5 limiti antropologici del concetto di omogenitorialità

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«Le grandi strategie gender preparano il terreno enfatizzando il termine genitore, con tutti i suoi correlati semantici, a discapito di parole più semplici e “tradizionali”: padre e madre. Nell’ufficialità “scientifica” e “progressista” di parecchi documenti europei, sono termini che paiono in via di dismissione», dice Giancarlo Ricci in “Sessualità e politica. Viaggio nell’arcipelago gender” (Sugarco editore).

Nel volume Ricci evidenzia con molta schiettezza alcuni limiti antropologici del concetto di “omogenitorialità“, tanto sbandierato dal mondo Lgbt.

1) NON PIU’ MADRE E PADRE MA “GENITORI”

Con questa nuova parola il gioco di prestigio vorrebbe evidenziare una nuova possibilità genitoriale (quella gay) per nascondere il fatto che tale innovazione implica e mette in questione il processo di filiazione. Insomma non importano più padre e madre ma che qualcuno «abbia le competenze» della genitorialità. È come un esperimento in laboratorio: se riduciamo (snaturandola) la funzione di padre e di madre, e la assimiliamo, concentrandola, nell’idea di «funzione genitoriale», possiamo poi affermare che, qualora esista questa funzione, essa sia identica a quella svolta da un padre e da una madre. E così conseguentemente abbiamo dimostrato che anche una coppia gay può avere ed educare figli. E dunque che possono esistere le famiglie gay.

2) “AVERE” UN BAMBINO

Il bambino non è più da «fare» in quella faccenda che da sempre tra uomo e donna si chiama sessualità, rapporto sessuale, amoreggiamento, passione, amore. Ormai il bambino si tratta di averlo (per via di adozione o tramite eterologa). Si impone una precisazione clinica: se un bambino è abbinato strettamente al verbo avere — ossia a una logica binaria di assenza/presenza — molto probabilmente il desiderio di averlo è strutturato dalla fantasia di prenderlo da qualcun’altra o da qualcun altro.Come se il desiderio del o dei genitori di avere un figlio coincidesse con l’ottenere un oggetto di cui sono mancanti.

3) L’ESCAMOTAGE DEL “DIRITTO”

Il diritto tra due persone omosessuali di fare i genitori comporta logicamente che il figlio provenga da altrove, da un elemento esterno al legame. Tutto ciò viene chiamato un diritto, ossia il diritto di poter avere o adottare figli. Ciò che questo diritto con una mano mostra, con l’altra sottrae: nulla o poco vien detto sul diritto del nascituro, sul suo diritto a nascere uguale agli altri, sul suo diritto di avere un padre e una madre, sul suo diritto di essere inscritto in una genealogia e in una discendenza.

4) LIMITAZIONI ALLA SOGGETTIVITA’

Più che di spossessamento della soggettività ci sembra siano in gioco pesanti limitazioni alla soggettività. In primo luogo il nascituro giunge alla vita, rispetto agli altri, in una condizione di disuguaglianza (simbolica, reale e immaginaria); in secondo luogo gli viene ripetuto che la sua vicenda è del tutto normale e naturale mentre de facto e de iure non lo è; in terzo luogo vengono minimizzate o sottaciute le ulteriori difficoltà relative al processo di sessuazione ossia quel processo psichico di acquisizione dell’identità sessuale.

5) DOMANDE SENZA RISPOSTA

In questo contesto si scalfisce il mito delle origini, la legittima interrogazione sul “da dove vengo” e “da quale filiazione provengo”: il tema dell’identità e dei rapporti di parentela. Le implicazioni di questi interrogativi riguardano, come del resto per ciascun soggetto, la sessuazione, l’adolescenza, il diventare uomo o donna. E ancora: in quale filiazione trovarsi inscritto, in quale discendenza, in quale trasmissione. Proseguiamo: da dove viene il nome che porto, quel nome unico che mi designa per sempre? Su quali radici può sorgere il mio progetto, e affinché possa avere delle radici, quali sforzi e quali fatiche per distinguere le mie radici da quelle altrui, da quelle di coloro che si sono proclamati miei genitori non essendo mai potuti essere padre o madre?

 

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