Com’è il rapporto con le Chiese locali?
«I vescovi sanno che le congregazioni missionarie hanno scelto la missione tra gli ultimi. Quando vediamo che ci sono parrocchie in grado di fare da sole e vi sono bravi sacerdoti locali in accordo con il vescovo le lasciamo alla Chiesa locale e spostiamo l’orizzonte più in là».
Ma si potrà dire un giorno: abbiamo finito, torniamo a casa?
«No, perché gli uomini non potranno mai smettere di aiutarsi a vicenda. La nuova sfida della missione in Africa, oltre a quella della lotta alla povertà che non finisce, è il dialogo interreligioso e tra le culture tradizionali e moderne».
Ritiene che il celibato dei preti sia un problema, in Africa?
«Non se ne parla, ma è un problema. E non soltanto in Africa. Lo è per le Chiese locali, ma tocca un po’ tutte le congregazioni missionarie».
Secondo lei il Sinodo lo affronterà?
«È un punto da discutere. Bisogna tornare a una formazione seria sul celibato, vederne il valore».
Si può parlare di una teologia africana?
«In passato si è parlato molto, avvicinandola alla teologia della liberazione latinoamericana. Il Sinodo dovrebbe riflettere su come intrecciare la teologia, ma anche la riflessione biblica e morale, alle culture africane. E indicare una via di riconciliazione e di promozione per l’uomo: lì, adesso».
Cosa si aspetta dal Sinodo?
«Una riflessione spirituale, teologica, ma anche sociologica ed economica, che indichi soluzioni ai mali dell’Africa, di cui noi per primi siamo responsabili. Ma anche un’analisi senza reticenze dei guai che gli africani hanno provocato in Africa, prendendo il peggio da noi. Tutto ciò senza dimenticare che l’Africa ha culture antiche, diverse dalle nostre, che vanno rispettate nella loro tipicità, anche se per noi è molto difficile. Solo in questo modo possiamo offrire un aiuto concreto e trovare piste di lavoro in un continente così martoriato».