Padre Gilberto da Silva, missionario della Consolata brasiliano, da quattro anni lavora a Taiwan. Tornato in patria per le sue vacanze ci lascia queste riflessioni che prendiamo da una intervista concessa a Maria Emerciana, giornalista della rivista Missões, pubblicata in Brasile dai Missionari della Consolata.
“Quando sono partito per Taiwan non sapevo nulla della cultura del paese a cui ero stato mandato, ma mi sentivo appassionato per la missione, avevo voglia di avvicinarmi alla vita delle persona e della piccola comunità cristiana locale. Evidentemente per poterlo fare bisogna parlare bene la lingua e conoscere la cultura perché l’evangelizzazione passa da lì.
Quando sono arrivato a Taiwan il 6 aprile 2017 ho dovuto dedicare due anni allo studio della lingua, e anche oggi il mandarino continua ad essere per me una sfida, non si finisce mai di imparare. E se ci vuole tempo per imparare la lingua lo stesso succede con la cultura molto distante dalla mia di origine. Ma è inevitabile: il vangelo come buona notizia deve affondare le sue radici nella cultura delle persone, nella vita e nella storia dei popoli e per questo ci vuole pedagogia e tempo.
La forma cinese di far quasi ogni cosa è metodica, costante, perseverante e senza pausa… a noi piace lasciar correre e poi fare tutto all’ultimo minuto meglio che possiamo. Loro no, fin da piccoli sono educati a questo stile e forma di essere, tutto è ben organizzato e calcolato… Vedere per esempio come hanno fatto con la pandemia: hanno chiuso tutto subito, i confini di Taiwan, dove ci sono stati i primi casi fuori dai confini cinesi, sono stati subito chiusi; si sono dati delle regole ferree e inderogabili e alla fine hanno avuto pochi morti. La loro disciplina è tutto.
Mi sembra interessantissimo vedere il loro sistema scolastico: tutti studiano e l’educazione viene prima di ogni altra cosa in modo tale che a 20 anni sono spesso laureati e qualche anno dopo sono dottorati. Il maestro è una autorità riconosciuta e quando vanno in pensione sono ancora onorati per il servizio che hanno prestato alla società. Questo sistema tocca inevitabilmente anche l’organizzazione della parrocchia e delle comunità cristiane: è difficile vedere lì i giovani perché loro vivono quasi richiusi nelle università e solo alla fine della loro formazione si interrogano a proposito del loro futuro e magari fanno scelte anche coraggiose e di fede ma le vocazioni, quando arrivano arrivano tardi almeno secondo il nostro modo di vedere.
Vedi, tutto questo non po’ non interrogare e anche trasformare la tua vita. La vita missionaria non solo purifica la nostra fede ma anche la nostra umanità, se siamo aperti e disponibili diventa un’esperienza profondamente arricchente. Il Vangelo ci sfida ad uscire e a prendere il largo anche se la tua missione è limitata geograficamente alla tua terra e questo succede alla maggior parte delle persone. Eppure l’esperienza del missionario geografico è qualcosa di molto profondo; è un'esperienza unica, da fare. Credo che tutti dovrebbero andare in missione”.