Aprire la porta per accogliere chi è nel bisogno

Padre James Lengarin con p. Stefano Camerlengo, Superiore Generale prima di lui. Nella seguente foto insieme alla nuova Direzione Generale. Al fondo una recente celebrazione con i segni dell’autorità Samburu. Padre James Lengarin con p. Stefano Camerlengo, Superiore Generale prima di lui. Nella seguente foto insieme alla nuova Direzione Generale. Al fondo una recente celebrazione con i segni dell’autorità Samburu. Padre Julio Caldeira, Archivio IMC
Pubblicato in I missionari dicono

I missionari della Consolata hanno eletto James Bhola Lengarin, del Kenya, come nuovo Superiore Generale della Congregazione. È la prima volta che un sacerdote africano viene scelto per guidare l'Istituto fondato nel 1901 dal beato Giuseppe Allamano. James Lengarin, sacerdote missionario della Consolata, ha 52 anni.

Puoi raccontarci brevemente la tua storia?

Sono nato il 15 aprile 1971 a Maralal, in Kenya. Sono il figlio di Lapus Leaburia e Naiduri Leaburia. Purtroppo non ho mai conosciuto mio padre perché è stato ucciso da un elefante pochi mesi prima che io nascessi e sono cresciuto come qualsiasi pastorello nomade della mia tribù Samburu. Ero solito pascolare le pecore, le mucche ei cammelli della mia famiglia. Crescendo in famiglia, insieme ad altri bambini del villaggio, amavo invitare le persone a venire a mangiare a casa nostra e il giorno in cui non venne nessuno dissi "come mai oggi nessuno viene a mangiare con noi?". Questo fatto rimane nella mia memoria come seme di accoglienza, condivisione, solidarietà e apertura verso chi non ha da mangiare. Sono entrato nella comunità dei Missionari della Consolata nel 1990, ho completato il mio percorso formativo e sono stato ordinato sacerdote il 18 luglio 1999, a Wamba, in Kenya.

Perché hai scelto la vita religiosa e missionaria?

Ho deciso di essere un missionario della Consolata perché volevo davvero lasciare la mia gente, la mia cultura e la mia nazione per testimoniare la Parola di Gesù Cristo ad altri popoli. Il mio entusiasmo di bambino per aiutare, accompagnare e cercare a gran voce chi ha bisogno di un bocccone mi ha sempre spinto ad andare oltre me stesso e creare spazio per gli altri. I missionari della mia parrocchia di origine insistevano perché rimanessi nella diocesi, ma avevo un forte desiderio di lasciare il mio paese.

Ricordi qualche episodio significativo della tua vita missionaria?

Ci sono due episodi che mi hanno fatto crescere. Quando ho finito la mia formazione a Roma, ho chiesto al formatore di darmi un po’ di tempo per fare un ritiro di 40 giorni alla Certosa di Pesio. Lui mi aveva detto: “non mi sembra che tu abbia bisogno di quell'esperienza!" ma poi ho preparato la mia ordinazione con questi 40 giorni di deserto. In quei giorni di silenzio assoluto, assaporando quotidianamente la Parola di Dio, mi è successo qualcosa nella cappella dell'adorazione. Una voce soave, dolce e precisa mi ha detto: “Diventa un fuoco che accende altri fuochi”. Nella mia vita questa frase mi ha sempre accompagnato, ma non l'ho mai rivelata a nessuno fino al 12 giugno, quando sono stato eletto Superiore Generale e di nuovo quella frase mi è stata in qualche modo sussurrata nuovamente all'orecchio.

Il secondo episodio mi è capitato quando ero parroco a Nairobi e stavo visitando lo slum “Deep Sea”. Quello spazio, una zona molto limitata e precaria, albergava di notte circa diecimila persone; la mattina i bambini non andavano a scuola e invece i genitori andavano a lavorare per i ricchi della città e tornavano solo alla sera nelle loro baracche stanchi morti. Un giorno ho pianto quando ho visto persone vivere così mentre altri vivevano nell'opulenza. Il giorno dopo ho celebrato quattro messe al Santuario della Consolata e in ognuna ho raccontato questa esperienza. Nella chiesa c'era silenzio assoluto. Dopo qualche istante, ho chiesto a tutti di fare offerte ogni prima domenica del mese per sostenere le famiglie di “Deep Sea”. Un uomo si alzò, prese la parola e disse: "Padre James, facciamolo subito, e inizierò con ventimila dollari".

 

Sei il primo superiore generale della Consolata di origine africana. Come sei arrivato a dirigere l'Istituto?

Quando i miei confratelli mi hanno eletto, sono rimasto sorpreso perché avevo altri progetti per la mia vita missionaria. Volevo lavorare con i nativi americani, qualcosa che mi stava a cuore da molto tempo. Rimasi in silenzio per alcuni minuti e mi vennero le lacrime agli occhi mentre tutti aspettavano in silenzio. È stato un momento difficile per me, ma tra i singhiozzi ho detto: “Sì, con l'aiuto di Dio e dei confratelli”.

Il fatto che io sia africano non mi è venuto neanche in mente. Ci ho pensato solo dopo, quando ho sentito altri commentare che ero il primo africano dopo 122 anni e il decimo successore del fondatore. Ciò che mi ha dato fiducia è stato il fatto che nei sei anni precedenti, come Vice Generale, avevo incontrato tanti confratelli, visitato tutti i paesi dove lavoriamo, e conosciuto le culture dei popoli in mezzo ai quali viviamo il nostro impegno missionario. Conoscere queste cose mi incoraggiava e in parte spaventava.

Che lettura fai dell'istituto in questi 122 anni di storia?

Molte cose sono cambiate. Come ci dice tante volte Papa Francesco, siamo in un “cambio di tempi”. Per noi i cambiamenti più grandi sono quelli del mondo in cui viviamo. La scienza, la tecnologia, la comunicazione veloce, l’economia e la finanza hanno stravolto il mondo. Nella chiesa e nell’Istituto sono cambiati i paradigmi della missione, il modo di essere missionari e di fare la missione. Viviamo in un tempo di crisi di identità, appartenenza, gestione del tempo e dello spazio. Cosa significa essere missionario ad gentes per i non cristianie stare lontano da casa per tutta la vita? Chi sono i veri destinatari della missione ad gentes? Anche noi Missionari della Consolata siamo cambiati: su un totale di 905 missionari 518 siamo africani, 249 europei, 131 americani e 7 asiatici. 

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E allora secondo te quali sono oggi le sfide della missione?

La Chiesa che cambia rimane comunque una Chiesa attenta al numero di battezzati, di praticanti, di persone che ricevono i sacramenti e si impegnano nella missione della chiesa. Eppure ci sono altri aspetti da considerare: la Chiesa come corpo di Cristo deve rispondere sempre ai cambi che ci indicano i segni dei tempi.

Nel 1962, il papa Giovanni XXIII aveva aperto le porte e le finestre della Chiesa inaugurando il Concilio Vaticano II con il preciso obbiettivo di “aggiornare” la vita della Chiesa. Anche oggi dobbiamo vivere lo spirito di questo concilio se vogliamo affrontare le sfide del nostro tempo. Per esempio oggi molti sacerdoti sono in età avanzata e le nuove vocazioni al ministero ordinato continuano a diminuire, soprattutto in Occidente. Dobbiamo pensare alle conseguenze legate a questo calo e anche ai gravi danni causati dagli abusi sessuali su minori.

Quali sono i tuoi sogni per la Chiesa e l'Istituto?

Continuo a sognare un futuro di speranza, costruendolo insieme ad altri, in collaborazione con tutti i membri della Chiesa e non solo. Il mio primo sogno si basa sulla certezza che la Chiesa di Dio esisterà sempre; probabilmente non sarà fatta di grandi moltitudini, ma sarà più simile a una Chiesa piccolo gregge. Io sogno una Chiesa decentrata e che guardi alle periferie del mondo; una Chiesa più inclusiva nel suo governo e che sappia coinvolgere attivamente i laici nella pastorale. 

John Allen, nel suo libro “The Future Church” (2009), diceva che il cattolicesimo del futuro sarebbe stato molto diverso. La Chiesa del futuro non sarà occidentale, né bianca, né ricca; si opporrà alla guerra e al capitalismo del libero mercato; sarà più attenta ed evangelica con rispetto alle questioni culturali, alla propria identità e al pluralismo religioso. 

Oggi nei seminari abbiamo bisogno di una formazione rinnovate e di équipes di uomini e donne che accompagnino i seminaristi come se fossero parte di una famiglia. 

Per il mio Istituto religioso sogno una famiglia come l'ha voluta il nostro fondatore, il Beato Giuseppe Allamano; una famiglia di persone consacrate per la missione “ad gentes” e disposte a vivere nelle periferie per tutta la loro vita; missionari che vivono la comunione fraterna e hanno Maria come loro modello e guida.

Papa Francesco propone il cammino sinodale e il coinvolgimento dei laici nella pastorale. In che modo l'Istituto promuove questo cammino sinodale?

Papa Francesco propone un maggiore riconoscimento dell'autorità delle conferenze episcopali nazionali e regionali ed esorta a pensare la Chiesa non come un corpo gerarchico ma come un corpo sinodale, dove tutti hanno responsabilità e sono disposti a camminare insieme.

Noi religiosi viviamo già questo metodo nella nostra quotidianità: tutti i missionari sono coinvolti nelle cose che riguardano la nostra vita e programmiamo insieme le nostre attività anno dopo anno. Tuttavia possiamo ancora migliorare nelle attività pastorali: coinvolgere maggiormente i laici e tutto il popolo di Dio nel cammino che stiamo percorrendo.

* Intervista Apparsa in “Fátima Missionária”, rivista dei Missionari della Consolata in Portogallo.

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