Padre Ernesto Gilardino: “Dai frutti conoscerete l’albero”

Allamano nel Convitto Ecclesiastico a Torino Allamano nel Convitto Ecclesiastico a Torino Foto: Archivio IMC

I primi missionari/e sono senza dubbio il libro più eloquente che narra dell’Allamano come fondatore, padre e maestro. Vi presentiamo una breve biografia di Padre Ernesto Gilardino (1898 – 1937). Dai frutti conoscerete l’albero (cf. Mt 7, 16-20).

GILARDINO P. ERNESTO

Infanzia, gioventù e formazione alla missione

Ernesto Gilardino, ottavo figlio che venne a rallegrare la famiglia dei coniugi Carlo Gilardino e Teresa Torrione, nacque il 16 luglio 1898 a Corsila, Biella. Mentre frequentava assiduamente la parrocchia come chierichetto, sentì la voce del Signore che lo chiamava al Suo servizio. Diceva alla sua buona madre: « Mamma, voglio farmi prete »; ma la pia signora, che pur tanto avrebbe desi­derato di vedere un suo figliolo incamminarsi per la via del Santuario, triste doveva rispondere: « È impossibile, figliolo, siamo tanto poveri e chi ti potrà aiutare a pagare la retta in Seminario? ».

20240127ErnestoErnesto, al termine delle elementari, cercò quindi un impiego in una delle tante manifatture della sua Biella per essere di aiuto in qualche modo alla famiglia. All’età di 19 anni, infuriando la prima guerra mondiale, venne mobilitato e inviato in servizio al campo di aviazione di Venaria (Torino). «Non è che io facessi l’aviatore - diceva - non volo mai, non faccio che ripulire motori e caricare bombe ». Ma se egli non volava, nei giorni festivi sapeva scavalcare il muretto di cinta al campo per recarsi ad ascoltare la S. Messa e fare la Comunione. Alla chiesa poi si recava assiduamente nei tempi di libera uscita per passare lunghe ore dinnanzi al SS. Sacramento.

Al termine del conflitto, Ernesto tornò alla sua manifattura e venne incari­cato dell’assistenza ad una cinquantina di tessitrici: di lui il direttore dello stabi­limento si fidava. Il giovane assistente iniziò e svolse il suo lavoro come un vero apostolato. I1 suo cuore puro, che traspariva nello sguardo sereno, il suo comportamento modesto e dignitoso, le sue parole brevi: «Su, state buone,... abbiate pazienza,... perché parlate così?», dette con tanta convinzione, esercitavano un effetto magico e creavano nello stabilimento un’atmosfera nuova a cui nessuno poteva sfuggire.

Poiché la brama di essere sacerdote gli ardeva sempre in cuore, nei momenti liberi attendeva alla lettura di qualche buon libro o, dinnanzi ad un compagno condiscendente, si esercitava a leggere ad alta voce sunti di prediche, allo scopo di correggersi di un difetto di pronuncia, ben sapendo che l’esercizio del mini­stero sacerdotale è essenzialmente ministero di parola. Quando poi il gruzzolo raggranellato con i suoi risparmi gli parve sufficiente per pagarsi la retta in Semi­nario, cominciò a frequentarvi lezioni private serali su materie proprie del ginnasio, potendo poi meritare per la sua costanza ed impegno di esservi accettato il 14 ottobre 1922.

Si trovava da breve tempo in quel tanto bramato nido, quando al seminario di Biella arrivò un Missionario in cerca di vocazioni. Attratto dalla parola viva e persuasiva del P. Lorenzo Sales, Missionario della Consolata, il Gilardino sentì nascere in cuore il desiderio di lavo­rare per la conversione degli infedeli e pregò il Signore a fargli conoscere la sua volontà attraverso il Direttore Spirituale. Conosciutala, pronto alla chiamata, il 27 ottobre 1923 entrò nell’Istituto delle Missioni della Consolata.

Ernesto Gilardino con i suoi nuovi compagni aspiranti missionari continuò ed ultimò il biennio di Filosofia, e nell’ottobre 1924 fu ammesso al Noviziato che compì nella Casa di Pianezza sotto la guida del P. Giuseppe Nepote. Sotto la guida del Maestro, Gilardino approfondisce ulteriormente il suo rapporto con Dio, lo spirito dell’Istituto mettendo in pratica scrupolosamente gli insegnamenti del Fondatore. Lo stesso Maestro si accorge che Ernesto è portato sovente a manifestazioni di scrupolo che lo rendono dubbioso, titubante. L’ubbidienza pronta al Maestro gli permette di superare facilmente questo eventuale pericolo. È ammesso alla Professione Religiosa  e con gioia, il 15 ottobre 1925, emette i suoi voti. E da Pianezza passa al Seminario Maggiore a Torino, per lo studio della Teologia.

Il Ch. Gilardino di fisico robusto, di indole mite, seria e fattiva, non si distingueva per l’intelligenza vivace, ma per l’attenzione e l’impegno di rendersi conto di tutto e di approfondire il senso delle cose e delle parole. Poiché la memoria non lo favoriva, studiava con “ostinazione” e, con frequenza fino a tarda notte, potendosi servire della luce che proveniva da una lampada della strada, senza essere di disturbo ai compagni nella camerata.

Era sempre pronto ad offrirsi spontaneamente ad ogni fatica, e a questa generosità univa un’osservanza religiosa delicata, una vita di preghiera intensa. Alla scuola del Fondatore, Can. Giuseppe Allamano, che imparò subito ad amare ed apprezzare, si trovava pienamente a suo agio. Però quella vicinanza al Fondatore durò poco perché il Signore lo chiamò a sé il 16 febbraio 1926.

Nel secondo anno di Teologia venne incaricato dell’assistenza dei Fratelli Coadiutori. Attese all’ufficio con grande interessamento, ma soprattutto con grande amore. Partecipava alla vita dei Coadiutori, ai loro lavori, gioie e pene, aveva occhio ai loro bisogni, li assisteva infermi, li istruiva con parole buone e semplici, instillando l’amore a Dio e alla vocazione, li correggeva. « Preferisco un rimprovero dall’Assistente - diceva uno di essi - che una lode da un altro ».

Il 17 gennaio 1929 scrive finalmente ai suoi di casa: “Papà, fratelli e sorelle carissimi, notifico a voi tutti, carissimi, la lieta notizia: il 27 gennaio corrente, riceverò l’Ordinazione Sacerdotale. Inutile che esprima la mia felicità dopo tanti anni di attesa e di sospiri… Già, quanti anni? Più di venti, una vita! Comunicatelo agli zii, alle zie, ai cugini e parenti questa fausta notizia. Non vi nascondo però la mia titubanza nel vedermi dal Signore eletto a sì eccelsa vetta. E come non sgomentarmi, riflettendo alle parole di San Paolo che afferma dover essere il sacerdote un altro Gesù Cristo? La dignità è grandissima, la responsabilità ancora maggiore. Per questo, carissimi, oggi più che mai mi raccomando vivamente alle vostre preghiere, al fine di ottenere dal Signore la grazia di rendermi meno indegno di salire il santo altare”.

Ed i buoni Fratelli Coadiutori, che tanto amavano il loro Assistente, come gioirono il 27 gennaio quando nella chiesa di Gesù Nazareno a Torino, lo videro ordinato sacerdote per le mani di Mons. Ermenegildo Pasetto! Lo videro ancora in mezzo a loro per altri due anni, fino al giorno in cui tutto contento potrà finalmente annunziare: « Partirò presto: sono destinato alla Prefettura del Kaffa ».

Ormai alla vigilia della partenza, P. Gilardino dovette sottostare a una crisi non indifferente: sono io adatto alla missione? Potrò io affrontare le difficoltà di un nuovo ambiente, di una nuova lingua? Forse che la mia vocazione non sia la vita contemplativa? Questi dubbi non li chiuse in se stesso ma li rivelò al suo Padre Spirituale, P. Sandrone. Il Padre spirituale che lo conosceva bene lo rassicurò: va avanti sereno, questa è la tua vita e la tua strada!

La Missione

Ernesto con i Padri Colombo Cristoforo e Ricci Antonio lascia l’Italia con la nave ‘Genova’ il 4 ottobre 1931. Non dimentica che è la festa del Santo di Assisi e sotto la sua protezione affida il viaggio e la sua missione. Su quel viaggio, P. Gilardino lascia alcune pagine di ‘Note’ che fissano bene le impressioni, la sua gioia nel vedere l’Africa, i contatti con i passeggeri e le persone nei porti. Giunto finalmente sul campo, trascorre alcuni mesi alla Procura di Addis Abeba per una prima ‘climatizzazione’ alla vita africana e di missione, e poi passa alla residenza di Gouder a 144 km da Addis Abeba. Qui P. Gilardino trascorreva le sue giornate vicino alla mola del mulino e nello studio della lingua. Il 17 marzo 1932 viene nominato Superiore della Missione di Ghimbi, nel Wollega, dove rimane fino al 1° novembre 1935.

La missione di Ghimbi era situata in una zona fertile e salubre, sopra i 1500 metri, anche se risentiva ancora degli influssi malarici delle zone basse e paludose. Qui i missionari della Consolata, fin dal loro arrivo nella zona (1918), pensarono di farne un punto strategico per la loro presenza. La missione venne posta sotto la protezione di S. Michele Arcangelo. A poco a poco, attorno alla piccola cappella eretta in onore dell’Arcangelo, i missionari radunarono le prime famiglie cristiane. All’arrivo di P. Ernesto, P. Quaglia offre volentieri la conduzione della missione al neo arrivato e parte subito per un nuovo compito. La lingua ancora non gli viene bene, ma P. Ernesto non si scoraggia. Fin dai primi giorni il suo unico intento è quello di annunciare Cristo e curare il gregge che gli è affidato. E si mette subito di buzzo buono ad andare incontro alla gioventù, avviare nuove scuole, visitare gli ammalati, curare l’istruzione dei catecumeni. Nei momenti liberi si dedica volentieri a tanti lavoretti per i miglioramenti della missione.

Bertone prima e poi P. Farina giungono ad aiutarlo. Ed è proprio P. Farina a raccontare tanti aneddoti sulla vita della missione di Ghimbi e di P. Gilardino che P. Giuseppe Mina raccoglierà nelle 200 pagine del libro-biografia del confratello: “A ognuno la sua stella”. Anche un veloce accenno ad essi comporterebbe troppo spazio. Soltanto due esempi dello “stile missionario Gilardino” che caratterizza la sia vita: “Padre Gilardino ha la sensazione profonda di quello che è il compito del missionario: irradiare luce. Per questo egli predica tanto volentieri, anche se il ministero della parola è per lui grave fatica. Ma per predicare – in forma vera e propria – non è sempre possibile, è sempre possibile parlare di Dio alle anime che si incontrano lungo il cammino.

Si tratta di sapere cogliere l’occasione, e a padre Ernesto le occasioni non mancano mai. Le trova al mulino, nell’incontro fortuito lungo la carovaniera. L’uomo che sale alla collina in cerca di lavoro, il povero che gli stende la mano, il fanciullo che gli corre incontro, il pagano che siede dinnanzi alla capanna, il negoziante di ‘tief’, tutti gli servono per gettare un ponte, stabilire un contatto di vita! Dolcemente, con quel sorriso buono che spiana la via, tronca le prevenzioni, suscita desideri di bene e lascia nell’animo di chi lo incontra un richiamo salutare” (pp. 83-84).

“Quei semi gettati con tanto amore, germogliano, crescono, si sviluppano al calore della grazia divina. I catecumeni aumentano di anno in anno e le feste vengono rese più belle dal conferimento dei Battesimi solenni: alla vita terrena che sfugge, sono aperte le vie dell’eterno gioire. Monsignor Luigi Santa, il nuovo Prefetto Apostolico, viene per amministrare la Cresima dopo una preparazione che s’è prolungata per mesi. Oltre cinquanta giovinezze devono essere segnate col Crisma della Forza, Soldati di Gesù. Quanto è bello mirare quel gruppo di biancovestiti attorno a Monsignore! Padre Gilardino tiene l’ultima istruzione ed è presente pure il Superiore: ora egli non ha più bisogno di leggere la predica, e i suoi accenni si fanno teneri, scuotono ed appassionano, commuovono: c’è chi piange. Effusione dello Spirito, quella! Anche Monsignore è commosso” (p. 89).

Ecco altro passo del libro, quanto mai eloquente nell’illustrare lo “stile missionario Gilardino”: “O l’Africa ti brucia o tu bruci l’Africa, dice un missionario. Padre Gilardino ‘brucia l’Africa’ perché ha incontrato Colui che ‘ha portato fuoco sulla terra’. Lo Spirito Santo, quando trova un’anima docile, se ne impossessa e soavemente la guida. Padre Ernesto è uno di quelli cui fa da guida il Signore. Al Malca Hola aveva trovato un ambiente difficile, freddo, con appena un centinaio di cristiani. Poco alla volta egli riverbera l’onda del fervore vissuto ed il bene germoglia: i cristiani salgono ora a trecento e nuove messi maturano lentamente ma sicuramente”  (p. 117).

Ernesto non si arroga mai la pretesa di fare tutto da solo. Cerca, ovunque possibile, dei collaboratori: P. Farina, le Suore, i catechisti, i capi villaggio. Li rende responsabili affidando loro mansioni alla loro portata e non superiori alle loro forze. P. Farina si assume la responsabilità della scuola dei ragazzi e le Suore quella delle ragazze. La formazione morale e spirituale la riserva a se stesso. Per la visita ai villaggi si alterna con P. Farina.

Dove P. Ernesto trovasse la forza per portare avanti un ritmo così intenso di evangelizzazione, è facile indovinarlo. Basta vedere come impostava le sue giornate. Al mattino lunghe soste davanti al tabernacolo precedono la celebrazione dell’Eucaristia. Altrettanto alla sera, dopo una cena veloce, eccolo dirigersi furtivo verso la chiesa. E ora il tempo è tutto suo per un colloquio prolungato con il suo “amico” Gesù.

Nel 1935 scrive in Italia al fratello Teodoro: “La mia occupazione è sempre quella che sapete: catechismi, scuola, visite ai malati, preghiera”. Il 15 agosto segna una svolta nella missione di Ghimbi. Giunge l’ordine perentorio alle Suore missionarie di partire subito per la capitale, perché l’Italia è entrata in guerra con l’Abissinia. Anche i due missionari si tengono preparati per una ormai non lontana partenza dalla missione. Affidano alle persone più fidate la missione, rimandano a casa gli allievi e le allieve, preparano le comunità cristiane…

La partenza dei missionari è per fine ottobre. A nostri due si uniscono altri missionari della zona e la meta è Asmara per aggirare pericoli di imboscate. Il viaggio è lungo e dura un mese e mezzo perché devono passare attraverso il Sudan e raggiungere l’Eritrea. Le peripezie e gli intoppi durante il viaggio non si contano. Il 19 dicembre giungono ad Asmara, dopo un viaggio di 2.800 km percorsi in 49 giorni. Da Asmara i nostri missionari proseguono per Addis Abeba e, dopo alcuni giorni di riposo, vengono subito tutti arruolati come cappellani militari delle truppe italiane di occupazione.

Gilardino, sebbene a disagio con il nuovo compito per il fatto di essere al servizio delle truppe di occupazione, si butta a capofitto nel lavoro che gli è più congeniale, la cura pastorale delle persone. Messe e confessioni, aiuto ai feriti negli ospedali, disponibilità a recarsi anche in luoghi disagiati dove si incontrano le truppe. Nei soldati P. Ernesto non vede uomini di guerra, ma dei poveri giovani, lontani dalla patria e dalla famiglia, che non comprendono nulla di quella guerra, che sentono il bisogno di contattare le loro famiglie lontane e sovente non ne sono in grado. Padre Ernesto fa di tutto per dare loro una mano, sovente prendendosi lui stesso l’impegno di scrivere ai parroci in Italia per avere notizie dei familiari dei soldati, oppure nel fare lunghe code per sbrigare pratiche negli uffici governativi al loro posto.

Gilardino viene poi nominato cappellano dell’Ospedale Italiano, adiacente alla Casa Procura dei missionari, che rigurgita di ammalati, sia italiani che indigeni. Qui, in mezzo ai malati, trascorre gran parte delle sue giornate: consola, rinfranca gli scoraggiati, ma soprattutto cerca di riconciliarli con Dio. A lui interessa soprattutto la salute spirituale di quei poveri infermi.

Anche le carceri degli indigeni divengono presto una porzione del suo servizio pastorale. Riesce a comunicare con molti carcerati, grazie alla sua conoscenza della lingua oromo. Molti di loro invece parlano amarico che lui non conosce. Eccolo allora dedicarsi con impegno allo studio di questa difficile lingua, aiutato in questo da P. Bruno Michele. E proprio qui, in mezzo ai suoi carcerati, contrarrà il tifo petecchiale, che in breve tempo lo porta alla tomba.

L’eroicità del missionario

Il P. Gilardino nel periodo del suo apostolato africano, come già aveva fatto in Italia, agì con la diligenza e costanza tenace di chi vuole compiere a perfe­zione il suo dovere. Dapprima si applicò con tutta la sua energia allo studio della lingua indigena per poter capire gli africani e per poter dire loro quello che gli ardeva in cuore.

Sapeva che la bontà è la prima e più potente arma che fa breccia sul cuore dell’uomo e l’usò con tutte le persone che incontrò sul suo cammino: indigeni, soldati, ufficiali, ammalati, prigionieri. Per gli indigeni era il «Padre buono », per gli altri una « Mamma » un « vero sacerdote » sempre pronto a dare con i doni spirituali, una buona parola, un sorriso, l’aiuto di piccoli servizi.

Amò tanto il prossimo, perché tanto amava Dio al quale si teneva unito con continua preghiera. La S. Messa era per lui il momento più bello della giornata il « suo Tabor » come diceva.Quando si recava da un posto all’altro, seminava di Ave Maria il suo cammino; e a sera riprendeva il colloquio con il suo Signore, protraendolo per lunghe ore nella notte: diverse mattine fu trovato addormentato ai piedi del Tabernacolo.

Egli insegnava che « le anime si comprano a prezzo di sacrifici. Non si fa mai troppo per esse, se pensiamo a Gesù che per salvarle è morto in croce ». Per maggiormente rassomigliare al Divino Maestro e meritare le sue benedizioni, era amante del lavoro che gli si presentava nella giornata e lo impreziosiva con non poche mortificazioni e vere penitenze corporali. « Padre buono, abbiatevi riguardo... Che cosa faremo noi se vi ammalate? Per amore dei nostri figli abbiatevi riguardo ».Egli ascoltava commosso questa supplica dei suoi cristiani di Ghimbi, li ringraziava, ma non poteva promettere: « Voi, miei buoni anziani, avete ragione, ma io sono missionario!».

Gilardino avrebbe voluto far di più ancora per il Signore, rinchiudendosi in una trappa per fare vita esclusivamente di preghiera e di penitenza; ma rinunciò anche a questo desiderio in perfetta ubbidienza a chi in nome di Dio gli aveva detto: « L’Africa è la sua trappa ». Era questo « l’ultimo consiglio » che ricevette dal Padre Barlassina, Superiore Generale, al quale aveva esposto il suo desiderio quando all’Asmara veniva nomi­nato cappellano militare.

Sul letto di morte il 3 gennaio 1937 poteva quindi esprimergli, sereno e contento, la sua sentita riconoscenza: un vero canto di trionfo del religioso gene­roso e ubbidiente: « Dal letto, morente, invio a V. S. Rev.mo questo breve scritto, ma quando a V. S. giungerà io non sarò più tra i mortali, ma tra le braccia del mio amato Dio. Rinnovo i miei santi Voti. Deo gratias della Sua speciale bontà per me e dei Suoi sapienti consigli, specie dell’ultimo. Arrivederci nel bel Paradiso ».

Padre Giuseppe Mina, nel libro « Ad ognuno la sua stella », con stile vivo e piacevole, narra con ampiezza di particolari la vita, la serena morte e la trionfale sepoltura del P. Ernesto Gilardino e riporta pure le nume­rose testimonianze di stima con cui il Confratello fu ricordato dopo il suo trapasso.

Tra le tante citiamo le seguenti. Il P. Gaudenzio Barlassina, Superiore dell’Isti­tuto e, un tempo, Prefetto Apostolico del Kaffa, ha scritto. « Dal suo primo arrivo in Missione, padre Gilardino rivelò essere dotato di carattere dolce, mite, paziente. Era laborioso, non perdeva tempo, non si risparmiava nella fatica, non attirava gli sguardi, non parlava dei suoi affari, dei suoi meriti; sempre pronto a fermarsi, ad ascoltare tutti senza distinzione, pronto a cambiare impiego o lavoro su due piedi, senza lamenti, rimbrotti e critiche. Fu un adoratore del SS. Sacramento, un uomo che vive di Dio e ne zela la gloria e gli interessi sino al sacrificio. P. Gilar­dino non fece della politica, e nel silenzio raggiunse lo scopo ».

La morte

Il lavoro nelle carceri di Addis Abeba porta P. Gilardino a contatto con tanti ammalati colpiti da malattie infettive. Lui però non si ferma quando si tratta del bene spirituale di quelle persone. Si china su di loro, passa ore ed ore in mezzo a loro. Si sente stanco, ma il Natale è alle porte e sempre richiede un cumulo di impegni pastorali, a cui P. Ernesto non si sottrae. Il 28 Dicembre si attarda nel lavoro presso l’Ospedale, rincasa tardi. È stanco, molto stanco. Si mette a letto e per alcuni giorni alterna la celebrazione della Messa con il riposo. La comunità intanto si preoccupa del suo stato di salute. Si fanno alcuni esami e l’esito è purtroppo “tifo petecchiale”. P. Gilardino e P. Occelli colpito dallo stesso male vengono ricoverati nell’ospedale e messi nella stessa stanza. La situazione di salute di P. Ernesto peggiora velocemente. Riceve l’unzione degli infermi e il viatico. Ha il presentimento chiaro che non guarirà e che presto morirà. L’attesa della morte è però accompagnata da serenità e la speranza. Sa che lo attende il Paradiso. I confratelli si alternano al suo capezzale e sono in continua preghiera. P. Ciravegna che lo assiste durante la notte viene richiesto dal malato di aiutarlo a scrivere alcuni biglietti per i parenti lontani.

È P. Gilardino stesso che tenta di vergare alcune righe, aiutato dal confratello. Il primo scritto è per il suo Superiore: A.A. 3-1-37

Veneratissimo Padre, dal letto, morente, invio a V.S. Rev.ma questo breve scritto, che quando a V. S. giungerà io non sarò più tra i mortali, ma tra le breccia del mio amato Dio. Rinnovo i miei santi Voti. Deo gratias della sua speciale bontà per me e dei Suoi sapienti consigli, specie dell’ultimo. Arrivederci nel bel Paradiso.

Umilissimo figlio, P. Ernesto Gilardino. Non dimentica i parenti lontani: “Carissimi fratelli, sorelle e parenti, Vi saluto, vi benedico tutti in quest’ora della mia agonia.Per carità, pensate ad allevare bene i piccoli, non tralasciate mai di mandarli alla chiesa, all’oratorio. Vi attendo tutti in Paradiso con me.

A.A. 3-1-1937,  Vostro aff.mo Ernesto

Il 12 gennaio 1937 è sabato, giorno della Madonna. Una processione di confratelli, consorelle, operai, ammalati passato davanti al suo letto per un ultimo saluto. Anche Mons. Santa, il Prefetto apostolico, è presente e gli sussurra: “Si ricordi di noi, dell’Istituto, delle Missioni, dei confratelli, delle consorelle!”. Riesce ancora a muovere il capo per un assenso e poi è la morte.

La salma di P. Gilardino, conforme al desiderio da lui espresso, anziché nel campo per i militari, viene sepolta accanto ai suoi Confratelli, ed ancor oggi riposa nel cimitero di Addis Abeba. Dopo la morte, hanno scritto di lui confratelli, consorelle, conoscenti. Qualche esempio.

Mons. Luigi Santa, Vicario Apostolico del Gimma, che vide e seguì il P. Gilardino nel suo apostolato, specie negli ultimi tempi: « La morte del Giusto, preziosa agli occhi di Dio, ha coronato quella vita di pietà, di zelo, di sublime semplicità evangelica, che tutti potemmo ammirare nel carissimo Confratello... Non mi stupirei che su quella tomba fiorisse il miracolo!... ».

Il Superiore dell’Istituto P. Barlassina che fu prefetto del Kaffa afferma: “Dal suo primo arrivo in Missione, padre Gilardino rivelò essere dotato di carattere dolce, mite, paziente. Era laborioso, non perdeva tempo, non si risparmiava nella fatica, non attirava gli sguardi,, non parlava dei suoi affare, dei suoi meriti; sempre pronto a fermarsi, ad ascoltare tutti senza distinzione, pronto a cambiare impiego o lavoro su due piedi, senza lamenti, rimbrotti, critiche. P. Gilardino non fede della politica e nel silenzio raggiunse lo scopo!”

Il Dott. Borra che lo ebbe in cura: “Come operino i santi è difficile descriverlo, ma penso che non possano agire in modo diverso da come egli ha agito. […] Il suo sangue succhiato dai pidocchi a goccia a goccia non sarà meno glorioso di quello dei martiri versato per un colpo di spada”.

Cfr. Biografia: “Ad ognuno la sua stella”, di P. Giuseppe Mina, 1951.

Ultima modifica il Sabato, 27 Gennaio 2024 22:27

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