Lutsk

Questo viaggio si svolge nel cuore dell’estate ed inizia con una prima tappa nella città di Lutsk, la prima che si incontra entrando dalla frontiera più a nord dalla Polonia. Questa città come del resto la regione chiamata Volyn, è la zona più lontana dal fronte. Per questo motivo più di 100 mila rifugiati hanno trovato qui accoglienza. 

I problemi non mancano considerando che la zona è economicamente povera. Nella regione si trovano decine di villaggi medio piccoli e qui la gente sono prevalentemente contadini. In questa zona, fortemente influenzata dalla vicina Polonia, sono avvenuti scontri molto crudeli alla fine delle seconda guerra mondiale. La presenza dei cristiani cattolici è bassa; sono molto più numerosi gli ortodossi. Quasi ogni nostro viaggio è iniziato da qui perché e la strada più diretta per proseguire nel paese arrivando dalla Polonia. Conosciamo il Vescovo Mons Vitalii; la chiesa locale è impegnata nell’aiutare i rifugiati che hanno trovato riparo in questa regione.

Lubieszów

Il giorno successivo di buon mattino ci mettiamo in viaggio insieme a don Paolo, il vicario del Vescovo, in direzione nord verso Lubieszów  a 130 km da Lutsk. Lubieszow e una cittadina di circa 10 mila abitanti posta a soli 20 km. dal confine con la Bielorussia. Lo scopo di questa breve visita è quello di visitare un chiesa e il convento adiacente che il Vescovo vorrebbe dare al nostro Istituto, per una possibile futura presenza di lavoro missionario. La chiesa dedicata ai SS Cirillo e Metodio è stata costruita dai Cappuccini nel XVIII secolo; con la seconda guerra mondiale e l’inizio dell’occupazione russa, i frati hanno dovuto abbandonare tutto. Dopo il convento divenne la stazione della Polizia locale e la chiesa una sala di ginnastica. Quando nel 1992 cadde il muro di Berlino e la democrazia ritornò in Ucraina il complesso fu restituito alla diocesi locale. Oggi la comunità locale e formata da circa 30 fedeli che la domenica partecipano alla S. Messa presieduta da un parroco polacco che vive a 60 km da qui. L’intero edificio ha bisogno di importanti lavori di manutenzione, già iniziati con il cambio del tetto. Vedremo se in futuro il discernimento che faremo coi superiori ci porterà forse un giorno a lavorare in questo luogo. 

Dopo questa breve visita ci dirigiamo verso Kiev che raggiungiamo dopo circa 6 ore di viaggio. Ci alloggiamo in Nunziatura per riprendere il viaggio il giorno successivo in direzione di Cherson. La sera faccio una passeggiata nella centro della città per sgranchire la gambe dopo le lunghe ore di viaggio e per gustare le bellissime chiese e palazzi illuminati. 

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Cherson

La distanza che separa  Kiev da Cherson è di quasi 600 km passando per la strada più diretta e sicura. Il GPS la mostra chiusa ma in realtà è percorribile. Il viaggio ci regala dei paesaggi suggestivi. La giornata calda e soleggiata fa brillare intensamente le sconfinate distese di coltivazioni di girasoli che spesso incontriamo. 

Sono abbastanza numerosi i grandi camion che viaggiano in direzione sud carichi di cereali e frumento per poi essere imbarcati nelle gigantesche navi cargo nel grande porto di Odessa e da li partire per tutto il mondo. Purtroppo i magazzini portuali sono diventati ultimamente obiettivi sensibili e spesso sono stati colpiti causando la perdita di tonnellate di prodotti. Anche il mancato accordo sul grano contribuisce a far lievitare i prezzi a livello mondiale di queste materie prime così importanti per sfamare tantissime povere popolazioni nel mondo.

Torniamo a Cherson per la seconda volta dopo essere stati qui a marzo. La situazione non è cambiata. La città prima occupata e poi liberata è continuamente sotto tiro, giorno e notte. Il fiume è la linea naturale del confine. Abbiamo con noi aiuti sanitari. In particolare abbiamo raccolto pastiglie utili per disinfettare l’acqua. Il 6 giugno  a circa 100 km da qui in direzione nord fu fatta saltare la diga sul fiume a Kakhovka. L’esplosione della diga liberò lungo il tracciato del fiume una piena che travolse e allagò villaggi e città dove ancora oggi non c’è acqua potabile.

A Cherson  il parroco don Massimo ci indica la pareti delle case con il segno lasciato dall’acqua della piena. Molte case sono state invase dall’acqua, quelle più fragili sono state distrutte, alcune persone, rimaste senza niente, sono ospiti in parrocchia.

Cherson è una città disabitata. Prima del conflitto contava con circa 300 mila abitanti. Oggi si stima che siano tra i 20 e i 25 mila. La mattina, nelle zone più lontane dal fiume, troviamo aperto qualche negozio e il mercato, invece nei pressi del fiume non si vede quasi nessuno durante tutto il giorno. I mezzi pubblici, dove è possibile, svolgono ancora il loro servizio e nei pressi delle fermate degli autobus ci sono dei rifugi dove la gente può trovare riparo quando la città è bombardata.

Nel primo pomeriggio le strade dell’intera città si svuotano, i mezzi si fermano e dalle nove di sera fino alle cinque del mattino c’è il coprifuoco. Per motivi di sicurezza è proibito accendere luci nei piani più alti dei palazzi anche se poi sono poche le persone che abitano in posti elevati perché ritenuti troppo pericolosi.

La mattina visitiamo l’ospedale pediatrico della città accompagnati dalla dottoressa responsabile. Ci racconta che prima della guerra qui nascevano annualmente circa 1500 bambini e invece oggi si registrano poco più di una ventina di parti al mese. La sala parto è una semplice stanza con l’occorrente e, a fianco, ce un’altra stanza che è la sala operatoria; quando ci affacciamo vediamo che un intervento è in corso. 

Tutte le attività dell’ospedale sono state trasferite al piano terra. Il quarto piano tempo fa è stato colpito da un razzo, ci è concesso visitarlo brevemente; dal balcone più alto si può vedere tutta la città.

Scendiamo nelle cantine dove si trovano i locali più sicuri. Qui ci sono delle brandine con i sacchi a pelo. Durante gli allarmi questo è il luogo di riparo. A fianco di esso si sta lavorando per organizzare una sala operatoria. 

All’esterno dell’ospedale vediamo un grande generatore di corrente ancora imballato che è arrivato con una serie di aiuti umanitari. La dottoressa ci dice che sarebbe molto utile ma purtroppo non ci sono i cavi per collegarlo e renderlo operativo. Promettiamo cercare di procurarceli.

La parrocchia del sacro cuore, dove siamo ospiti, è uno dei pochi centri di distribuzione di aiuti agli abitanti. Il giorno precedente al nostro arrivo è stata organizzata una distribuzione e a circa mille persone è stato consegnato del cibo. 

Questa distribuzione è rischiosa. Ogni assembramento di persone costituisce un potenziale obiettivo. E’ sufficiente che questa informazione arrivi dalla parte opposta del fiume e si potrebbero avere conseguenze gravi. Per questo motivo il giorno e l’ora della distribuzione sono spesso cambiati e mai fatti con una certa regolarità anche se gli aiuti oggi stanno arrivando con bastante regolarità; senza di essi sarebbe difficile sfamare i cittadini di questo luogo. 

Oltre alla parrocchia in città è stata aperta una mensa organizzata dai padri domenicani che, pur non vivendo qui, assicurano il cibo e ciò che occorre per la distribuzione. Ogni giorno vengono preparati 1000 pasti. Si possono consumare sul posto oppure una rete di volontari li consegna nelle case. Anche la parrocchia greco cattolica della città guidata dai pp. Basiliani è impegnata nella distribuzione degli aiuti. 

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Fedorivka

Nel pomeriggio di questa intensa giornata ci rechiamo in un villaggio fuori città, di nome Fedorivka a situato a poche decine di chilometri a nord di Cherson. Fedorivka è uno dei tanti villaggi colpiti dall’inondazione avvenuta a causa della distruzione della diga. Per arrivare qui occorre passare diversi check point dei militari. Ne vediamo alcuni su una macchina che hanno appena abbattuto un drone: i resti sono ancora visibili e fumanti in un campo non lontano da lì.

Nel villaggio siamo accolti dal responsabile con la moglie. Portiamo un generatore di corrente perché qui gli abitanti non hanno più di due ore di corrente al giorno, troppo poca per tenere carichi i telefonini tutto il giorno; il generatore sarà messo a disposizione nella chiesetta del villaggio. 

Ci accompagnano in una breve visita e ci raccontano che l’acqua dell’inondazione è rimasta stagnante per più di due settimane; il terreno pianeggiante non favoriva il deflusso. Molte case e fienili sono stati trascinati via insieme ad animali. Sacchi di cereali custoditi nei magazzini sono marciti. Chi è rimasto prova ora salvare ciò che è possibile salvare. 

In questi villaggi per motivi igienici esiste ancora il divieto di bere l’acqua dai pozzi. Per questo si cercano alternative come autopompe (una purtroppo si è guastata), acqua in bottiglia e pastiglie disinfettanti. In tutti i campi e attorno al villaggio persiste il cattivo odore del marciume. 

Portiamo del cibo a una coppia di anziani. Ci raccontano che durante il tempo dell’occupazione nella loro casa tenevano nascosti 6 soldati ucraini in fuga ma poi arrivarono le forze speciali russe che li stavano cercando. La signora li nascose in un locale e diede loro il rosario dicendo: “che crediate o no, usatelo!”. Lei stessa informò i russi che non aveva mai visto i militari ucraini e allora questi se ne andarono. Quando si furono allontanati i soldati ucraini, a piedi, scapparono fino a Mikolajow. 

Tornati in città trascorriamo la serata in parrocchia dopo aver fatto una breve passeggiata nei dintorni. Come spiegavo più sopra il quartiere appare deserto e per tutta la notte siamo stati svegliati dal suono delle sirene e dai colpi di artiglieria.

*Missionario della Consolata in Polonia

La città di Kherson si trova nel sud del paese. È costruita interamente sulla sponda occidentale del fiume Dnieper che lì vicino sfocia nel mar Nero. La città e stata occupata all’inizio della guerra alla fine di febbraio del 2022 e liberata l’11 novembre. La liberazione della città purtroppo non ha coinciso con la ritrovata pace. I soldati russi hanno arretrato sulla sponda orientale del fiume e da li costantemente colpiscono la città a poche centinaia di metri, separati soltanto dal fiume.

Qui vive don Massimo, parroco dell’unica parrocchia cattolica della città dedicata al Sacro Cuore, insieme al suo vicario anche lui don Massimo. Lì, con don Leszek Krzyza, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la conferenza episcopale polacca, li abbiamo incontrati nell’ultimo nostro viaggio avvenuto tra il 17 e il 21 marzo. Don Massimo è giovane, ha solo 36 anni ed è nativo proprio di Kherson, guida la parrocchia nella quale e cresciuto da bambino. Abbiamo deciso di venirlo a trovare perché sappiamo che sono poche le persone che qui vengono, cosa da lui molto apprezzata. Ci diamo appuntamento in macchina fuori dalla città per essere da lui accompagnati. Occorre infatti passare diversi check point per entrare. Nell’ultimo controllo dopo aver mostrato i documenti e l’aiuto umanitario che trasportiamo: generatori di corrente e una stufa a legna, il soldato, indicandoci con un cenno che potevamo proseguire, ci dice in inglese «good luck», buona fortuna. 

La città di Kherson prima della guerra aveva 300 mila abitanti, oggi ce ne sono circa 20 mila. Il coprifuoco inizia alle 17.00 col divieto di uscire per le strade ma in realtà –ci spiega don Massimo– già dalle 14.00 nessuno si vede più in giro. C’è un silenzio strano, profondo e triste, interrotto soltanto dai colpi sparati a pochi chilometri che risuonano nell’aria.

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A distanza di un anno chi vive qui riesce a capire dal rumore chi e stato a sparare. Più volte siamo tranquillizzati, non vi preoccupate questi sono i nostri.

Non potendo uscire, trascorriamo il pomeriggio e la serata nella casa parrocchiale. Facciamo lunghe chiacchierate alternando temi allegri che ci fanno sorridere a racconti più seri su quanto accade qui. Ci accorgiamo quanto sia importante l’esserci, l’ascoltarci e il guardarci, molto più prezioso di tanti aiuti materiali che comunque, ringraziando il cielo, non mancano e che sono vitali per le persone che qui cercano di sopravvivere. 

In questo luogo anche la distribuzione degli aiuti e problematica e il problema non è la mancanza di aiuti ma il fatto che le persone si radunano insieme durante la distribuzione e diventando un possibile ed invitante bersaglio. Per questo motivo il giorno e l’ora vengono sempre cambiati. Nonostante la pericolosità e i divieti, alcuni, per essere tra i primi a riceverli, trascorrono la notte all’aperto aspettando.

Don Massimo ci accompagna nel solaio e ci mostra il buco lasciato dal razzo inesploso che è entrato nella soffitta a dicembre e oggi custodito come ricordo dopo essere stato messo in sicurezza lì vicino. Era il 23 dicembre. Le donne stavano preparando la chiesa per il Natale quando improvvisamente il rumore dal tetto. La notizia del “miracolo” aveva fatto velocemente il giro, amplificata dal web. E veramente inspiegabile quello che era accaduto. Tuttavia, la pubblicità fattasi attorno a questo ha preoccupato non poco chi abita qui perché il web è visto anche da coloro che si trovano dalla parte opposta del fiume.

La notte riusciamo a riposare e al mattino di buon’ora ci mettiamo in macchina per visitare la città. Qualche persona cammina per le strade principali per fare un po’ di spesa. Con sorpresa notiamo che funzionano gli autobus anche se non quelli elettrici perché i cavi sono stati tagliati. Tuttavia, l’impressione è quella di una città vuota e triste. Andiamo sulla piazza centrale luogo prima di proteste e poi dei festeggiamenti. Il grande edifico del governatore ha sulla sinistra una parte completamente distrutta, centrata da un razzo, le finestre dell’ultimo piano che si affaccia sulla piazza sono tutte saltate e alcune penzolano nel vuoto. La parete laterale e stata centrata e distrutta.

Nel parco della città camminando con attenzione solo sui vialetti cementati colpiti dalle schegge dell’esplosioni ma evitiamo di calpestare l’erba dei giardini nascondiglio insidioso delle mine sparse dappertutto, ci avvinciamo alla grande torre televisiva che giace sul prato. Sarà lunga oltre 60 metri. Si avvicina a noi una macchina della polizia attirata forse del fatto che stiamo facendo fotografie, ma dopo pochi secondi prosegue oltre. Dai vialetti raccogliamo alcune schegge lasciate dai razzi, sono molto affilate e toccandole si può immaginare il danno che provocano lanciate all’impazzata dalla forza dell’esplosione.

Facciamo ancora un salto davvero breve fino alla sponda del fiume in una delle tante piazze della città che vi si affacciano. A poche centinaia di metri si vede la sponda opposta coperta prima dai canneti e poi la terra ferma. Qui inizia la zona occupata. Rimaniamo solo qualche istante, è pericoloso sostare qua; qualche foto e un breve video e poi ritorniamo in parrocchia.

È domenica mattina e quindi si celebra la Messa coi fedeli che sono circa 20 tra i quali anche tre bambini molto allegri e sorridenti e quasi incuranti del luogo e delle condizioni in cui vivono: apprezzano tanto la cioccolata che regaliamo loro. Era la quarta domenica di quaresima, chiamate laetare (gioire), che qui risuona come un invito da accogliere nella fede e nella speranza.

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Mikolajów

A poche decine di chilometri in direzione ovest quasi sulla sponda del mar Nero si trova la città di Mikolajów che raggiungiamo la domenica stessa. Qui si trova il Santuario di S. Giuseppe che oggi celebra la festa patronale. La città a differenza di Kherson non è stata occupata anche se porta i segni e le ferite dei tentativi di occupazione.

Dopo la celebrazione solenne, presieduta dal vescovo locale della diocesi di Odessa, a cui hanno partecipato decine di fedeli, ci troviamo coi sacerdoti. Tra loro siedono non solo i cattolici ma anche i greco cattolici e un prete ortodosso della chiesa ucraina. Il clima e piacevole e interessanti sono gli argomenti che scambiamo. È presente anche il sindaco della città anche lui cattolico.

Nella piazza principale della città si affacciano due grandi palazzi, uno del sindaco e l’atro opposto del governatore della regione. Il palazzo della regione si presenta con un gigantesco buco causato dallo scoppio di un razzo che lo ha centrato.

Erano le 8.30 di mattina quando avvenne lo scoppio e in quel giorno era convocata una riunione di ufficio. Il governatore fece ritardo e si scusò mandando un messaggio e nel frattempo avvenne l’attacco che causò la morte di oltre 40 persone. Quel ritardo gli salvò la vita. Nel pomeriggio passeggiamo in centro recandoci in quel luogo. Il clima, a differenza di Kherson, è diverso. Sono molte le persone che passeggiano, giovani e bambini corrono con le biciclette in una domenica con le temperature già primaverili. Se non fosse per gli allarmi che di tanto in tanto risuonano, sembrerebbe quasi un ritorno alla normalità.

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Fastow

Il giorno successivo sulla strada per Kiev ci fermiamo a Fastow, una cittadina a circa 100 km di distanza. Qui vive una comunità di Domenicani. Sono molto attivi. Lavorano con un gran numero di laici, giovani soprattutto. Ci accoglie padre Marco, ucraino. Dopo aver mangiato nel locale gestito dai giovani della comunità, visitiamo l’asilo e la scuola elementare. Quasi cento bambini provenienti dalle zone del fronte dove si combatte a Est, hanno trovato qui alloggio e l’accesso alla scuola. Le classi sono ben attrezzate e le insegnati garantiscono un ottimo lavoro. Nel seminterrato sono allestiti tre piccoli locali rifugio. La procedura impone che ad ogni suono di allarme i bambini devo essere qui condotti fino al termine del cessato allarme. Questo purtroppo spesso accade, come nella giornata odierna e alcuni di essi manifestano disagio e sofferenza ogni qualvolta devono qui scendere.

Nel giardino è allestita una tenda da campo sotto la quale ognuno, gratuitamente e in ogni momento, può qui venire e ricevere qualcosa di caldo, scaldato dalla cucina di campo posta all’esterno. Sul fondo della tenda si trova un gran presepio che dà il nome alla tenda.

Questa comunità e impegnata non solo qui, ma anche organizza viaggi al fronte per raggiungere i villaggi e portare aiuti alle famiglie che vivono ancora là. La sfida, ci racconta padre Marco, e quella di poter continuare a ricevere aiuti da distribuire: mensilmente sono circa 200 tonnellate. Anche noi ci impegniamo a organizzare un nuovo invio che possa arrivare qui.

Quasi alla fine di questo viaggio ci raggiunge la notizia dell’arrivo del tir che abbiamo spedito alla città di Zaporoze costantemente sotto attacco: riceviamo un video di ringraziamento del Vescovo locale. Ringrazia anche la comunità dei frati cappuccini a Dnieper ai quali abbiamo mandato un altro trasporto con aiuti e sistemi fotovoltaici che dovrebbero lenire gli effetti della mancanza di energia elettrica.

*Luca Bovio, missionario della Consolata, lavora in Polonia

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Lo scorso 28 giugno La "Commissione per la verità" ha presentato a tutta la società colombiana i risultati del suo lavoro. Questa commissione è una delle tre istituzioni che compongono il Sistema globale di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione creato dall'accordo di pace del 2016. Da quando è diventata operativa nel 2018, la Commissione ha lavorato, a volte in circostanze difficili, per far luce su cinque decenni di atrocità e violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto armato del Paese. Alla fine della presentazione, che nei prossimi mesi sarà divulgata in modo capillare in tutto il paese, i membri della commissione si sono diretti al paese con un appello e un chiaro invito alla riconciliazione.

Un appello alla società

Vogliamo rivolgere un appello alla società, allo Stato e alla comunità internazionale. Poiché il riconoscimento della verità permette di curare le ferite delle vittime, di trasformare i responsabili e di aprire la strada per costruire insieme il futuro, la Commissione chiede che la verità venga riconosciuta:

1. Chiediamo ai colombiani, senza distinzioni, che accettino la verità della tragedia della distruzione della vita umana tra noi e si decidano a non uccidere più per nessun motivo. Ogni morte violenta deve essere rifiutata collettivamente e con chiarezza; la vita degli esseri umani e della natura deve essere messa al centro prima di ogni interesse particolare. Più nessun colombiano deve fuggire in esilio per proteggere la propria vita.

2. Chiediamo a tutto il popolo colombiano di riconoscere le vittime del conflitto armato nel loro dolore, nella loro dignità e nella loro resistenza. È necessario riconoscere l'ingiustizia di ciò che abbiamo vissuto; il trauma collettivo che condividiamo come società; l'esigenza della riparazione integrale e trasformativa per gli oltre 9 milioni di vittime del conflitto armato interno.

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Foto Museo Casa de la Memoria

3. Chiediamo di guardare criticamente la storia in una prospettiva che dia spazio alla presenza costante della memoria necessaria alla costruzione della pace e all'impegno per la non ripetizione. Lo Stato e la società nel suo complesso dovranno contrinuire al rafforzamento dei valori democratici.

4. Chiediamo ai giovani di affrontate la verità delle cause e degli orrori del conflitto armato per costruite la nuova nazione che è nelle loro mani, perché loro sono il futuro. A voi giovani chiediamo di non collaborare mai a nulla che aggravi la morte, l'odio e la disperazione e di essere leader nel realizzare le raccomandazioni di questa commissione.

5. Chiediamo alla società e allo Stato di portare a pieno compimento l'Accordo di pace firmato (con la guerriglia delle Forza Armate Rivoluzionare della Colombia, FARC); di avanzare verso il consenso sulle trasformazioni necessarie per superare i fattori che hanno facilitato la riproduzione dei cicli di violenza; di rafforzare la convivenza nelle diverse regioni del paese per mezzo della ricostruzione della fiducia dei cittadini tra loro e con le istituzioni, e sempre nella prospettiva nazionale di una grande pace.

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Foto SozziJA

6. Chiediamo allo Stato di partire dalla verità che ogni giorno di guerra allontana la possibilità di coesistenza e governabilità; prendere l'iniziativa per la pace con l'Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) e gli altri gruppi armati e cercare il dialogo con gli altri gruppi illegali per negoziare o sottomettersi alla giustizia.

7. Chiediamo alle organizzazioni che non accettano la legittimità dello Stato, così come all'ELN, ai dissidenti e agli altri gruppi insurrezionali che continuano a fare la guerra, di ascoltate il grido del popolo che chiede di "fermare subito la guerra da tutte le parti" e di intraprendere la strada del dialogo fino al raggiungimento della pace, nella diversità delle metodologie e delle situazioni regionali.

8. Chiediamo a tutti gli strati sociali e politici di approfondire la democrazia attraverso la definitiva esclusione delle armi dall'arena pubblica e per attuare una riforma che apra spazi per i settori e i gruppi esclusi, in una democrazia rappresentativa che rifletta la pluralità territoriale ed etnica del Paese e che abbia al centro il dialogo, la partecipazione diretta dei cittadini e la mobilitazione come strumenti fondamentali per garantire i diritti, il ripristino del tessuto sociale, la costruzione della fiducia istituzionale e il definitivo rifiuto della violenza contro chi la pensa diversamente.

9. Al sistema giudiziario, per porre fine all'impunità, ricostruire la fiducia nello Stato e garantire l'imparzialità e l'indipendenza degli organi investigativi e giudiziari; per proteggere i funzionari giudiziari, le vittime e coloro che partecipano ai processi, e per far luce sulla criminalità organizzata e punire i responsabili.

10. Chiediamo al Governo, alle forze di sicurezza, ai partiti politici, agli uomini d'affari, alle chiese, agli educatori e agli altri responsabili delle decisioni in Colombia, di riconoscere la penetrazione del narcotraffico nella cultura, nello Stato, nella politica e nell'economia e il modo in cui la guerra alla droga è uno dei principali fattori di persistenza del conflitto. Chiediamo loro di sviluppare meccanismi investigativi che permettano di affrontare con reale efficacia sia il sistema di alleanze e interessi coinvolti nel narcotraffico; di sottomettere alla giustizia gli apparati politici, finanziari e armati che lo rendono possibile; di cambiare la politica nei confronti dei contadini e degli anelli più deboli della catena per superare i problemi strutturali di povertà, esclusione e stigmatizzazione. Tutto ciò dovrebbe basarsi su un approccio basato sui diritti umani e sulla salute pubblica, al fine di intraprendere un dialogo approfondito verso soluzioni etiche, educative, legali, politiche ed economiche, sia a livello nazionale che internazionale, che consentano di compiere progressi nella regolamentazione del mercato delle droghe e nel superamento del proibizionismo.

11. Chiediamo allo Stato e alla società di stabilire una nuova visione della sicurezza per la costruzione della pace come bene pubblico incentrato sulle persone, in cui la protezione di tutti gli esseri umani e della natura viene prima di tutto. Questa visione di sicurezza non può centrarsi sulle forze armate ma si deve costruire sulla fiducia collettiva, con il sostegno di tutti gli organi statali, delle comunità e dei gruppi etnici, sulla base del dialogo tra cittadini e istituzioni, al fine di operare le necessarie trasformazioni nello Stato, nelle forze armate, nella polizia e nelle organizzazioni della società civile, come elemento fondamentale per la pace.

12. Chiediamo alla burocrazia statale e agli amministratori pubblici e privati di rifiutare e porre fine alla corruzione a diversi livelli, rompendo abitudini e complicità e agendo con determinazione nel controllo dei cittadini e nell'effettiva sanzione delle leggi per fermarla.

13. Chiediamo allo Stato, alla società e, in particolare, al settore imprenditoriale impegnato in grandi progetti industriali e finanziari, di dare la priorità alla garanzia di condizioni di benessere e di vita dignitosa per le persone e le comunità, senza esclusioni, sulla base di una visione condivisa del futuro per superare le disuguaglianze strutturali che rendono questo Paese uno dei più iniqui al mondo in termini di concentrazione di reddito, ricchezza e territorio. È necessario che gli investimenti statali, imprenditoriali e finanziari siano incorporati nella creatività e nella passione della gioventù popolare e rurale, che chiede di partecipare alla produzione della vita che è cara a tutti i colombiani.

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Foto SozziJA

14. Chiediamo a tutti i colombiani di dare ai contadini l'immenso riconoscimento che è loro dovuto per la vita di tutto il paese.  Dobbiamo garantire un'equa ridistribuzione della terra; la prevenzione e l'inversione dell'esproprio; le condizioni per una produzione sostenibile; l'accesso a beni e servizi pubblici tra i quali sicurezza, giustizia e istruzione di qualità. Sarà necessario assicurare anche le condizioni necessarie per la cura degli ecosistemi, dell'acqua, della terra e delle specie native.

15. Chiediamo a tutta la nazione di superare il razzismo strutturale, il colonialismo e l'ingiusta e maldestra esclusione che è stata inflitta ai molti popoli che compongono la nazione colombiana colpiti in modo sproporzionato dalla guerra. Rendere le loro culture e tradizioni un'indispensabile parte sostanziale dell'identità di tutti noi come colombiani è una condizione "sine qua non" per vivere in tranquillità, giustizia e pace.

16. Chiediamo a tutti di rispettare le differenze di pari dignità delle donne, delle persone LGBTIQ+, dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, delle persone con disabilità o diversità funzionali e degli anziani, che sono stati particolarmente colpiti dal conflitto armato.

17. Chiediamo alle nazioni amiche della Colombia -che riconosciamo e ringraziamo per l'accompagnamento delle vittime nei territori, per l'aiuto umanitario e ai diritti umani e per il contributo alla pace- di fare questo passo: aiutare la Colombia a essere un esempio di riconciliazione nel mondo; smettere di vederci come un Paese che sopravvive solo in "modo guerra" e che ha bisogno di un sostegno militare che perpetua il conflitto. Abbiamo subito 60 anni di violente vittimizzazioni e vi chiediamo di non darci nulla per la guerra, non lo vogliamo. Non vogliamo la guerra in nessuna parte del mondo. Sosteneteci in tutto ciò che fa fiorire la vita e la natura, la fiducia civica e l'economia, in armonia con la ricchezza naturale di questa terra; sosteneteci nell'amicizia che rispetta le differenze in una comunità internazionale che condivide la casa comune del pianeta.

18. Chiediamo alla società nel suo insieme di impegnarsi a cambiare profondamente gli elementi culturali che hanno portato alla nostra incapacità di riconoscere l'altro come essere umano di pari dignità. È necessario costruire un futuro nel dialogo, a partire dalle diverse concezioni della vita e tradizioni spirituali, con un'etica pubblica in cui ci riconosciamo semplicemente come persone e cittadini, disposti a intraprendere trasformazioni a livello istituzionale, normativo, personale e quotidiano. È urgente cancellare le narrazioni di odio, discriminazione e stigmatizzazione, per costruire invece la fiducia e la passione per un futuro di speranza condivisa e di vita appagata che dobbiamo alle future generazioni colombiane.

19. Chiediamo ai leader religiosi di riflettere sul vuoto spirituale che si è prodotto in un popolo con solide tradizioni di fede che è vissuto per anni invischiato nelle vie della guerra e impantanato in una crisi umanitaria marcata dall'odio, la sfiducia e la morte. Chiediamo di intraprendere con coraggio la missione di riconciliazione della Chiesa cattolica con le altre Chiese e con i saggi e gli anziani, Uomini e donne della tradizione indigena e afrocolombiana.

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La sfida della riconciliazione

La maggior parte delle commissioni per la verità nel mondo sono state istituite alla fine di una dittatura violenta o alla fine di un conflitto. In questi casi, la verità dà luogo alla costruzione dello Stato di diritto che era assente. Il caso della Colombia è particolare perché non c'è stata una dittatura di questo tipo; al contrario, c'è una Costituzione che garantisce una democrazia continua e i diritti in essa sanciti. Sebbene il confronto tra lo Stato e la guerriglia delle FARC sia terminato, la violenza legata alla politica e al denaro continua in varie forme, perché i problemi non sono stati risolti: la pace fatta dagli eserciti ha lasciato la frattura che continua nella società. Per risolverli, dobbiamo essere una società che fa proprio il dolore delle vittime, che dice "basta", che assume la giustizia della transizione. Una società che, senza voltare la pagina dell'oblio, abbia il coraggio di costruire sulle differenze, incorporando coloro che si sono odiati, per consentire un dialogo nel rispetto che fa la vera democrazia.

Noi ci siamo abituati a vivere in "modalità guerra" anche se la stragrande maggioranza di noi non ha un fucile. Per questo abbiamo ricevuto un messaggio che le altre commissioni del mondo non hanno avuto, un messaggio richiesto dai firmatari dell'accordo del Teatro Colón, dai garanti dell'accordo, dalle Nazioni Unite, dalla comunità internazionale, dalla Corte Costituzionale, dalla Chiesa cattolica e dalle altre Chiese cristiane, dai saggi indigeni e afrodiscendenti e, soprattutto, dalle vittime sopraffatte dalla disperazione: "che la cruda verità che ci consegnate ci porti alla riconciliazione". Questa è la richiesta, formulata in molti modi diversi, ma sempre la stessa.

Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l'impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi più a vicenda e di togliere le armi dalla politica. Significa accettare che molti di noi - in varia misura, per azione o omissione - sono responsabili della tragedia. Significa rispettare l'altro, l'altra, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Significa prendere in considerazione la ferita dell'altro, le sue preoccupazioni e i suoi interessi. Significa costruire in modo che lo Stato, la giustizia, la politica, l'economia e la sicurezza siano al servizio della pari e sacra dignità umana dei colombiani. 

Riconciliazione significa che lo Stato attuale si trasformi in uno Stato per il popolo; che i politici abbandonino la corruzione; che gli imprenditori non escludano dalla partecipazione alla produzione una moltitudine di persone che reclama il diritto di farne parte; che coloro che monopolizzano la terra la cedano; che tutti coloro che collaborano con il narcotraffico, con la guerra, con l'esclusione, con la distruzione della natura siano disposti a cambiare. 

Riconciliazione significa la fine dell'impunità e che coloro che continuano a fare la guerra capiscano che non c'è alcun diritto di continuare a farla, perché non permette la democrazia o la giustizia e porta solo alla sofferenza. 

Malgrado le differenze, ma contando con la speranza e la fiducia collettiva, possiamo costruire un paese che sia possibile per oggi e per le generazioni di domani.

Carissimi amici, non finiró mai di ringraziarvi per la vostra solidarietà e vorrei anche condividere con voi una piccola esperienza fatta oltre confine in Ucraina in un viaggio nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.

Dopo aver riempito completamente  la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedi 31 marzo,  in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si e unita Clara la volontaria infermiera che da settimane è con noi. Dopo 5 ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo alla frontiera. 

Anche se non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina, tuttavia i tempi di controllo dei documenti sono lunghi: entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta. 

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Abbiamo dei problemi con un documento del nostro veicolo e quindi siamo costretti a lasciare temporalmente i nostri aiuti presso la sala di una parrocchia di francescani prossima alla frontiera: saranno spediti posteriormente in un altro trasporto. Ad ogni modo non rinunciamo ad attraversare la frontiera per vedere in opera le molte iniziative solidali che si sono avviate in tutto il continente e decidiamo attraversare la frontiera a piedi.

Quando raggiungiamo il posto di frontiera dell’Ucraina ci offriamo per aiutare una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. che è tutto quel che è riuscita a portare a salvo, poi una soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto e lei fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi  un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate. 

Entrando in Ucraina notiamo una coda molto più lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia e vediamo l’impegno di tanti volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei... sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata.

Ci troviamo con un gruppo di volontari polacchi che fin dall’inizio sono qui presenti. ci troviamo con Magdalena che conoscevamo già.  Lei ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio, ma tuttavia non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra. Solo da questa frontiera sono passate circa 700 mila persone su un totale di 2,7 milioni che hanno varcato il confine con la Polonia.  I primi giorni -ci racconta- sono stati i più drammatici: ci sono video che mostrano code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine.  Eppure quelli erano tra i più fortunati perché stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di quelli di adesso che aspettano all’aperto giorno e notte, anche per tre e quattro giorni, per poter passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative. 

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Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito delle stress e della stanchezza. 

Ci colpisce molto la dignità di queste persone: non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fa fatica a vuotare il sacco. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiew...

Gli unici accompagnati da volontari e avvolti in coperte sono solo alcuni anziani su carrozzine un altro lato debole della popolazione. 

Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi ma anche  coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare insieme a tutti voi.

*Luca Bovio è superiore dei missionari della Consolata in Polonia. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; +48 512.693.184

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