Nell’amicizia fra Cina e Italia cantata da Xi Jinping manca Matteo Ricci e la Rivoluzione culturale

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Il missionario gesuita di Macerata ha inaugurato un’era durata secoli che ha aiutato la Cina a modernizzarsi e uscire dall’isolamento. I missionari dell’800 – fra cui quelli del Pime – hanno portato in Cina medicina occidentale, ospedali, scuole per ragazze, nuove colture agricole, università. Perché Xi non va in Vaticano. Durante la Rivoluzione culturale i partiti italiani di sinistra hanno osannato Mao, nascondendo i suoi massacri e fallimenti. La fragilità di Xi Jinping, avversato in Cina dalle frange “di sinistra”.

È un vero e proprio canto d’amore per l’Italia quello che il presidente Xi Jinping esprime nell’intervista data oggi al Corriere della Sera, alla vigilia del suo viaggio che lo porterà a Roma, Monaco e in Francia. Ma nella lunga melopea di rapporti fra il nostro Paese e l’Impero di Mezzo stupisce il silenzio su Matteo Ricci e sulla Rivoluzione culturale.

Xi elenca i rapporti fra le due “antiche civiltà” citando Virgilio, Gan Ying, il Milione di Marco Polo, … Ma tace in modo assoluto sul gesuita italiano di Macerata che alla fine del XVI secolo, armato solo della sua cultura umanistica e religiosa è riuscito fino a presentarsi davanti all’imperatore, facendosi assumere come astronomo di corte. Egli ha inaugurato un’era durata secoli in cui i gesuiti – molti di essi italiani come Giulio Aleni, Martino Martini, Giuseppe Castiglione – hanno aiutato la Cina a riposizionarsi nel mondo di allora dopo l’isolamento voluto dalla dinastia Ming, aiutando l’impero a modernizzarsi nelle scienze, nell’agricoltura e perfino nell’arte della guerra.

Manca anche una citazione i missionari italiani dell’800 – fra cui quelli del Pime – che hanno portato in Cina la medicina occidentale, gli ospedali, le scuole per ragazze, nuove colture per saziare la fame dei cinesi, università. È vero: il via libera alla loro evangelizzazione è venuta dalle imposizioni dei poteri occidentali con i Trattati ineguali. Ma è anche vero che i missionari non si sono fermati a trastullarsi nelle concessioni territoriali straniere, ma hanno raggiunto i luoghi più abbandonati e impervi dell’impero per portare aiuti, cultura, solidarietà insieme alla fede. L’amore dei missionari verso i cinesi, più che verso le loro patrie d’origine è evidente in mons. Simeone Volonteri (1873-1904) del Pime, che insieme agli altri missionari italiani rifiutarono il “protettorato” dell’Italia. Dopo la rivolta nazionalista dei Boxer, rifiutarono anche il “bottino di guerra” garantito ad essi dalla vittoria dell’Italia, chiedendo di versarla per opere di beneficenza verso i cinesi [1]. Per la sua limpida testimonianza, mons. Volonteri riceve dall’imperatore il titolo di “Grande mandarino dell’Impero cinese”.

Il silenzio di Xi Jinping su questi fatti mostra una carenza di conoscenze storiche o – più probabile - una visione ideologica della storia. Da Mao in poi in Cina la religione e il cattolicesimo in particolare sono stati bollati come “servi dell’imperialismo”, solo per fare il verso all’Unione sovietica che aveva ingaggiato una furibonda guerra contro le religioni.

Questa visione ideologica – la religione fonte di tutti i possibili mali - è tuttora presente in Cina, sostenuta dall’ala più radicale del Partito, che si annida nel Fronte unito e nell’Amministrazione statale per gli affari religiosi. Quest’ala più radicale è nemica dell’accordo firmato da Vaticano e Cina e continua a opprimere vescovi, sacerdoti e fedeli con la sua ideologia di una “Chiesa indipendente”, anche se l’accordo ammette che il papa è il capo della Chiesa cattolica in Cina. Se Xi Jinping, venendo in Italia, non va in visita in Vaticano – come avviene per tutti i capi di Stato nel mondo – è solo perché non vuole essere “scavalcato a sinistra” da questa fronda ideologica, che usa la religione anche per combattere il suo presidente.

Lo stesso si può dire per il silenzio sulla Rivoluzione culturale (1966-1976). In quel periodo l’Italia e il partito comunista italiano sono divenuti i più grandi difensori dell’esperimento cinese di estremismo marxista. Politici, gruppi, manifestazioni in Italia osannavano la Cina e la sua rivoluzione come “il paradiso dei lavoratori”, il “luogo della giustizia”, e Mao Zedong come il dio benevolo che offre le sue perle di saggezza per far crescere il nuovo mondo. E invece, con la guerra civile da lui aizzata, Mao ha cercato di nascondere i fallimenti del Grande Balzo in avanti (che ha fatto circa 50 milioni di morti, quasi tutti per fame), eliminando i suoi nemici personali. In questo caso la miopia storica era anzitutto da parte dell’Italia e dei partiti di sinistra, che si sono pavoneggiati con le immagini luminose della rivoluzione, nascondendo sotto il tappeto il sangue e la polvere degli stessi cinesi. E non hanno mai fatto un “mea culpa”.

Ma in Cina, ancora adesso – e per volere di Xi Jinping – non si può studiare e giudicare questo periodo del “grande caos”: la “perestroika” è proibita per timore che essa porti allo stesso risultato dell’Urss: la caduta del Partito comunista cinese. Forse, la proibizione è anche dovuta al fatto che troppe cose in Cina – il controllo dei media, sulla dissidenza, sulle religioni, sul commercio con l’estero – hanno un’aria da Rivoluzione culturale.

In un assolo di violino i silenzi esaltano ancora di più i pieni della melodia. Nell’articolo di Xi, questi silenzi raccontano invece della debolezza della sua posizione, a metà fra un “canto delle sirene” - per spingere l’Italia alla partnership con Pechino, senza l’Unione europea - e un grido d’aiuto per sostenere la sua immagine, pericolosamente minacciata in patria dalle frange nemiche "di sinistra".

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[1] Cfr. GHEDDO P., Pime, 150 anni di missione (1850-2000), Bologna, 2000, pagg. 609-segg.

 

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