La chiesa nella steppa mongola

Pubblicato in I missionari dicono
{mosimage}ULAANAA ha sei anni e parla e ride sempre, anche quando tutti gli altri bimbi giocano a pallone. Li guarda correre nel campo, senza un pizzico d' invidia. È felice in ogni istante, anche se si muove solo sui suoi gomiti. E trascina veloce il piccolo corpo di un bimbo di sei anni, così poco sviluppato per la paralisi alle gambe che lo accompagna da quando è nato. Le mani sono così raggrinzite per il freddo che sembrano quelle di un vecchietto. Perché in Mongolia d' inverno la temperatura scende finoa -40,e non c' è scampo per i più deboli. Bayraa, invece, ha 12 anni e fa da madre e da padre ai due fratelli.

Quando è nato il più piccolo, Nudee, cinque anni fa, la mamma è morta di parto, lasciandoli al loro destino in una ger (la tipica tendaabitazione mongola) con Minjinsor, la sorellina disabile. Il padre, vittima dell' alcol e della disperazione, li ha abbandonati, ma ogni tanto torna a portar loro il carbone con cui scaldarsi. «Quando li abbiamo trovati non potevamo credere ai nostri occhi. Nudee saltava sui mobili senza vestiti, e la piccola Minjinsor era tutta bruciata, perché per il freddo si attaccava alla stufa. Erano così sporchi che non sono bastate tre docce di seguito, e loro guardavano l' acqua con uno stupore incredibile: non si erano mai lavati prima». A suor Lucia Bortolomasi, che per la Mongolia ha lasciato la sua Val di Susa, brillano gli occhi quando racconta le storie dei bambini che ogni giorno affollano la missione della Consolata fondata una manciata di anni fa ad Arvaiheer, piccola cittadina nella regione di Uvurkhangai. Ogni pomeriggio una quarantina di piccoli scalmanati, dai tre ai 16 anni, arriva qui a giocare, fare i compiti e studiare. A imparare a leggere e a scrivere, a farsi compagnia, a ricevere un pasto o una merenda calda. Oltre che vestiti per coprirsi, scarpe e guanti per combattere il gelido vento siberiano che soffia senza sosta. Affollano con i loro sorrisi una delle quattro ger allestite dalla missione, lasciando fuori dalla porta le storie di povertà e genitori perduti. E quando hanno finito e il tempo lo permette, si scatenano in una partita di calcio o di basket, come in un vero oratorio. In Mongolia i missionari della Consolata sono arrivati nel 2003: il torinese padre Giorgio Marengo, con suor Lucia e suor Giovanna Maria Villa (la più anziana del gruppo che coordina un progetto di cucito per dar lavoro a una quarantina di donne), padre Ernesto Viscardi e suor Gertrudes Vitorino, hanno passato i primi anni nella capitale Ulaanbataar per imparare la complicata lingua, conoscere la cultura mongola e capire dove insediare la missione. La Mongolia non è un paese facile. Non soltanto per quel freddo che da novembre a maggio costringe i missionari a vestirsi con sei maglie di lana infilate una sull' altra, quattro paia di guanti e di calze, senza poter stare all' aria aperta per più di pochi minuti. Ma anche perché qui mancano fruttae verdura (tranne qualche rara mela o i pomodori che arrivano dalla Cina), la gente vive di pastorizia, si mangia solo carne e tè salato, o formaggio e yogurt in estate. Ma i missionari in Mongolia combattono anche con la circospezione della gente e delle autorità locali, per colpa di una religione, quella cattolica, a cui difficilmente viene dato credito e riconoscimento ufficiale. «Siamo arrivati in Mongolia nel 2003, e dopo lo studio della lingua abbiamo girato sette province per capire dove stabilirci - racconta padre Giorgio - Nel 2006 abbiamo scelto Arvaiheer, dove dapprima abbiamo affittato una locanda, poi due alloggi negli unici condomini in muratura del paese. Dopo diverse peripezie ci hanno dato questo terreno, anche se in periferia, dove abbiamo allestito la missione e le gher (di cui una è stata adibitaa chiesa). Finalmente il 24 gennaio 2007 l' assemblea regionale ci ha dato il permesso per svolgere liberamente l' attività religiosa». E di attività padre Giorgio e gli altri missionari (sono in tutto una decina quelli della Consolata in Mongolia, in parte nella capitale e in parte ad Arvaiheer) ne hanno sempre da fare. Non solo nel prendersi cura dei bambini e delle donne, ma offrendo aiuto alla popolazione con progetti sociali e di sviluppo. Il tutto portando la parola di Gesù nel totale rispetto della cultura e della mentalità della gente locale. Come testimonia l' alta croce di legno tutta dipinta con i tradizionali disegni mongoli. Padre Giorgio (i mongoli dicono che parla la loro lingua meglio di loro) e suor Lucia si sono anche occupati di tradurre i testi liturgici,e ora stanno pensando di compiere la stessa impresa con la Bibbia (in mongolo esiste solo la versione protestante). «Abbiamo in mente di proseguire quest' opera di insediamento progressivo lento e graduale nel mondo rurale mongolo, cercando sempre di più di conoscere la mentalità della gente, la loro storia e i valori. Adesso è cominciato l' inverno, nevica abbondantemente,e si moltiplicano le richieste di aiuto per il combustibile delle ger (sterco, legna e carbone). C' è sempre bisogno di pasti caldi e di vestiti per chi non ne ha» racconta ancora padre Giorgio.
Ultima modifica il Sabato, 07 Febbraio 2015 21:34

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