesa stessa è diventata il centro dell’attenzione. Ha smesso di guardare e indicare il Signore, per guardarsi e occuparsi di sé stessa». In sostanza, tra le righe del documento papale si legge questa diagnosi: i pastori si sono staccati dal popolo, si sono avvicinati al potere, sono diventati una casta, con una «psicologia di elite», circoli chiusi con spiritualità narcisiste e autoritarie. Invece di evangelizzare, l’importante era sentirsi speciali, diversi dagli altri: «Messianismo, elitarismo, clericalismo sono tutti sinonimi di perversione nell’essere ecclesiale e anche sinonimo di perversione è la perdita della sana coscienza di saperci appartenenti al santo popolo fedele di Dio che ci precede». 

La malattia che ha colpito la Chiesa cilena, frutto di decenni di nomine selezionate secondo le regole di appartenenza a selezionati club e cordate ecclesiali, e ai loro referenti vaticani, non si guarisce con un colpo di spugna, un’operazione di maquillage, la dimissione di qualche vescovo. Chiede di andare più a fondo. Ci sono state coperture, i colpevoli di abusi sono stati allontanati da un ordine religioso per essere accolti altrove, in diocesi, dove sono stati messi ancora a contatto con i giovani. Le denunce delle vittime che coraggiosamente hanno rotto l’opprimente muro di silenzio che avvolgeva i crimini di padre Fernando Karadima sono state considerate «inverosimili», da vescovi, arcivescovi e cardinali, perché Karadima era un «santo» e un grande formatore di preti e vescovi. Le vittime sono state screditate, allontanate, rifiutate, definite «serpenti» negli scambi di lettere tra cardinali. Ed è stato impressionante leggere ciò che ancora alla vigilia dell’incontro con il Papa veniva altezzosamente dichiarato da qualcuno dei protagonisti, incapace di vedere, incapace di fare mea culpa. Quel mea culpa che, invece, ha fatto Francesco, chiedendo perdono per essersi sbagliato sul caso cileno. 

Con una Chiesa dove si sono verificati abusi di potere, dove ci sono state indebite pressioni su chi stava indagando perché tutto fosse insabbiato, dove si sono distrutti documenti per impedire che le inchieste proseguissero così da accertare la verità, Papa Francesco non ha usato il suo «potere». Non si è presentato come un angelo vendicatore, pronto a fulminare i colpevoli in forza del suo essere capo della Chiesa universale. Ha proposto ai 34 vescovi un ritiro spirituale, un percorso penitenziale. Li ha messi di fronte alle loro responsabilità, o meglio ha aperto loro gli occhi sullo stato in cui si trova la Chiesa del Cile. E nel giro di tre giorni l’episcopato cileno si è finalmente reso conto della situazione mettendo il Papa nella condizione di rinnovare. 

«Fratelli – ha scritto Francesco nel documento consegnato ai vescovi – non siamo qui perché siamo migliori degli altri. Come vi ho detto in Cile, siamo qui con la coscienza di essere peccatori perdonati o peccatori che vogliono essere perdonati, peccatori con apertura penitenziale». Non supereroi.  

Una Chiesa che guarda a sé stessa, che è preoccupata di sé stessa, del suo buon nome, che vive di sé stessa, del suo potere e dei suoi privilegi, e non sa essere vicina al popolo. Il caso del Cile diventa emblematico per altre Chiese, per altri episcopati, per altri Paesi del continente americano e di quello europeo. L’atteggiamento penitenziale, di chi non si mette sul piedistallo difendendo l’indifendibile, è un passo necessario in Cile e da ogni parte del mondo. Le ferite potranno essere sanate soltanto se la Chiesa cilena, oltre che mettere in atto le migliori pratiche per la tutela dei minori e perseguire in modo adeguato quanti si macchiano di questi delitti che distruggono l’anima, tornerà a centrarsi nuovamente al di fuori di sé stessa e del suo potere, tornando «a guardare e a indicare il Signore». 

Ultima modifica il Lunedì, 21 Maggio 2018 07:43

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