TRAGEDIA SOMALIA: UN PAESE NEL CAOS, Appunti di padre Piero Gheddo

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In Africa c’è un paese che per l’ONU esiste ancora, ma in realtà non esiste più da una ventina di anni: la Somalia, in passato colonia italiana e dal 1991, dopo la cacciata del dittatore Siad Barre che governava l paese con pugno di ferro, precipitata nel caos e in perenne guerra civile, nonostante tutti i tentativi di pacificazione, i patti firmati, anche gli interventi esterni dell’ONU per riportare la pace. Si passa da una guerra all’altra, la pace è solo un momento di tregua fra un conflitto e l’altro. Intanto la capitale Mogadiscio è ridotta ad un cumulo di macerie e i profughi dalla Somalia, su 10 milioni di abitanti, si calcolano un milione e mezzo all’interno del paese e circa un milione all’estero, molti dei quali arrivano poi in Italia.

Nel dicembre 2006 sono stato nell’estremo sud della Libia (a 900 chilometri da Tripoli) e ho visto arrivare i camion e i pullman sgangherati che fanno duemila chilometri di deserto per portare in salvo i profughi dalla Somalia, Etiopia, Eritrea, Sudan, Nigeria, Ciad…. Si calcola che tra questi profughi che affrontano il lungo viaggio nel deserto, circa il 10-15% muoiono nella traversata. Altri poi moriranno prima di sbarcare in Italia attraversando il Mare Mediterraneo!

Per la Somalia si sono usate le espressioni più apocalittiche: catastrofe umanitaria, guerra senza fine, l’inferno somalo, il fallimento totale della diplomazia mondiale, una pace impossibile nel paese delle Corti islamiche e via dicendo. Finora la Somalia è l’unico paese africano che ha perso la sua unità, letteralmente non esiste più come stato.

La tragica avventura della Somalia merita di essere raccontata, come caso espressivo e sìmbolico di un continente che non riesce a decollare verso la pace e lo sviluppo economico-sociale. Parlo della Somalia con grande tristezza perché ci sono stato due volte: la prima nell’estate 1978, invitato dai frati francescani lombardi per visitare le loro missioni; e la seconda con Ernesto Olivero, il fondatore del Sermig a Torino, durante la missione dell’ONU in Somalia (1993-1995), quando anche l’esercito italiano controllava un settore del paese e tutte le forze delle Nazioni Unite mantenevano il paese in una pace precaria, ma almeno la vita familiare e sociale aveva ripreso in modo abbastanza normale.

Questi due viaggi, di cui parlerò più avanti, mi hanno fatto amare il popolo somalo, un popolo fiero, orgoglioso delle proprie qualità e della bellezza fisica di uomini e donne che distingue questa razza di pastori e di nomadi della boscaglia e del deserto. Alti, magri, agili, eleganti anche quando sono vestiti di stracci (ma ci tengono a vestirsi bene), gli uomini e ancor più le donne sono tipi umani veramente esemplari, che non ci si stanca di ammirare per il loro sorriso aperto e contagioso, l’ospitalità cordiale, l’intelligenza vivace e arguta. I padri Francescani e le Missionarie della Consolata mi dicevano che i ragazzi e le ragazze somali riescono bene negli studi, specie in matematica e scienze. Anche la facilità di imparare le lingue è sorprendente. Tutti i somali che da giovani sono stati nelle case di italiani hanno imparato più o meno la nostra lingua, magari usando i verbi all’infinito.

Ma quel che più conta, il somalo dà la netta impressione di non avere complessi d’inferiorità, il che è positivo per la costruzione di un paese in pace e prospero. Perché allora è precipitato nel caos? Quali via d’uscita ci sono? La Somalia penso sia, per avverse traversie storiche, il paese più malmesso del continente africano e dimostra quanto sia difficile costruire lo stato moderno importato dalla colonizzazione, fra popoli che hanno tutt’altra cultura e mentalità.

 

Prima parte – Lo stato della Somalia è nato un secolo fa


Il paese Somalia è nato con l’occupazione italiana alla fine dell’Ottocento, prima esistevano tribù nomadi di pastori e alcuni sultanati, uno dei quali ha chiesto la protezione dell’Italia, che poi ha comperato la Somalia dal sultano di Zanzibar: dal 1889 protettorato e dal 1905 colonia italiana. Per la prima volta le molte etnie, cabile, clan che parlavano la lingua somala sono stati messe e tenute assieme in uno stato unitario: nasceva la Somalia che è stata colonizzata dall’Italia soprattutto attraverso nostri agricoltori che coltivavano agrumi, banane, pompelmi anche per l’esportazione. Lo stato italiano costruì le prime strade e le prime scuole, soprattutto diverse infrastrutture come porti, dighe, ponti, palazzi di governo e poi ospedali.

Nel 1941, durante la seconda guerra mondiale, l’Inghilterra occupa il paese e ne mantiene il controllo fino al novembre 1949, quando le Nazioni Unite affidano la Somalia in amministrazione fiduciaria all'Italia, col compito di prepararla all’indipendenza. Dieci anni di preparazione durante i quali è fondata l’Università di Mogadiscio, si preparano le forze armate nazionali e le forze di polizia formate dai Carabinieri. Il 1 luglio 1960, la Somalia Italiana raggiunge l'indipendenza. Per circa nove anni è retta da un governo abbastanza democratico, che rappresenta le varie etnie e “cabile” regionali, ma in realtà l’unico potere che univa tutto il paese erano le forze armate, guidate da giovani ufficiali che avevano studiato soprattutto in Italia e che erano formate, oltre che nelle tecniche militari, nell’ideologia marxista-leninista-rivoluzionaria che dominava nella cultura italiana del tempo.

Infatti nel 1969, guidate dal giovane colonnello Siad Barre (1919-1995), formato dai Carabinieri in Italia (parlava bene l’italiano), le forze armate con un colpo di stato rovesciano le istituzioni democratiche e instaurano la dittatura che si proclama “socialista”. Infatti stringe accordi con l’Urss e Cuba chiedendo il loro aiuto, quasi a per prendere un distacco dall’Italia, potenza colonizzatrice. Il socialismo somalo era fin dall’inizio quello “scientifico marxista-leninista” distampo sovietico, seguendo l’esempio del “socialismo islamico” egiziano di Nasser e di alcuni paesi del Medio Oriente di quel tempo, specie la Siria.

Un alto funzionario del governo somalo che ho intervistato nel 1978 mi ha detto: “Noi somali abbiamo preso dal marxismo molti elementi che giudichiamo essenziali per il nostro progresso come popolo. Noi non possiamo crescere lentamente com’è avvenuto in Europa e in Italia. Dobbiamo fare rapidi balzi in avanti e metterci rapidamente sulla via dello sviluppo e dell’unità nazionale. Dal marxismo-leninismo abbiamo preso: il concetto di eguaglianza e di giustizia sociale, il superamento di ogni divisione tribale, la mobilitazione delle masse popolari, il partito-guida, la pianificazione economica, un’ideologia anti-colonialista che ci rende sensibili ad ogni attentato alla nostra sovranità”.

Ma per capire la Somalia occorre spiegare come’è la sua popolazione. I somali parlano la stessa lingua e condividono la stessa cultura nomade e la stessa religione, l’islam. Essi formano in senso etnico-culturale un popolo, ma non hanno mai avuto una coesione così forte da poter realizzare uno stato unitario, una unità politica nazionale. Il popolo somalo è fondato non sul senso di appartenenza ad una nazione, ma su divisioni rappresentate dalla linee di discendenza familiare e dai clan; a queste divisioni si unisce la tendenza al cambiamento delle relazioni di alleanza tra i clan che portano a liti e guerriglie, avvicinamento o allontanamento reciproco dei vari gruppi o sottogruppi, a seconda dall’interesse del momento o della situazione politica.

In un tale contesto, era ed è molto difficile realizzare nel paese una mentalità e una prassi democratica come si è formata in Europa. Per cui i tentativi fatti dall’Italia nel suo periodo di protettorato, e poi dal governo indipendente basato sul sistema politico e i partiti politici italiani, non poteva funzionare. E non ha funzionato nemmeno dopo che nel 1991 è stato abbattuto il dittatore Siad Barre, che manteneva l’unità del paese con la forza delle armi e la repressione violenta di ogni opposizione. Poi si è tornati alle antiche divisioni e lotte, non con lance e spade, ma con le moderne armi di distruzione.

Questa è la situazione dell’Africa nera, tormentata da lotte tribali, guerre e guerriglie, dittature e colpi di stato, governi cosiddetti democratici, che mantengono le istituzioni politiche ereditate dalla colonizzazione, ma che sono ancora legati ad un concetto di bene pubblico e di politica diverso da quello che abbiamo nei paesi dell’Europa comunitaria e del Nord America.

Il dramma recente della Somalia, come di molti altri paesi dell’Africa nera, è stato la tentazione della scorciatoia propria dei sistemi rivoluzionari-comunisti: cioè la rivoluzione violenta e la dittatura comunista per creare l’unità del popolo, superando le divisioni claniche e coltivando l’ideale del nazionalismo e della giustizia sociale, superando d’un balzo l’ostacolo storico-culturale che si opponeva e si oppone all’affermazione di uno stato unitario moderno.

In altre parole, il nazionalismo pan-somalo promosso da Siad Barre univa i vari clan contro il nemico esterno, il colonialismo, ma non li educava alla democrazia e a tutti quei valori condivisi che fondano lo stato moderno: concetto di bene pubblico, uguaglianza di tutti di fronte alla legge, libertà di parola e di religione, ecc. Per cui, finita con un colpo di stato la dittatura di Siad Barre, durata trent’anni, si è ritornati alla situazione precedente: la fedeltà alle appartenenze tribali e claniche. Siad Barre ha tentato di sostituire la fedeltà al proprio clan con uno spirito anticolonialistico e l’ideologia marxista-leninista-rivoluzionaria, ma il tentativo è fallito.

Il regime totalitario ha funzionato discretamente negli anni Settanta, in seguito è decaduto per la corruzione interna e la militarizzazione del paese non più sopportata dai clan che dominavano con loro forze armate le varie regioni. Siad Barre è stato spodestato proprio da quei “movimenti di resistenza” che lui stesso esaltava contro il colonialismo. Nel 1991 i clan tribali di Mogadiscio e attorno alla città si alleano e conquistano il potere facendo fuggire il dittatore, morto nel 1995 a Lagos in Nigeria.

 I somali non hanno mai avuto autentiche tradizioni di governo centralizzato. In passato, con tribù nomadi che si spostavano alla ricerca di pascoli, di acque, di terre coltivabili, un governo centralizzato era impensabile, impossibile. La Somalia è una creazione della colonizzazione italiana e fin che c’era un’autorità esterna che governava con la forza ma in modo abbastanza imparziale sulle varie etnie e sui vari clan, ma anche con l’introduzione di strade, scuole, agricoltura moderna, giustizia, mercati, la vita andava avanti nel modo tradizionale, ma anche prendendo coscienza delle novità di un mondo che stava cambiando rapidamente. Scomparso il potere coloniale, c’è stata la dittatura e poi il ritorno ai costumi tradizionali.

Nella società somala attuale i valori della cultura tradizionale resistono tuttora e per la maggioranza dei somali la lealtà verso il proprio gruppo etnico prevale su qualunque altra. Mentre le autorità formali dello stato somalo crollavano, i capi tradizionali e gli anziani hanno visto rinascere e rafforzarsi la loro autorità. Hanno così promosso la formazione di bande armate, che promuovono armistizi tra fazioni armate, controllano il rispetto delle tregue, organizzano la protezione di gruppi minoritari o più deboli. Il problema di come conciliare il formidabile sentimento di identità e di autosufficienza dei gruppi tribali con una concezione nazionale unitaria, è stato e resta cruciale e fondamentale per il futuro del popolo somalo. Lo stesso problema, ripeto, vale in genere per tutta l’Africa nera.

 

Seconda parte – La dittatura di Siad Barre e l’intervento dell’ONU

(1969 – 1991 – 1993)

Nel 1978 sono andato in Somalia la prima volta. Ho un ricordo molto vivo di quel mese passato con i Francescani e le Missionarie della Consolata, che erano le uniche presenze della Chiesa cattolica nel paese, quasi totalmente islamico; con loro diversi volontari di organismi non governativi italiani che ancora operano in Somalia. I padri assistevano i cattolici stranieri presenti nel paese, che erano numerosi, specie gli italiani nella capitale Mogadiscio e nelle varie cittadine e colonie agricole dell’interno. Nel 1978 si calcolavano a circa 1.500 i cattolici stranieri, di cui un migliaio italiani, ma esclusi i funzionari governativi italiani, gli insegnanti dell’Università italiana (in collaborazione con varie Università d’Italia) e i dipendenti di molte ditte e commerci che lavoravano in Somalia, perché non erano residenti nel paese.

I Francescani assistevano questi cattolici, ma avevano anche impegni culturali e religiosi verso la popolazione somala: ad esempio, l’incontro e il dialogo con i capi islamici, l’insegnamento in alcune scuole superiori, la cura della più importante biblioteca e archivio della Somalia. Ricordo il padre Venanzio, incaricato di questa istituzione che occupava tutto un piano di una delle due residenza dei Francescani dietro alla Cattedrale. Mi diceva: “In tutta la Somalia non esiste altra biblioteca e archivio che abbia i nostri libri e documenti su questo paese, non solo ma tutti i bollettini del governo coloniale italiano e dei vari governi venuti dopo l’indipendenza. Abbiamo anche comperato, da italiani che tornavano in Italia, collezioni di lettere preziose del passato, ad esempio di Italo Balbo e di altri governatori italiani della Somalia e poi una collezione dei giornali e dei libri stampati in Somalia. Gli studenti dell’Università che fanno tesi sul loro paese, vengono qui a studiare. Anche i politici e i funzionari governativi, che vogliono conoscere le leggi e i regolamenti emanati dai vari governi somali, debbono venire in quest’unica biblioteca e archivio della Somalia!”.

Bisogna anche dire che con la rivoluzione e il colpo di stato del 1991, che ha distrutto fra l’altro la Cattedrale e le abitazioni dei Francescani, tutto è andato perduto! In Somalia oggi il problema numero uno per tutti è la sopravvivenza, non certo la biblioteca e l’archivio. All’inizio degli anni Novanta ho incontrato a Milao padre Venanzio. Ricordando il suo archivio e e la sua biblioteca, messi assieme con tanto amore e anche notevoli spese, piangeva.

Ricordo alcune belle figure di missionari. Il vescovo mons. Salvatore Colombo, che mi ha scarrozzato in tutto il paese, fino ad Afgoi, Merca e Chisimaio e poi il Villaggio Duca degli Abruzzi (oggi si chiama Johar). Ricordo bene anche padre Pietro Turati, bresciano che era parroco a Chisimaio, la seconda città della Somalia, che mi aveva portato fino all’isola di Gelib (Jilib) lungo il basso corso del fiume Giba, l’isola dei lebbrosi con quattro missionarie della Consolata. In quell’isola, fin dai tempi della colonizzazione italiana, venivano portati i lebbrosi da tutta la Somalia e le suore vivevano in villaggi di lebbrosi, visitandoli e curandoli nelle loro case e portando i più gravi al loro ospedaletto.

Questi due missionari, mons. Salvatore Colombo e padre Pietro Turati, sono poi stati uccisi il primo nel 1989 e il secondo nel 1991 da estremisti islamici, prima ancora che tutti i missionari francescani lombardi dovessero abbandonare la Somalia. Assieme ai padri c’erano le Missionarie della Consolata di Torino. Anche di loro ho un bellissimo e commovente ricordo. Fra l’altro mi avevano portato nell’ospedale Benadir, dono della Repubblica popolare cinese, dove lavoravano come infermiere con i dottori cinesi, che chiedevano al governo somalo altre infermiere come quelle, anche per educare le ragazze somale.

Nell’ottobre 1972 Siad Barre aveva nazionalizzato tutte le opere della missione cattolica, soprattutto scuole e ospedali. A quel tempo c’erano in Somalia 23 padri Francescani e 98 missionarie della Consolata. La Chiesa aveva 12 stazioni missionarie, 19 chiese o cappelle, scuole inferiori e superiori con 3.000 alunni, le migliori del paese, un ospedale, un lebbrosario, una decina di dispensari medici oltre a pensionati per studenti e una “casa del povero” che a Mogadiscio assisteva centinaia di derelitti.

Quando sono stato in Somalia nel 1978, il paese, sotto la dittatura di Siad Barre, era in pace, ma bloccato nello sviluppo e nella maturazione democratica. Qualsiasi opposizione veniva stroncata con la forza. Ma la vita normale scorreva tranquilla secondo i ritmi tradizionali. L’unico sentimento forte che si notava nella popolazione era quello nazionalistico. Siad Barre aveva rafforzato l’uso della lingua somala stampando libri e giornali e soprattutto organizzando manifestazioni patriottiche, sfilate militari, l’alfabetizzazione delle popolazioni rurali, l’apertura di nuove strade. La lingua italiana era ancora insegnata e usata da molti, soprattutto all’università e c’era un giornale italiano e scuole di italiano, promosse dall’Ambasciata del nostro paese.

Le suore avevano creato le scuole per le donne e per le ragazze, che poi il governo rivoluzionario continuava, ancora con l’aiuto delle suore e di un volontaria italiana, Luciana Semprini, romana, che era in Somalia con le suore da 22 anni e che il governo aveva nominato ispettrice nazionale delle scuole per le donne.

Mons. Colombo mi aveva portato a Merca a vedere Annalena Tonelli, che aveva un dispensario medico sempre affollato di ammalati. Uscendo da quella visita il vescovo mi diceva: “Vedi, questa volontaria laica che vive con i somali ed è ammirata e amata da tutti per la sua bontà e generosità, per presentare l’immagine del cristianesimo ai musulmani vale certamente molti missionari”.

Ricordo un lungo discorso con mons. Salvatore Colombo. Mi diceva che Siad Barre era certamente un dittatore, che usava metodi violenti contro gli oppositori. Però, diceva, “è riuscito a creare un sentimento nazionalistico ed a mantenere unito il paese e le varie etnie e cabile. Senza di lui temo che la Somalia cadrebbe nella guerra civile e nel caos”. Purtroppo è stato buon profeta!

 

Terza parte – Com’è oggi la Somalia e quando troverà la pace?

 

La Somalia oggi non fa più notizia! Si parla solo dei profughi somali che scappano dal loro paese e spesso arrivano in Italia in barca, come immigrati clandestini, sperando di ricevere il visto come rifugiati politici; e poi delle varie fasi di battaglie, guerriglie, attentati.

Sono ancora stato in Somalia nel febbraio 1994, durante la missione dell’ONU “Restore Hope”, a cui partecipava anche l’Italia, partendo su un Hercules militare dall’aeroporto di Pisa e giungendo a Mogadiscio dopo diverse fermate in Egitto e a Gibuti. Accompagnavo Ernesto Olivero che aveva ottenuto dal governo italiano di trasportare gli aiuti per il popolo somalo raccolti dalla sua organizzazione: medicine, quaderni di scuola, attrezzi di falegnameria e meccanica, varie attrezzature richieste dai militari per il popolo somalo, persino palloni di calcio, magliette e scarpe per varie squadre, perché i militari italiani avevano organizzato un campionato nazionale di calcio che otteneva grandi successi. I militari stessi portavano le squadre agli incontri, quando erano lontani.

Intanto la Somalia, dopo la scomparsa di Siad Barre nel 1991, si è divisa in tre parti. Nel 1992 si è dichiarata indipendente la ex-Somalia britannica con capitale Berbera e nel 1998 il Puntland (capitale Bosaso), lo stato nato nella regione del Nord-Est, molto lontana da Mogadiscio (l’antica Migiurtinia). La Somalia, compresa quella ex-britannica (Somaliland), è estesa come due volte l‘Italia, con circa 10 milioni di abitanti e un altissimo tasso di crescita demografica (3,2%), che compensa le fughe di centinaia di milioni di profughi nei paesi africani vicini (specie il Kenya) e in Europa, cioè in Italia.

Il viaggio del 1994 mi ha mostrato una Somalia distrutta. Erano bastati due anni di anarchia (1991-1993) per distruggere quel che si era costruito in decenni. Infatti, il fatto peggiore nelle guerriglie africane, che ho notato in molti paesi, è il cosiddetto “looting”, vocabolo inglese che significa saccheggio. Quando non c’è più lo stato, la forza pubblica, la vita ordinata e normale, si scatenano gli egoismi personali, familiari, tribali e tutte le abitazioni o uffici chiusi, non difesi da nessuno, vengono saccheggiati.

Nel viaggio in Somalia del 1994 un capo della Polizia somala mi diceva: “Quello che ha distrutto di più il paese è stato ed è ancora il saccheggio. Le opere pubbliche, scuole, palazzi governativi e altro; le fabbriche, le case abbandonate non appartengono a nessuno. Tutti prendono quello che possono sicuri dell’impunità. A Mogadiscio esistevano buone fabbriche, concerie, stabilimenti tessili, carne in scatola, falegnamerie, produzione di scarpe, tipografie. Non esiste più nulla. Adesso, con i militari dell’Onu, si sta cercando di ricostruire e ricominciare una vita normale, ma se domani andranno via sarà ancora guerra civile e caos”.

Chiedevo a questo capo della Polizia che parlava bene italiano come mai i somali da soli, non riescono a costruirsi uno stato. Rispondeva: “Voi avete una storia alle spalle, noi siamo nomadi e l’esperienza comune in campagna è che ciascun clan pensa a se stesso e se può rapina gli altri. Non c’è stata educazione e possibilità di crescere nelle strutture di uno stato democratico. Oggi, anche in città, ciascuno pensa a se stesso e alla sua famiglia e al suo clan e se può rapina l’altro. Inoltre, i nostri giovani non hanno lavoro, tutto quello che sanno fare è sparare e rapinare. Chi è abituato a vivere di rapina, non vuol più tornare indietro”.

Nel 1978 Mogadiscio era una bella città tutta bianca, povera ma ridente e ben ordinata sulla riva dell’Oceano Indiano. Nel 1994 ho trovato una città distrutta, avevano fatto saltare con la dinamite la torre di destra della Cattedrale. Oggi sicuramente è peggio. Nel 1994 ho visitato il luogo dove c’era la parrocchia del Sacro Cuore (dove abitava l’attuale vescovo della Somalia, il francescano padre Giorgio Bertin) e poi la Cattedrale, con le case vicine dei Francescani e delle Missionarie della Consolata: tutto semi distrutto dai bombardamenti e mitragliamenti. Ho visitato la Cattedrale cattolica e la grande chiesa scoperchiata dalle bombe con le tombe dei vescovi, violate forse per trovare qualche tesoro come si vociferava.

Ma anche fuori Mogadiscio, nel comprensorio di Genale poco lontano da Merca, nel 1978 ci eravamo fermati ad una residenza di italiani, i signori Bassi, proprietari di una fiorente azienda agricola che produceva ed esportava navi di banane e di pompelmi rosa dolcissimi. Della grande casa dei proprietari, dove avevo pranzato nel 1978, esistevano solo più i muri laterali. Portati via anche i servizi igienici, le mattonelle dei pavimenti, le lastre di marmo dell’entrata e delle scale.

Così, al Villaggio Duca degli Abruzzi (che oggi si chiama Johar), ho visitato il cimitero gli italiani e la Villa-Museo di Luigi di Savoia (fondatore del Villaggio), in passato meta di turisti italiani, che avevo anch’io visto col vescovo mons. Salvatore Colombo. Era una pena, la casa ampia a due piani aveva ancora i muri laterali ma all’interno erano scomparsi tutti gli oggetti del Museo della colonizzazione italiana, e poi le mattonelle dei pavimenti e tutto il resto. E’ la mentalità tradizionale che manca del senso dello Stato e del bene pubblico.

La missione dell’ONU “Restore Hope” (Ridare speranza) incomincia nel marzo 1992 con le forze armate pakistane e dura fino al febbraio 1996, con l’intervento militare di una decina di paesi fra i quali l’Italia.

L’UNOSOM “Restore Hope” è riuscita, in quel periodo a riportare la pace, provvisoria ma reale. Le scuole erano aperte con intervento anche dell’Unesco, i mercati pieni di cibo e di ogni ben di Dio, le strade libere e quasi sicure, con elicotteri che monitoravano dall’alto le principali vie di comunicazione e intervenivano o facevano intervenire se c’erano conflitti o rapine in atto. I contingenti militari dell’Onu preparavano la polizia somala: in assenza di uno stato era l’unica forza che poteva mantenere il paese nella situazione di pace, in attesa che le forze politiche si manifestassero e potessero creare le strutture statali.

Nel febbraio 1994, il comandante del contingente italiano in Somalia, generale Carmine Fiore, mi diceva: “Abbiamo trovato uno stato di guerra civile scoraggiante, possiamo dire che oggi siamo in una situazione di pace, la gente è contenta e ci incoraggia a rimanere”.

Il cappellano militare capo, mons. Renato Chiapparelli prete diocesano di Piacenza, mi diceva: “Quando sono venuto in Somalia come cappellano militare ero un po’ in crisi. In Italia i giovani sono distratti, ti pare di fare un lavoro inutile. Qui è tutto diverso, ho ritrovato l’entusiasmo dei primi anni di sacerdozio perché i ragazzi si pongono i problemi fondamentali della vita, hanno tempo e modo di pensare, di discutere, di pregare. E poi, il lavoro umanitario per i poveri è una potente medicina per lo spirito: mantengono la pace, ma il loro impegno quotidiano è l’aiuto ai poveri, ai bambini, alle scuole, alle famiglie. Questo li matura anche sul piano religioso. All’inizio parecchi militari di leva venivano da me a piangere di nostalgia, sognavano la famiglia, la mamma, la ragazza. Poi hanno prevalso le motivazioni ideali del perché sono qui, cioè aiutare il popolo somalo a creare le condizioni per la pace”. Ma era un’illusione pensare che in pochi anni si potesse educare un popolo al senso dello stato e del bene pubblico e dare il potere ad una qualsiasi autorità locale che avesse l’onestà e la forza di educare il popolo e fargli rispettare le leggi.

La missione dell’Onu è poi terminata nel febbraio 1996 per il ritiro degli Stati Uniti che avevano avuto molti morti e anche gli altri paesi partecipanti, Italia compresa, non volevano continuare un impegno che da provvisorio rischiava di diventare definitivo.

Dal 1996 ad oggi la situazione è continuamente peggiorata. Il paese è tornato indietro di decenni. Oggi, raccontano i profughi o i rari operatori volontari e giornalisti che vanno in Somalia, non ci sono più strutture pubbliche. Esistono solo le scuole coraniche e alcune private che costano molto, ci sono famiglie che si mettono assieme per pagare un maestro. La giustizia è amministrata dai clan o dai tribunali islamici. Nessun ospedale governativo, alcuni di organismi volontari stranieri e poi piccole cliniche private che singoli medici hanno aperto, molto costose.

La Somalia sta rapidamente tornando alla situazione che c’era prima della colonizzazione, la pastorizia, il nomadismo, il piccolo commercio e le lotte fra i vari clan.

La crisi della Somalia sta assumendo proporzioni estremamente preoccupanti perché si teme che possa diventare una base per la formazione di guerriglieri e kamikaze islamici. Nel paese si sta consumando la tragedia della guerra per bande tra i vari “signori della guerra” che controllano zone rurali o della città di Mogadiscio.

Si è arrivati a tanto - non bisogna dimenticarlo - malgrado 17 anni di tentativi di conciliazione che la comunità internazionale, Italia inclusa, ha sollecitato e lautamente finanziato. Ci sono stati 13 tentativi di dar vita ad un processo di pace, tutti andati a vuoto. Alla fine del 2004, al 14° tentativo, lo svolta. I vari signori della guerra riescono a dare vita ad un Parlamento, ad eleggere un presidente e un governo di transizione, con l’accordo di indire libere elezioni nel 2009. Il governo di transizione si trasferisce dal Kenya, dov’era stato costituito, a Baidoa (confini con l’Etiopia), primo passo per il rientro nella capitale Mogadiscio. La pacificazione sembrava vicina. Invece, all’inizio del 2006 Mogadiscio s’infiamma di nuovo. Si combatte per le strade e le Corti islamiche, radicate nel paese, prendono il controllo della capitale. Inizia un periodo di relativa pace, ma il governo di Baidoa e le Corti islamiche non vanno d’accordo e si combatte di nuovo.

Nell’estate 2007 uno degli ultimi tentativi di composizione del conflitto: la Conferenza di riconciliazione organizzata nell’estate 2007 a Mogadiscio finisce anch'essa in un fallimento. L’Unione Africana si è assunta l'incarico di porre fine alla guerra somala chiedendo e ottenendo dalle Nazioni Unite l'autorizzazione e i mezzi per inviare una missione di pace. Il 21 febbraio 2007, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu autorizza il dispiegamento di 8.000 «caschi verdi» per un primo periodo di sei mesi. Nigeria, Uganda, Malawi e Burundi avevano promesso di partecipare alla Amisom - questo l'acronimo della missione - garantendo circa la metà degli 8.000 militari richiesti, ma da allora solo l'Uganda ha mantenuto la parola, fornendo un contingente di 1.500 unità, del tutto inadeguato a far fronte alla situazione.

Nel 2008 le varie espressioni del popolo somalo sono a Gibuti, ove il 9 giugno firmano un accordo che chiede il ritiro delle truppe etiopiche e l’apertura di corridoi umanitari per l’aiuto sicuro e l’assistenza a tutti i somali. Ma nei mesi seguenti la situazione non cambia. Così va avanti il conflitto fra il governo di Baidoa, riconosciuto dall’Onu e da vari paesi, e le Corti islamiche a Mogadiscio, con i capi clanici (signori della guerra) che appoggiano l’uno o l’altro dei contendenti.

L’11 giugno 2008, il vescovo di Gibuti e di Mogadiscio, mons. Giorgio Bertin, in un’intervista alla Radio Vaticana ha detto che occorre pregare per la pace, aiutare i somali e nutrire la speranza che si giungerà ad una accordo rispettato da tutti.

 

Le Missionarie della Consolata in Somalia e il martirio di suor Leonella

La Somalia è un paese totalmente musulmano, ma la Chiesa cattolica è presente dalla fine dell’Ottocento, quando i primi missionari si occupavano già di opere di promozione umana e di aiuti ai più poveri. Durante la colonizzazione italiana i missionari assicuravano l’assistenza religiosa ai molti italiani che c’erano in Somalia, ma la loro presenza è continuata anche dopo il 1960. Tant’è vero che nel 1980 nasce la “Caritas Somalia” per assistere i profughi dalla guerra dell’Ogaden, finanziata dalla Caritas italiana e vengono in Somalia diversi volontari italiani per le opere di assistenza sanitaria ed educativa.

L’inizio dell’intolleranza religiosa risale al 1989, quando una banda di estremisti islamici uccidono il vescovo mons. Salvatore Colombo. Nel 1991 uccidono anche il padre Pietro Turati e le minacce a preti e suore sono così frequenti che tutti i padri francescani e molte missionarie della Consolata debbono ritornare in Italia. Rimangono cinque suore infermiere, da molti anni in Somalia, con l’ospedale dell’organizzazione austriaca SOS Kinderdorf, l’unico ospedale gratuito, specializzato nella cura dei bambini e delle donne.

L’ospedale ha 96 letti nel reparto pediatrico, 40 nella maternità e ginecologia, vari laboratori e dispensari medici, un villaggio che ospita 200 bambini orfani, una scuola primaria di 450 alunni e una materna con 120 bambini. Qui lavoravano le Missionarie della Consolata, che dopo l’uccisione di una di loro, suor Leonella Sgorbati nel settembre 2006, hanno dovuto ritirarsi a Nairobi, in attesa di poter ritornare al loro ospedale.

Suor Marzia Ferrua racconta, in un’intervista a Emanuela Citterio1: “Abbiamo passato tanti momenti difficili. Una volta, nel 1991, hanno cominciato a bombardare alle due del mattino fino alle cinque. Ci siamo accovacciate nel corridoio, vicine le une alle altre. Un proiettile ha attraversato tutte le stanze perforando cinque pareti. A un tratto è entrata una bomba, abbiamo sentito una forte esplosione in una delle stanze. C’era un armadio molto pesante contro il quale la bomba ha esaurito la sua spinta, altrimenti saremmo morte tutte. Ma nemmeno allora ci è venuta la voglia di lasciare la Somalia. C’è stato un periodo nel 1992 nel quale siamo state completamente isolate sotto i bombardamenti. Non avevamo contatti con il mondo fuori della Somalia, né con la Chiesa né con il nostro Istituto. Eravamo le uniche religiose rimaste con l’Eucarestia: la Chiesa della Somalia eravamo solo noi…. Dopo l’uccisione di suor Leonella lo spazio di fronte all’ospedale si è riempito di gente, tutti in piedi con gli occhi bassi, c’era solo una sofferenza palpabile, molti pregavano. Suor Leonella è morta mentre le tenevo la mano e le sue ultime parole sono state: “perdono, perdono, perdono….”. Anche a mesi di distanza, quando a Nairobi incontriamo dei somali, la prima cosa che fanno è chiedere scusa per ciò che è successo. Sono frange estremiste a compiere queste azioni. Nella gente comune abbiamo incontrato solo un grande dolore”.

Alla domanda se non hanno paura di andare in un posto simile, suor Maria Bernarda Roncacci dice: “Noi abbiamo già donato la nostra vita, lo abbiamo fatto quando abbiamo deciso di diventare missionari, abbiamo dato la nostra vita a Dio e al popolo fra cui siamo. Gli altri missionari per testimoniare Cristo hanno la vita e la parola. Noi non abbiamo la parola, solo la vita. Solo quello che facciamo, la nostra capacità di amare le persone che incontriamo è la nostra testimonianza”.

 

1 “Avvenire”, 26 aprile 2007.

 

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