Padre Anselmi, 58enne e sacerdote da 30 anni, rivela come la maggior parte dei giovani mostrino gradi differenti di incomunicabilità con la famiglia, ma tutti custodiscano nel cuore “tre grandi sogni: la casa, l’affetto e il lavoro”. Le due giornate di Festival sono state l’occasione per comunicare loro che bisogna “credere nella grandezza dei sogni”.
Come ha iniziato il cammino nelle comunità fondate da Meluzzi?
“Ho incontrato il dottor Meluzzi cinque anni fa e mi sono interessato alle problematiche che affrontava: lui, all’inizio, accoglieva i giovani con disagio psichico nella sua mansarda ad Albugnano, proprio come San Giuseppe Cafasso seguiva le persone dimenticate che lui stesso definiva “pietre scartate”. Da li sono nate otto comunità per una cinquantina di ragazzi e adulti: due a Castagnole, due ad Albugnano, una a Cerreto d’Asti, una a Pino d’Asti e due a Torino appena avviate. Da quattro anni, ogni domenica celebriamo messa nell’abbazia di Vezzolano, prima si faceva in casa del dottore, poi abbiamo notato che occorreva un luogo più idoneo, anche per il numero di persone”.
Come è nata l’idea del Festival “Canta la vita”?
“Conosco Giuliano Crepaldi e don Lorenzo Fontana: tutti pensiamo che sia importante far conoscere il messaggio dei santi, quali testimoni del Vangelo e di un cammino di fede consapevole. In questo luogo sono nati e vissuti molti santi; lo stesso beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, che è nipote del Cafasso”.
Quale è il messaggio di cui hanno più bisogno i giovani d’oggi?
“Bisogna offrire loro serenità e positività negli stili di vita. C’è un grido disperato della gioventù che non trova senso in quello che fa. Il Cafasso dava speranza ai condannati a morte, san Domenico Savio comunicava il senso della vita, Don Bosco si occupava dei giovani e l’Allamano ha dato una spinta verso la missionarietà. Sono sfaccettature diverse di Cristo che si vuole annunciare al mondo, esprimono insieme la globalità della fede. Spesso i giovani mostrano un disagio di relazione con se stessi e con la famiglia che può esprimersi in diversi gradi”.
Come hanno reagito i ragazzi delle vostre comunità all’evento?
“E’ importante vivere momenti di confronto e di crescita con dei coetanei. I nostri ragazzi, a maggior ragione, necessitano di un senso di dolcezza e tenerezza perché la società li considera non produttivi e li abbandona; inoltre, proprio quando ce ne sarebbe più bisogno, le famiglie non riescono ad instaurare un dialogo e così i problemi crescono. Se vengono accolti e accettati per quello che sono, possono ottenere risultati superiori alle aspettative. La terapia è semplice ed è incentrata sulla famigliarità”.
Come ha inciso la scelta del luogo sul buon esito dell’evento?
“La città è più aggressiva, la campagna è più distensiva e questo aiuta a rasserenare lo spirito. Il mondo salesiano ha messo a disposizione dei giovani un grande spazio che normalmente accoglie giovani: questa volta, però, è stato lanciato un messaggio di speranza più ampio, che supera ogni carisma e unisce. Qui sono convenuti gli esempi di molti santi e anche quello di Mamma Margherita, la madre di Don Bosco, che pazientemente e con umiltà ha educato il figlio a grandi valori”.
Ci sono speranze che accomunano tutti i giovani?
“Sì, decisamente e sono tre: innamorarsi, sposarsi e avere un lavoro. Queste possono estendersi di significato in base alla propria vocazione, ma identificano tre ambiti in cui tutti desiderano realizzarsi: la casa, l’affetto e il lavoro. Cioè sentirsi famigliare di qualcuno, amare qualcuno e avere degli obiettivi da raggiungere”.