L’impegno della Chiesa in Mongolia raccontato dal prefetto apostolico di Ulaanbaatar
Nella nostra epoca, sempre più dominata dalle leggi del mercato, i discepoli del Signore sanno di non dover cadere nella tentazione di intendere anche l’evangelizzazione in termini di efficienza, risultati e ottimizzazione delle risorse. Sanno che l’ansia del raccolto finisce per far perdere la festa che si fa in cielo per ogni «pecora», «moneta», «figlio» ritrovati e l’invito a gioire con il Signore (Luca, 15). Lo sanno e accolgono l’invito, con gratitudine e stupore. Come accade in Mongolia, Paese nel quale i primi missionari giunsero nel 1992, su richiesta del governo che aveva appena stabilito relazioni diplomatiche con la Santa Sede dopo l’inverno del regime comunista durato settanta anni. Questa terra, cinque volte più grande dell’Italia, caratterizzata da rigidissimi inverni, è abitata da tre milioni di persone, in larga maggioranza buddiste; i cattolici costituiscono un piccolo gregge: anno dopo anno sono diventati 1.300. Le parrocchie sono otto, i sacerdoti 22 (di cui uno originario della Mongolia), le suore 46. A questi religiosi e religiose, che appartengono a dieci congregazioni, si aggiungono due laici missionari e un diacono mongolo che dopo il lockdown sarà ordinato sacerdote. Lo scorso 2 aprile Papa Francesco ha nominato prefetto apostolico padre Giorgio Marengo, missionario della Consolata, 46 anni, di cui 17 trascorsi in Mongolia.