La crisi nella vita dell’Apostolo *

Pubblicato in I missionari dicono

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Estratto da: Antonio Pitta. La Seconda Lettera ai Corinzi, Commento esegetico-spirituale, Città Nuova, Roma 2008

Un tesoro in vasi di creta (2 cor 7,4-12)

Il primo paragrafo della seconda dimostrazione è introdotto dalla tesi secondaria del v. 7 in cui Paolo anticipa quanto cercherà di provare sino alla conclusione di 5,10: i credenti e, in particolare, coloro che sono stati scelti per l’apostolato hanno un tesoro in vasi d’argilla, affinché sia visibile che la potenza o la capacità nel ministero non proviene da se stessi ma soltanto da Dio. Significativa è la relazione metaforica tra il tesoro e il vaso di creta che veicola un messaggio ricco di prospettive. Anzitutto il tesoro a cui allude è «lo splendore della conoscenza della gloria di Dio nel volto di Cristo» (v. 6) e, per rimando, «il vangelo della gloria di Cristo che è icona di Dio» (v. 4). Gesù Cristo è il «tesoro nascosto nel campo» per il quale vale la pena vendere tutto per acquistarlo (Mt 13,44); e Paolo ha lasciato perdere tutto ciò che poteva risultare un guadagno, considerandolo come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo (Fil 3,8). A sua volta, il «vaso d’argilla» è la stessa persona umana colta nella sua fragilità e debolezza. Già Cicerone nelle sue Tuscolane 1,22,52 annotava che «Nam corpus quidam vas est aut aliquod animi receptaculum». E così confessa l’orante della Comunità di Qumran: «E io, creatura d’argilla, che cosa sono? Impastato d’acqua, con chi sarò annoverato?» (1QHa 11,23-24).

Ascolta la prima parte dell'intervento.

Dalla convergenza delle due metafore risaltano diversi contenuti. Anzitutto si è posti davanti al disvalore tra il tesoro e il vaso d’argilla: nessuno pone un oggetto prezioso in un recipiente senza valore. Nello stesso tempo, poiché si tratta di un vaso d’argilla e non d’oro o di metallo, è notevole il rischio che si frantumi: rompendosi il vaso, si pone a repentaglio anche il tesoro. Il retroterra dell’AT aiuta a cogliere ulteriori dimensioni, come la funzione strumentale del vaso rispetto al tesoro; così scrive Is 64,7: «Ma tu Signore sei nostro padre; noi siamo argilla e tu Colui che ci dà forma». La scena del profeta Geremia nella bottega del vasaio (Ger 18,1-6) illustra, in modo vivido, la libera scelta del Signore nel formare i vasi secondo un suo progetto. Da questa istanza risalta l’orizzonte dell’elezione o della scelta che Paolo riprenderà in Rm 9,21: «Forse il ceramista non ha autorità sull’argilla, per fare della sua creta un vaso per uso nobile e uno per uso ignobile?». In pratica Dio ha scelto di collocare il tesoro del vangelo in vasi di creta affinché risalti maggiormente la sua potenza e la sua grazia. E poiché il paragrafo di 4,7-12 succede a quello dedicato al diffuso motivo della gloria e della luce (vv. 1-6), non è estranea alla portata della metafora la relazione tra l’opacità della creta e lo splendore della gloria manifestata in Cristo.

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Dunque sono diverse le accentuazioni che il congiungimento tra il vaso d’argilla, che è la persona umana, e il tesoro del vangelo: la sproporzione del valore, la strumentalità, la fragilità, l’elezione divina e il contrasto tra la luminosità e l’opacità. Chi è scelto dal Signore per recare nella sua esistenza il vangelo, non può che riconoscersi non all’altezza o incapace di custodirne l’incomparabile ricchezza, riprendendo la tesi generale dell’apologia paolina (2,16b in forma di domanda). Ma proprio di fronte alle sproporzioni tra il tesoro e il vaso di creta, risalta la sovrabbondante potenza di Dio che agisce con il suo Spirito per rendere lo stesso vaso all’altezza del tesoro, affinché non cada in frantumi di fronte agl’inevitabili urti dell’esistenza umana.

Per rendere più viva e concreta la relazione tra il tesoro di Cristo e il vaso d’argilla che abbiamo e che siamo, Paolo ricorre alla prima lista delle avversità che cadenzeranno la 2 Corinzi (vv. 8-9): analoghi cataloghi si trovano in 6,4-10; 11,23-27 e in 12,10 (cf. inoltre 1 Cor 4,10-13; Rm 8,35-39; Fil 4,11-14). Il genere dei cataloghi delle avversità (altrimenti noto come «peristatico») non compare per la prima volta nell’epistolario paolino ma è già diffusamente utilizzato dai filosofi antichi (in particolare Epitteto e Seneca) e dagli apocrifi dell’AT (cf. 2 Enoc 66,6). Quanto però risulta originale è il modo con cui Paolo rilegge e finalizza queste liste: non servono tanto per dimostrare l’indifferenza o l’apatia a cui perviene il saggio di fronte alle avversità interiori ed esteriori, quanto per denotare una relazione progressiva con Cristo e con quanti sono evangelizzati.

I credenti e, in particolare, gli apostoli, sono tribolati ma non angosciati, preoccupati ma non disperati, perseguitati ma non abbandonati, colpiti ma non uccisi, perché attraverso un processo di necrosi la stessa vita di Gesù prenda progressivamente spazio nel loro corpo sino a manifestarsi nella loro carne mortale. Siamo posti non di fronte ad una mimesi o ad un’imitazione della morte e risurrezione di Gesù, bensì alla relazione partecipativa e coinvolta con la sua morte e con la sua vita. Se a causa di Gesù (v. 11) i credenti e gli apostoli subiscono tutte le angherie citate nella lista delle avversità è perché nel loro corpo si realizzi una necrosi che, in modo paradossale, non ha come esito finale la constatazione della morte, bensì la stessa vita di Gesù in loro.

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Non è irrilevante l’uso del sostantivo «necrosi» al v. 10, invece di «morte» utilizzato nei vv. 11-12. Mentre nella vita umana si può verificare una morte improvvisa, la necrosi corrisponde alla morte progressiva dovuta ad una malattia: la necrosi è quel «cotidie morimur» su cui insiste spesso Seneca nelle sue Lettere a Lucilio. Tuttavia quanto è paradossale in questi versi è che al culmine della necrosi cristiana non si trova la morte ma la vita di Gesù in noi. Con il linguaggio della Lettera ai Galati, come e con Paolo ogni credente può dire: «Vivo ma non più io, vive invece in me Cristo; e il presente che vivo nella carne, vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19-20).

L’altro orizzonte, appena accennato in questo paragrafo, è quello della relazione con la comunità cristiana, rispetto alla quale Paolo può sostenere che «in noi opera la morte ma la vita in voi» (v. 12). Anche in questo caso, le difficoltà e le sofferenze che si affrontano a causa di Gesù non sono funzionali alla propria capacità di sopportazione, sino all’indifferenza, bensì alla vita che si trasmette a coloro che si generano alla fede. Di nuovo in Galati, ricorrendo al linguaggio della generazione Paolo dirà: «Figli miei, per i quali di nuovo soffro le doglie finché non sia formato Cristi in voi» (Gal 4,19-20). Pertanto alla partecipazione della morte e vita di Cristo si aggiunge quella con i destinatari del vangelo: una condivisione vitale ma che non può prescindere, in alcun modo, dalle avversità affinché la vita di Gesù trovi spazio non soltanto in chi evangelizza ma anche in chi è evangelizzato. Con Giovanni potremmo affermare che «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Bisogna perdere e mettere a repentaglio la propria vita perché il vangelo o Cristo trovino spazio nella nostra carne mortale e in quella degli altri. 

La forza nella debolezza (2 Cor 12,1-10)

L’ultimo paragrafo delle prove addotte da Paolo nel discorso immoderato riguarda le visioni e le rivelazioni del Signore (12,1). Molto probabilmente i suoi avversari e alcuni della comunità di Corinto lo accusano di non dimostrare nulla di eccezionale nell’esercizio del suo apostolato: non è sostenuto da alcuna rivelazione o visione del Signore (Gesù Cristo). Non sappiamo se a fenomeni eccezionali si appellassero, di fatto, i suoi oppositori ma su questo versante la corsa verso esperienze estatiche, come la glossolalia o il parlare in lingue mossi dallo Spirito (cf. 1 Cor 12–14), i Corinzi dovevano essere particolarmente sensibili. Invece l’insistenza di Paolo sull’amore più che sulla conoscenza di fenomeni religiosi eccezionali nasconde la mediocrità del suo apostolato.

Ascolta la seconda parte dell'intervento

L’attenzione si concentra su una visione realizzatasi 14 anni prima dall’attuale dettatura della lettera polemica (vv. 2-4) e su una rivelazione del Signore che lo ha sostenuto di fronte alla terribile «spina nella carne» (vv. 7-9). La lapidaria e incisiva sentenza del v. 10, in cui Paolo si professa forte quando è nella debolezza, chiude uno dei paragrafi più affascinanti del suo epistolario. Soffermiamoci in dettagli su queste tre parti del brano dedicato all’immoderazione a cui Paolo va incontro per difendere la consistenza del suo apostolato a Corinto.

a) Il rapimento. Per riferire di una visione degna di attenzione, Paolo racconta di un episodio verificatosi quattordici anni prima dall’attuale redazione della lettera polemica, che anche se successiva alla lettera della riconciliazione, si colloca tra il 54 e il 56 d.C.: l’episodio deve essersi realizzato intorno al 40-42 d.C. e si differenza, come fenomeno, dall’evento della visione-conversione-rivelazione di Damasco (cf. Gal 1,15-16). Purtroppo egli non aggiunge altri particolari che si sarebbero dimostrati preziosi per la sua autobiografia: sappiamo soltanto che si tratta di «un uomo in Cristo» (v. 2), ossia del periodo cristiano e non di quello pre-cristiano della sua esistenza. Ignoriamo la città, il luogo e il momento in cui «fu rapito sino al terzo cielo». E per rendere discreta la narrazione si serve della terza persona invece della prima persona singolare, riservando a quest’ultima il vanto nelle debolezze. Non descrive neanche i contenuti della visione: chi o che cosa gli fu dato di contemplare? E che cosa gli fu rivelato in quell’occasione? Possiamo soltanto dedurre dall’introduttivo v. 1 («visioni e rivelazioni del Signore») che poté contemplare il Signore, Gesù Cristo nella sua gloria, mentre le parole restano indicibili o inenarrabili. Certo si trattò di un’esperienza di rapimento particolarmente coinvolgente se è ancora vivo, nella mente di Paolo: «fu rapito nel paradiso» che corrisponde al «terzo cielo», il vertice dell’incontro con il Signore. E da questo versante la tripartizione dei cieli, intesi come luogo della presenza del Signore, corrisponde alla numerazione che si riscontra nell’apocrifo di 1 Enoc: «Gli uomini mi presero di là (dal secondo cielo) e mi innalzarono al terzo cielo e mi posero in mezzo al paradiso» (8,1). Pertanto, anche se raccontare delle proprie visioni e rivelazioni non serve per Paolo né tanto meno per la comunità, che invece si dimostra particolarmente sensibile verso fenomeni religiosi eccezionali, egli si vede costretto a relazionare di una visione che ha visto coinvolto, in modo più o meno cosciente, tutto il suo corpo o la sua persona.

b) La spina contro la carne. Come per contrappeso rispetto al rapimento sino al terzo cielo, Paolo riporta nei vv. 7b-9 la triplice supplica, rivolta al Signore affinché lo liberasse dalla «spina nella carne». Ma anche in questo caso, la descrizione non è dettagliata bensì si dimostra allusiva: in che cosa consiste la spina contro la carne? Quando si verificò l’episodio e quale ne fu la durata? Su questa difficile formulazione, che non si riscontra altrove in tutto il greco biblico e profano sino ad oggi, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Per questo si è pensato ad una malattia fisica di Paolo, come la cecità o l’epilessia, ad una di origine psichica, come la depressione e una turba di natura sessuale, sino alla possessione diabolica. A parte l’ultima interpretazione che conferirebbe un potere eccessivo a satana, al punto che neanche la supplica costante riuscirebbe a liberare Paolo dalla prova, le interpretazioni mediche e psicologiche non riscontrano sufficienti appigli nel suo epistolario. Forse l’ipotesi più sostenibile anche se è destinata, comunque, a restare tale è quella che identifica la spina nella carne con uno degli avversari di Paolo per le seguenti motivazioni:

1.      La proposizione del v. 7b è disposta nella seguente forma chiastica: «(a) Perciò affinché non mi esaltassi (b) mi fu data (c) una spina nella carne, (c’) un angelo di satana (b’) affinché mi schiaffeggiasse, (a’) affinché non mi esaltassi». La spina nella carne è posta in continuità con un angelo (nel senso di inviato) di satana, che evoca la relazione tra gli avversari di Paolo e satana, espressa in 11,14-15: quelli di Corinto sono inviati di satana che si mascherano in angeli di luce.

2.      Il sostantivo skolops (spina) è stato già utilizzato in Nm 33,55 per indicare i nemici d’Israele: saranno «come spine negli occhi e pungoli nei fianchi».

3.      Il gesto dello schiaffeggiare richiama gli oltraggi subiti dalla comunità di Corinto (cf. 11,20) e da Paolo (cf. 12,10) dagli avversari. Ricordiamo che schiaffeggiare una persona significa porne a repentaglio la dignità umana.

4.      L’anonimato con cui tratta l’offensore è tipico di Paolo nel citare i suoi avversari.

Oltre questi dati non possiamo giungere e Paolo stesso preferisce lasciare nell’indefinito la terribile prova da cui il Signore non lo ha liberato ma lo ha sostenuto con la sua grazia. Comunque nell’orizzonte della sua dimostrazione sulle visioni e rivelazioni, anche se la nostra curiosità rischia di limitarsi all’identificazione della spina nella carne, ciò che conta per Paolo è l’oracolo del Signore che, questa volta, a differenza di quanto è taciuto per il rapimento al terzo cielo, gli è consegnato: «Ti basta la mia grazia; infatti la potenza si realizza nella debolezza» (v. 9). Nonostante la perdurante sofferenza che gli procura la spina nella carne, è sostenuto non dalla sua capacità umana di sopportazione bensì dalla grazia del Signore. Anche in questo caso, come in occasione della fuga da Damasco (11,32-33), Paolo non esita a mettere a nudo il proprio tallone d’Achille, poiché non è la sua capacità che lo accredita come apostolo ma soltanto la grazia costante del Signore che lo spinge a proseguire nel suo apostolato. Spesso si è demoralizzati di fronte alle calunnie e alle invidie di quanti condividono il proprio ministero; ma queste non rappresentano un alibi, per quanto infamante, a non proseguire nel servizio da rendere al Signore e alla Chiesa. Al contrario, quanto dovrebbe essere consolidato è il rapporto con il Signore che sorregge chi ha chiamato al ministero con la sua grazia che non abbandona mai!

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c) La forza nella debolezza. Folgorante è l’assioma che chiude una delle pagine più affascinanti dell’epistolario paolino: «Quando infatti sono debole, allora sono forte». Ma per la sua bellezza l’espressione può essere soggetta a facili fraintendimenti che è bene diradare. La «debolezza» di cui si parla in questi versi non è quella naturale, caratteriale o psicologica che può accompagnare nel ministero, bensì quella che s’ingenera dalla relazione con Cristo e con il tesoro del vangelo. Se utilizzassimo l’espressione nel contesto di altre espressioni di debolezza, sarebbe facile cadere in forme di attenuanti, poiché tanto qualsiasi debolezza verrebbe mutata in forza dalla grazia del Signore. Al contrario si è esortati ad allenare il corpo e la mente per servirsi di quanto è necessario per non cadere nella distonia tra il vangelo e la propria vita.

Piuttosto non è fortuito che in tutti i cataloghi delle avversità che abbiamo commentato Paolo non alluda mai a debolezze naturali, caratteriali o psicologiche, a conferma che difficilmente la spina nella carne alluda a malattie di tipo fisico o psichico, bensì a debolezze che insorgono con l’esercizio del proprio ministero, come l’incapacità di parlare in modo altisonante del vangelo o l’impossibilità di farsi carico delle debolezze degli altri e l’ansia per tutte le comunità evangelizzate. Di fronte a queste debolezze la forza di Cristo e della sua grazia continua a sostenere e a dimorare su chi, nonostante i propri limiti, è stato chiamato per grazia nell’apostolato. Il verbo scelto da Paolo per segnalare la dimora della potenza di Cristo su di lui è di grande spessore: episkēnoun (letteralmente, «porre la tenda», v. 9). Nella forma semplice ricomparirà nel noto Prologo del vangelo di Giovanni: «La Parola si fece carne e pose la sua tenda (eskēnōsen) fra noi» (Gv 1,14). Il mistero dell’incarnazione del Verbo si è realizzato non soltanto quando si fece carne nel grembo di Maria ma ogniqualvolta si è posti di fronte alle difficoltà e alle debolezze nel portare nella propria carne il vangelo di Cristo. La Parola non ha assunto una volta per sempre la nostra carne ma ogni giorno viene a dimorare in noi e su di noi per non lasciarci soccombere di fronte alle avversità.

 

 

La crisis en la vida del Apóstol *

Un tesoro en vasijas de arcilla (2 cor 7,4-12)

El primer párrafo de la segunda demostración está introducido por la tesis secundaria del v. 7 en la que Pablo anticipa lo que tratará de probar hasta la conclusión del v. 5,10: los creyentes y, en particular, los elegidos para el apostolado tienen un tesoro en vasijas de arcilla, de modo que es visible que el poder o la capacidad en el ministerio no viene de ellos mismos sino sólo de Dios. Es significativa la relación metafórica entre el tesoro y la vasija de arcilla, que transmite un mensaje rico en perspectivas. En primer lugar, el tesoro al que alude es "el esplendor del conocimiento de la gloria de Dios en la faz de Cristo" (v. 6) y, por referencia, "el evangelio de la gloria de Cristo que es un icono de Dios" (v. 4). Jesucristo es el "tesoro escondido en el campo" por el que vale la pena venderlo todo para comprarlo (Mt 13,44); y Pablo dejó todo lo que se podía ganar, considerándolo como basura, para ganar a Cristo (Fil 3,8). A su vez, la "vasija de arcilla" es la misma persona humana atrapada en su fragilidad y debilidad. Ya Cicerón, en su Tuscolane 1,22,52, señaló que "Nam corpus quidam vas est aut aliquod animi receptaculum". Y así la Oración de la Comunidad de Cumrán confiesa: "Y yo, criatura de arcilla, ¿qué soy? Mezclado con agua, ¿con quién seré contado?" (1QHa 11,23-24).

De la convergencia de las dos metáforas, destacan diferentes contenidos. En primer lugar, uno se enfrenta al desvalor entre el tesoro y la vasija de arcilla: nadie coloca un objeto precioso en una vasija sin valor. Al mismo tiempo, como se trata de un jarrón de arcilla y no de oro o metal, existe un riesgo considerable de que se rompa: si el jarrón se rompe, el tesoro también corre peligro. El trasfondo del AT ayuda a comprender otras dimensiones, como la función instrumental del jarrón con respecto al tesoro; esto es lo que escribe Is 64,7: "Pero tú, Señor, eres nuestro padre; nosotros somos arcilla y tú eres el que nos da forma". La escena del profeta Jeremías en el taller del alfarero (Jer 18,1-6) ilustra vívidamente la libre elección del Señor de formar jarrones según su plan. De esta instancia destaca el horizonte de la elección o elección que Pablo retomará en Rm 9,21: ¿Quizás el alfarero no tiene autoridad sobre la arcilla, para hacer de su arcilla un jarrón para uso noble y otro para uso vil? En la práctica, Dios ha elegido colocar el tesoro del evangelio en vasijas de arcilla para que su poder y gracia se destaquen más claramente. Y como el párrafo de 4,7-12 sucede al dedicado al extendido motivo de la gloria y la luz (vv. 1-6), la relación entre la opacidad de la arcilla y el esplendor de la gloria manifestada en Cristo no es ajena al alcance de la metáfora.

Por lo tanto, hay diferentes acentos que la conjunción entre la vasija de arcilla, que es la persona humana, y el tesoro del Evangelio: la desproporción de valor, la instrumentalidad, la fragilidad, la elección divina y el contraste entre la luminosidad y la opacidad. Quien es elegido por el Señor para llevar el Evangelio en su existencia, no puede sino reconocerse indigno o incapaz de custodiar su incomparable riqueza, retomando la tesis general de la apología paulina (2,16b en forma de pregunta). Pero es precisamente ante la desproporción entre el tesoro y el jarrón de arcilla que se destaca el poder sobreabundante de Dios, que actúa con su Espíritu para hacer el jarrón mismo a la altura del tesoro, para que no se haga pedazos ante los inevitables choques de la existencia humana.

Para hacer más viva y concreta la relación entre el tesoro de Cristo y el jarrón de arcilla que tenemos, Pablo utiliza la primera lista de adversidades que mostrará en 2 Corintios (vv. 8-9): catálogos similares se encuentran en 6,4-10; 11,23-27 y 12,10 (cf. también 1 Cor 4,10-13; Rm 8,35-39; Fil 4,11-14). El género de los catálogos de la adversidad (llamado también "peristático") no aparece por primera vez en el epistolario paulino, pero ya es ampliamente utilizado por los filósofos antiguos (en particular, Epíteto y Séneca) y por los apócrifos del Antiguo Testamento (cf. 2 Enoc 66,6). Lo que es original, sin embargo, es la manera en que Pablo relee y finaliza estas listas: no sirven tanto para demostrar la indiferencia o apatía que el sabio recibe ante las adversidades internas y externas, como para denotar una relación progresiva con Cristo y con los evangelizados.

Los creyentes y, en particular, los apóstoles, están perturbados, pero no angustiados, preocupados, pero no desesperados, perseguidos, pero no abandonados, golpeados, pero no asesinados, para que a través de un proceso de necrosis la vida misma de Jesús pueda tener lugar progresivamente en sus cuerpos hasta que se manifieste en su carne mortal. No nos enfrentamos a una mímesis o a una imitación de la muerte y la resurrección de Jesús, sino a la relación participativa e implicada con su muerte y su vida. Si por causa de Jesús (v. 11), los creyentes y los apóstoles sufren todo el acoso mencionado en la lista de adversidades, es porque en sus cuerpos se produce una necrosis que, paradójicamente, no tiene como resultado final la observación de la muerte, sino la vida misma de Jesús en ellos.

El uso del sustantivo "necrosis" en el v. 10 en lugar de "muerte" utilizado en los vv. 11-12 no es irrelevante. Mientras que en la vida humana puede producirse una muerte súbita, la necrosis corresponde a una muerte progresiva por enfermedad: la necrosis es ese "cotidie morimur" en el que Séneca insiste a menudo en sus Cartas a Lucillo. Sin embargo, lo que es paradójico en estos versos es que en la cima de la necrosis cristiana no encontramos la muerte sino la vida de Jesús en nosotros. En el lenguaje de la Carta a los Gálatas, como y con Pablo todo creyente puede decir: "Y ahora no vivo yo, es Cristo quien vive en mí. Todo lo que vivo en lo humano lo vivo con la fe en el Hijo de Dios que me amó y se entregó por mí" (Gál 2,20).

El otro horizonte, que se acaba de mencionar en este párrafo, es el de la relación con la comunidad cristiana, con respecto a la cual Pablo puede afirmar que "la muerte actúa en nosotros, pero la vida en vosotros". (v. 12). También aquí, las dificultades y los sufrimientos que uno enfrenta a causa de Jesús no son proporcionales a la capacidad de uno para soportar, hasta el punto de la indiferencia, sino a la vida que se transmite a aquellos que son generados por la fe. De nuevo en Gálatas, usando el lenguaje de la generación, Pablo diría: "Hijos míos, de nuevo sufro por vuestros dolores de alumbramiento, hasta que Cristo haya tomado forma en vosotros" (Gal 4,20). Por lo tanto, a la participación en la muerte y la vida de Cristo se añade la de los destinatarios del Evangelio: un compartir vital, pero que no puede en modo alguno dejar de lado la adversidad, de modo que la vida de Jesús encuentre espacio no sólo en los que evangelizan sino también en los que son evangelizados. Con Juan podríamos decir que "si el grano de trigo caído en tierra no muere, queda solo; si muere, da mucho fruto" (Jn 12, 24). Debemos perder y arriesgar nuestras propias vidas para que el Evangelio o Cristo encuentren espacio en nuestra carne mortal y en la de los demás.

La fuerza en la debilidad (2 cor 12,1-10)

El último párrafo de la evidencia dada por Pablo de su discurso inmoderado se refiere a las visiones y revelaciones del Señor (12,1). Lo más probable es que sus adversarios y algunos de la comunidad de Corinto le acusen de no demostrar nada excepcional en el ejercicio de su apostolado: no está sostenido por ninguna revelación o visión del Señor (Jesucristo). No sabemos si sus adversarios apelaron realmente a fenómenos excepcionales, pero a este respecto la carrera hacia experiencias extáticas, como la glosolalia o el hablar en lenguas movidas por el Espíritu (cf. 1 Cor 12-14), los corintios debieron ser particularmente sensibles. En cambio, la insistencia de Pablo en el amor más que en el conocimiento de fenómenos religiosos excepcionales esconde la mediocridad de su apostolado.

El enfoque está en una visión realizada 14 años antes del presente dictado de la polémica carta (vv. 2-4) y en una revelación del Señor que lo sostuvo frente a la terrible "espina en la carne" (vv. 7-9). La lapidaria e incisiva frase del v. 10, en la que Pablo se profesa fuerte cuando está débil, cierra uno de los párrafos más fascinantes de su epistolario. Detengámonos en estas tres partes del pasaje dedicado a la desmesura con la que Pablo va a defender la consistencia de su apostolado en Corinto.

a) El Rapto. Para dar cuenta de una visión digna de atención, Pablo relata un episodio ocurrido catorce años antes de la redacción actual de la polémica carta que, aunque es posterior a la carta de reconciliación, se sitúa entre el 54 y el 56 d.C.: el episodio debe haber ocurrido alrededor del 40-42 d.C. y difiere, como fenómeno, del acontecimiento de la visión-conversión-revelación de Damasco (cf. Gál 1,15-16). Desgraciadamente no añade otros detalles que habrían resultado valiosos para su autobiografía: sólo sabemos que es "un hombre en Cristo" (v. 2), es decir, del período cristiano y no del período precristiano de su existencia. Ignoramos la ciudad, el lugar y el momento en que "fue secuestrado al tercer cielo". Y para hacer la narración discreta utiliza la tercera persona en lugar de la primera persona singular, reservando para esta última el alarde de sus debilidades. Ni siquiera describe el contenido de la visión: ¿quién o qué le fue dado a contemplar? ¿Y qué se le reveló en esa ocasión? Sólo podemos deducir del v. 1 introductorio ("visiones y revelaciones del Señor") que pudo contemplar al Señor, Jesucristo en su gloria, mientras que las palabras siguen siendo indecibles o inefables. Ciertamente fue una experiencia de secuestro particularmente envolvente si aún está vivo, en la mente de Pablo: "fue secuestrado en el cielo" que corresponde al "tercer cielo", la cumbre del encuentro con el Señor. Y de este lado la tripartición de los cielos, entendida como el lugar de la presencia del Señor, corresponde a la numeración que se encuentra en el apócrifo de 1 Enoc: "Los hombres me tomaron de allí [del segundo cielo] y me elevaron al tercer cielo y me pusieron en medio del paraíso" (8,1). Por lo tanto, aunque el relato de sus propias visiones y revelaciones no tiene ninguna utilidad para Pablo ni para la comunidad, que en cambio se muestra particularmente sensible a los fenómenos religiosos excepcionales, se ve obligado a relatar una visión que involucra, de manera más o menos consciente, todo su cuerpo o su persona.

b) La espina contra la carne. Como contrapartida al rapto al tercer cielo, Pablo reporta en el vv. 7b-9 la triple súplica, dirigida al Señor para que lo libere de la "espina en la carne". Pero incluso en este caso, la descripción no es detallada sino alusiva: ¿qué es la espina contra la carne? ¿Cuándo tuvo lugar el episodio y cuánto tiempo duró? Sobre esta difícil formulación, que no se encuentra en ninguna otra parte del griego bíblico y profano hasta hoy, se han vertido ríos de tinta. Por esta razón se pensó en una enfermedad física de Pablo, como la ceguera o la epilepsia, una de origen psíquico, como la depresión, o una perturbación de naturaleza sexual, hasta el punto de poder ser una posesión diabólica. Aparte de la última interpretación que conferiría un poder excesivo a Satanás, hasta el punto de que ni siquiera la súplica constante lograría liberar a Pablo de la dura prueba, las interpretaciones médicas y psicológicas no encuentran suficientes pruebas en su epistolario. Quizás la hipótesis más sostenible, aunque esté destinada a seguir siéndolo, es la que identifica la espina en la carne con uno de los adversarios de Pablo por las siguientes razones:

1.                  La proposición del v. 7b está dispuesta en la siguiente forma quística: "a) Por lo tanto, para que yo no fuera exaltado (b) se me dio (c) una espina en la carne, (c') un ángel de Satanás (b') para que me abofeteara, (a') para que yo no fuera exaltado". La espina en la carne se coloca en continuidad con un ángel (en el sentido de enviado) de Satanás, que evoca la relación entre los adversarios de Pablo y Satanás, expresada en 11,14-15: los de Corinto son enviados de Satanás que se disfrazan de ángeles de luz.

2.                  El sustantivo skolops (espina) ya ha sido usado en Nm 33,55 para indicar a los enemigos de Israel: serán "como espinas en los ojos y pinchazos en los flancos".

3.                  El gesto de la bofetada recuerda los ultrajes sufridos por la comunidad de Corinto (cf. 11,20) y por Pablo (cf. 12,10) por los adversarios. Recordemos que abofetear a una persona significa poner en riesgo la dignidad humana.

4.                  El anonimato con el que trata al delincuente es típico de Pablo al citar a sus adversarios.

No podemos ir más allá de estos datos y el propio Pablo prefiere dejar indefinida la terrible prueba de la que el Señor no lo liberó sino que lo sostuvo con su gracia. Sin embargo, en el horizonte de su demostración de visiones y revelaciones, aunque nuestra curiosidad corre el riesgo de limitarse a la identificación de la espina en la carne, lo que cuenta para Pablo es el oráculo del Señor que, esta vez, a diferencia de lo que se había callado para el rapto al tercer cielo, le es entregado: "Te basta mi gracia, pues el poder se realiza en la debilidad" (v. 9). A pesar del sufrimiento que le da la espina en su carne, no se sostiene por su capacidad humana de aguantar, sino por la gracia del Señor. También aquí, como en la ocasión de su huida de Damasco (11,32-33), Pablo no duda en poner al descubierto su talón de Aquiles, ya que no es su capacidad lo que le acredita como apóstol, sino sólo la gracia constante del Señor que le impulsa a continuar su apostolado. Uno se desmoraliza a menudo ante las calumnias y la envidia de los que comparten su ministerio; pero éstas no son una coartada, por vergonzosa que sea, para no continuar en el servicio al Señor y a la Iglesia. Por el contrario, ¡lo que debe consolidarse es la relación con el Señor que sostiene a los que ha llamado al ministerio con su gracia que nunca abandona!

c) Fuerza en la debilidad. El axioma que cierra una de las páginas más fascinantes del epistolario paulino es sorprendente: "Cuando de hecho soy débil, entonces soy fuerte". Pero debido a su belleza, la expresión puede estar sujeta a fáciles malentendidos que es bueno desentrañar. La "debilidad" de la que se habla en estos versículos no es la debilidad natural, de carácter o psicológica que puede acompañarnos en nuestro ministerio, sino la que se genera por nuestra relación con Cristo y con el tesoro del Evangelio. Si utilizáramos la expresión en el contexto de otras expresiones de debilidad, sería fácil caer en formas de circunstancias atenuantes, ya que cualquier debilidad se convertiría en fortaleza por la gracia del Señor. Por el contrario, se insta a entrenar el cuerpo y la mente para usar lo necesario para evitar caer en la distonía entre el evangelio y la propia vida.

Más bien, no es fortuito que en todos los catálogos de adversidad que hemos comentado Pablo nunca aluda a las debilidades naturales, de carácter o psicológicas, confirmando que es difícil que la espina en la carne aluda a las enfermedades físicas o mentales, sino más bien a las debilidades que surgen con el ejercicio del propio ministerio, como la incapacidad de hablar el evangelio de manera grandiosa o la incapacidad de asumir las debilidades de los demás y la ansiedad por todas las comunidades evangelizadas. Frente a estas debilidades, la fuerza de Cristo y su gracia continúa sosteniendo y morando en aquellos que, a pesar de sus propias limitaciones, han sido llamados por gracia al apostolado. El verbo elegido por Pablo para señalar la morada del poder de Cristo sobre él es de gran profundidad: episkēnoun (literalmente, "poner la tienda", v. 9). En forma simple reaparecerá en el conocido Prólogo del Evangelio de Juan: "El Verbo se hizo carne y puso su tienda (eskēnōsen) entre nosotros" (Juan 1,14). El misterio de la Encarnación del Verbo se realizó no sólo cuando se hizo carne en el vientre de María, sino cada vez que se enfrentó a dificultades y debilidades para llevar el Evangelio de Cristo en su propia carne. El Verbo no se encarnó de una vez por todas, sino que cada día viene a morar en nosotros y sobre nosotros para no dejarnos sucumbir ante la adversidad.

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Extraído de: Antonio Pitta. La Seconda Lettera ai Corinzi, Commento esegetico-spirituale, Città Nuova, Roma 2008

ANTONIO PITTA

Antonio Pitta es profesor ordinario del Nuevo Testamento y Pro-Rector de la Pontificia Universidad Lateranense, así como profesor invitado de la Pontificia Universidad Gregoriana. Trabaja como consultor del Consejo Pontificio para la Promoción de la Nueva Evangelización y la Catequesis. Sus comentarios sobre las cartas de Pablo (Romanos, 2 Corintios, Gálatas, Filipenses) han sido muy aclamados por la crítica y el público. Es vicepresidente de la Asociación Bíblica Italiana.

Libri pubblicati

— Il paradosso della croce, Saggi di teologia paolina, Piemme, Casale Monferrato 1998.

— Lettera ai Romani, Introduzione, traduzione e commento, Paoline, Milano 2009.

— La Seconda Lettera ai Corinzi, Borla, Roma 2006.

— Lettera ai Galati. Introduzione, versione e commento, EDB, Bologna 2009.

— Paolo, la Scrittura e la Legge, SB 67, EDB, Bologna 2008.

— Lettera ai Filippesi, Introduzione, traduzione e commento, Paoline, Milano 2010

— Sinossi paolina bilingue, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013

— L’evangelo di Paolo. Introduzione alle lettere autoriali, Elledici, Torino 2013.

 

 

 

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