Il 28 gennaio è stata celebrata la conclusione del "Biennio sulla persona". Questa liturgia, diponibile per tutte le comunità IMC grazie a una diretta You Tube, chiudeva un importante spazio di formazione permanente offerto a tutti i Missionari della Consolata sparsi nel mondo. A continuazione una sintesi della riflessione che padre Stefano, Superiore Generale, ha offerto a tutti i presenti.

Perché un biennio sulla persona

L’iniziativa (di celebrare) un Biennio sulla persona del Missionario è stata una risposta all’invito del XIII Capitolo Generale perché l’attenzione alla persona del missionario è al centro di ogni cammino e di ogni rinnovamento. “Noi missionari siamo il primo bene dell’Istituto e siamo chiamati a diventare veri discepoli di Gesù Cristo per testimoniarlo e annunciare il suo Regno” (XIII CG 10). Siamo, inoltre, consapevoli che “siamo missionari preparati e con buona volontà, ma anche molto fragili” (XIII CG 11).

Il Biennio ha voluto essere un Corso di formazione Continua da vivere con due obiettivi principali: dare un forte impulso al processo di rivitalizzazione personale e dell’Istituto e “aiutare il missionario a riporre il centro della propria persona in Cristo e nella missione secondo il Carisma dell’Istituto” (cfr. Atti XIII CG 16.34) e in questo modo ridare un nuovo slancio alla missione ad gentes.

(Se guardiamo alle nostre fonti vediamo che, quella che oggi chiamiamo formazione continua) non è assente dalle preoccupazioni del Beato Allamano. La sua attenzione alle situazioni dei missionari, specialmente operanti in Africa o sui fronti della guerra, riguardava la loro incolumità fisica, la cura della salute, il cibo, ma soprattutto “il morale”. Di qui la sua costante opera di presenza, in tutte le forme possibili, per incoraggiare, sostenere, ricordare la grandezza della fedeltà alla vocazione. Non si stanca di suggerire i mezzi spirituali e la fraternità.

Lui aveva pensato, per la vita dei sui missionari, a una specie di periodo di “aggiornamento”. Aveva coscienza che i primi partiti per l’Africa avevano avuto una preparazione affrettata e pensava di rimediarvi con un periodo di formazione, quasi un secondo anno di noviziato, al loro ritorno. Individuò pure una casa in Torino a questo scopo. Ma l’intento, anche a lui, non riuscì. I missionari non ne vollero sapere. Secondo p. Nipote, questo fu uno dei dispiaceri che gli diedero.

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L'importanza di formarsi

Compito del Biennio è stato quello di aiutare nella formazione della persona del missionario.

Formare è prendere la forma di Cristo, assimilando i suoi sentimenti verso il Padre (cf. Fil 2, 5) (cf. VC 65) attraverso un processo educativo/formativo continuo, che dura tutta la vita e comprende la totalità della persona.

È Lui il centro di ogni processo formativo, la forma che ogni persona in formazione (permanente e iniziale) è chiamata a riprodurre. Formarsi è sentire come Gesù per agire come Gesù, assumere la sua sensibilità. Formarsi, configurarsi con Cristo, fino a poter dire con Paolo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). 

In ogni processo formativo si tratta di FORMARE PER LA VITA, è la stessa vita nella sua quotidianità la prima scuola formativa. In questo senso niente di ciò che forma parte della nostra esistenza può considerarsi marginale nella formazione.

Perché la vita ci formi è necessario LASCIARSI ACCOMPAGNARE. Non è possibile una formazione alla sequela di Cristo senza un accompagnamento. Accompagnare significa condividere il pane (cum panio): il pane della propria fede, il pane della propria vocazione/missione, il pane della propria debolezza, il pane della propria gioia... 

CON LA MISSIONE AL CENTRO. Non è la Chiesa, e con essa, di conseguenza, la vita consacrata, che fanno la missione, ma è la missione a fare l’una e l’altra. La missione ci chiede di “uscire da sé stessi” per andare alle “periferie esistenziali”. 

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A partire da domani

Quando rientreremo nella nostra missione, dobbiamo mettere in pratica quanto abbiamo imparato. Dopo il tempo della semina arriva la raccolta. Siamo aperti alla Parola, rinnoviamo il nostro entusiasmo, continuiamo a sognare. L’Istituto è la nostra famiglia, è vivo, ha ancora tante potenzialità e tanto dinamismo. Sentiamoci parte e protagonisti della vita e della missione dell’Istituto. Crediamo con impegno e amore in Gesù Cristo, impegniamoci ad essere testimoni del Vangelo, reagiamo alla superficialità e all’egoismo con la nostra donazione e impegno quotidiano. Siamo dei missionari “nella testa, nella bocca e nel cuore”.

"Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!». Ma il Signore gli rispose: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?". (Giona 4,9-11)

Il profeta Giona che è modello del missionario che anche oggi è chiamato ad uscire da sé stesso, dai pregiudizi, dalle proprie chiusure, per attraversare le città e i villaggi, abitare le periferie esistenziali per annunciare la misericordia di Dio. 

L'orizzonte urbano, ben rappresentato da Ninive, è il nuovo contesto globale con cui la missione della Chiesa, la vita cristiana e la fede in Dio debbono fare i conti, la riscoperta delle periferie e delle loro contraddizioni quali ambienti da cui partire per un nuovo modello di spiritualità e di evangelizzazione. La città è anche un ambito multiculturale dove si può osservare un tessuto connettivo di gruppi di persone provenienti da altri Paesi che condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali e spesso in città invisibili. 

“Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso”. (EG. 71)

La missione oggi ci spinge ad attraversare le zone marginali, le periferie del degrado, dove sono moltissimi i "non cittadini", i "cittadini a metà" o gli "avanzi urbani" e frequentare le solitudini, delle città ghetto, dove le case e i quartieri si costruiscono più per isolare e proteggere che per collegare e integrare. "Dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione … non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire un'umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città." (RM. 37b)

Osare la novità

La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a programmare la nostra vita e fare progetti pastorali, secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti. Ma i cambiamenti non devono farci paura perché appartengono profondamente al dinamismo della missione. Quando ci avviciniamo alla figura dell’Allamano vediamo che lui sa per esperienza personale che la fondazione stessa dell'Istituto è un’idea nuova su una realtà statica. Avrebbe potuto fare riferimenti a parametri consueti, ai modelli di missione già esistenti, e a ciò che i grandi maestri insegnavano. Invece l’Allamano vive la fondazione in stato di ricerca, vuole quindi che la sua opera si identifichi con l'insorgere di nuove idee. Intuisce che il "solito", l'abitudinario, il sicuro del passato, sono destinati a mutare soprattutto grazie alla capacità di lasciarsi interpellare dalla novità dentro il presente e la semplice evidenza dei fatti. 

Cosa fa l’Allamano per immettere idee nuove nel dinamismo di crescita dell’opera a cui aveva dato vita? Lui è anche discepolo degli eventi, dei popoli e dei suoi missionari. Questa primordiale intuizione di sé e della sua opera quali discepoli della missione rende l'Allamano ricettivo al divenire della storia con la quale saprà camminare e crescere. 

È vero che l’Allamano non mise mai piede in Africa, ma accettò come componente della identità della sua opera l'ideale e il modo di viverlo di chi faceva missione sul campo. 

Sorprendente ed unica la sua capacità di trasformare in carisma la missione vissuta, in perfetta armonia con la sua vocazione di mettersi a servizio di chi voleva fare missione. Per questo stabilì con i suoi una corrispondenza costante e l'obbligo di affidare il quotidiano alla carta dei diari che egli considerava fonte per imparare e formare.

“L’Allamano, leggendoli, veniva informato sulla vita che conducevano i suoi missionari giorno dopo giorno, anche nei minimi particolari. Leggendoli oggi, si ha l’impressione che quei missionari non volessero assolutamente rimanere distaccati dal loro Padre. Sapevano anche che lui leggeva qualche tratto ai giovani dell’Istituto per entusiasmarli, qualche parte veniva addirittura pubblicata sul bollettino “La Consolata” al fine di tenere vivo il contatto con la gente. Tutto ciò, però, era secondario. Il vero obiettivo dei diari, sia per l’Allamano che per i missionari, era che lui potesse essere informato di tutto e, pur rimanendo a Torino, fosse in grado di accompagnare i suoi figli nel loro difficile compito missionario. (P. Francesco Pavese)

La trasformazione dell’ambiente

Con questa capacità di ascoltare la missione vissuta, l'Allamano comprese che essa si alimentava di un altro elemento essenziale: l'impegno a "trasformare l'ambiente" che l'accoglieva e a "lasciarsi trasformare" dallo stesso. Per trasformare l’ambiente, il Kikuyu fu tante volte “scarpinato” da padri, suore e fratelli che impararono a guardare da vicino la gente che incontravano e ne rimasero totalmente coinvolti in rapporti umani e profondi. 

Le scelte operative degli inizi, adottate dai missionari, potevano tutte ridursi ad un denominatore comune: stare con la gente, ad essa apparteneva il tempo, i soldi, le fatiche e le capacità personali del missionario. Le cure ai malati, scuole, catechismi e soprattutto, le quotidiane visite ai villaggi, facevano scomparire persino il bisogno della missione, intesa come residenza dei missionari. Fino a quando l'Allamano visse, ritornò sovente nelle lettere ai missionari sulla necessità di formare in questo modo l'ambiente. Detto da Lui “la trasformazione dell’ambiente” acquisiva il valore di paradigma.

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Foto Kim Myeong Ho

L’ambiente trasforma i missionari

La trasformazione dell'ambiente passava necessariamente attraverso la trasformazione del missionario stesso: testa e cuore compresi. Questo elemento di reciprocità diviene l’antidoto alla tendenza istintiva di chi partiva di aggrapparsi alle certezze di ciò che si aveva e si era per cui l'ideale pareva consistere nel riprodurre in missione un angolo della propria identità. 

La trasformazione dell’ambiente invece risultava in un processo che destrutturava tutti e tutto, anche le cose più sacre. L'entrata in questo processo aveva un solo punto fermo di partenza: la realtà. Si trattava sempre di una realtà sconosciuta che imponeva al missionario di mettersi alla sua scuola: imparare a parlare, a mangiare, a gestire, a vestire e faticare in modo diverso da quello abituale. 

Insomma, per trasformare l'ambiente bisognava divenirne parte accettandone i valori, i rischi, l'irrazionalità, la povertà e le tante sfaccettature rappresentate dalla diversità delle persone. E così i missionari umilmente cominciano ad assaporare il gusto di chiedere e ricevere dalla gente: la propria lingua, la propria giovialità, la propria fede, un'accoglienza senza interesse, una fiducia sincera. Si sentono oggetto di una infinita amorevole pazienza e scoprono che più importante di quello che danno e dicono è ciò che essi sono.

Se vogliamo convertire la nostra visione dobbiamo decentrarci perché ci deve stare a cuore Ninive! Perché i cambiamenti delle nostre parrocchie, dei gruppi ed uffici, avverranno solo dopo aver raccontato quali segni di grazia vediamo nelle "Ninive" di oggi e sul territorio e che cosa infiamma il nostro cuore di nuova comprensione dell'evangelo e di rinnovata responsabilità missionaria. Papa Francesco lo dice in questo modo: "non consumate troppo tempo e risorse a guardarvi addosso, a elaborare piani auto-centrati sui meccanismi interni, su funzionalità e competenze del proprio apparato. Guardate fuori, non guardatevi allo specchio. Rompete tutti gli specchi di casa" (Messaggio alla Pontificie Opere Missionarie, 21 maggio 2020)

FAI DIVENTARE PREGHIERA

La Missione come Ad Gentes

“Fine primario del nostro Istituto, come di ogni altro, è la santificazione dei membri... Esso ha inoltre il proprio fine speciale e secondario, che ne forma la caratteristica ed è la sua ragion d'essere: l'evangelizzazione degli infedeli” (VS 18)
“Voi avete da andare in Africa... No, no, noi siamo per convertire i non cristiani: teniamo duro sul nostro scopo: le forze divise si guastano.” (Conferenze Spirituali del Servo di Dio Giuseppe Allamano, III, 295)

Cosa è che rende i missionari diversi? Cosa è che ci identifica? Noi spesso diciamo che il nostro ID è la nostra chiamata “ad gentes”. Forse, quando papa Francesco dice che la Chiesa è chiamata a protendersi, si riferisce allo stesso movimento: il movimento in uscita verso ciò che è diverso, verso ciò che è lontano o percepito come tale da noi. La chiamata ad uscire dal proprio mondo verso uno più grande che non è quello in cui siamo nati, in cui siamo cresciuti e al quale siamo abituati, ma il mondo di tutta l’umanità. Questo mondo esterno a cui siamo chiamati può essere identificato in questi diversi domini: il dominio ecologico (cfr. Marco 16, 15 “tutte le creature”); il dominio sociale (cfr. Luca 4, 8 e 9, 1-2 “tutti coloro che necessitano guarigione/liberazione”); il dominio culturale (cfr. Matteo 28, 19 “Gentes” “popoli di tutte le etnie”); il dominio religioso (cfr. Giovanni 4, 19-26 e 20, 21-23 “tutti coloro che adorano ciò che non conoscono”); il dominio geografico (cfr. Atti 1, 8 “I confine della terra”).

Dominio ecologico

Siamo tutti consapevoli che il cambiamento climatico è causato in larga misura dall’attività umana. La ricerca del profitto non tiene in conto la purezza dell’aria che noi e tutte le creature viventi respiriamo, la purezza dei nostri oceani, l’integrità delle foreste, l’esistenza di molte specie create. Come scrive Papa Francesco nella Laudato Sì, il futuro del nostro pianeta che siamo chiamati ad evangelizzare (cfr. Mc. 16,15) ha bisogno di una nostra conversione ecologica perché tutto è interconnesso.

La preoccupazione ecologica è condivisa da tutti i popoli e religioni. La Laudato Sì è il documento del Papa che ha trovato l’eco più completa nel mondo. Raccogliendo la sfida ecologica, ci uniamo in una causa comune con persone di ogni provenienza.

Dominio sociale

Da secoli ci sono migrazioni di persone che cercano all’estero sicurezza e migliori condizioni economiche. Tuttavia, ciò che li rende un problema sociale oggi più di ieri è che il divario tra ricchi e poveri sta aumentando. I poveri non sono visti come una risorsa ma come una preda da sfruttare; ricevono lavori meno retribuiti, senza protezione legale, assicurazione sanitaria o sicurezza sociale. Gli immigrati sono spesso visti dai cittadini come una minaccia al loro status finanziario e sociale acquisito –non di rado ottenuto sfruttando proprio il loro lavoro a bassa retribuzione. Di solito, i politici senza scrupoli cavalcano i “sentimenti viscerali” delle persone per raccogliere il loro sostegno e vivere sulle loro spalle.

Coloro che soffrono di più per mancanza di solidarietà, politica corrotta e egoismo generale sono i poveri, gli svantaggiati, gli estranei, coloro che soffrono di malattie senza cure o terapie. La missione di Gesù è annunciare loro la Buona Novella (cfr. Lc. 4,8). E manda i suoi discepoli a liberarli da tutti i mali (cfr. Lc. 9, 1-2).

La sfida sociale si mescola a volte con quella razziale. Per affrontare queste sfide spesso è necessario superare i vari costi delle barriere sociali e consuetudinarie.

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Dominio culturale

Forse mai nella storia come oggi le diverse culture rischiano di essere cancellate dalla globalizzazione, da un’unica cultura dominante. Se da un lato non è compito dei missionari preservare le culture dall'estinzione e, dall’altro, il Vangelo si incarna sempre in determinate culture, è chiaro che il Vangelo stesso non è una cultura. Il Vangelo, infatti, è annunciato e testimoniato nella cultura del missionario, ma il missionario deve aiutare la comunità locale a distinguere il Vangelo dalla cultura propria del missionario, affinché i cristiani lo possano vivere nella propria cultura. In questo senso, il Vangelo può essere visto come un lievito di culture. Il dialogo fruttuoso tra il missionario e la comunità locale richiede che il missionario sia fedele al Vangelo e la comunità locale sia fedele a quegli elementi della propria cultura che il Vangelo può purificare, far sbocciare e arricchire.

Nel Vangelo di Matteo, quando Gesù affida la missione agli undici, dice: “Andate e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt. 28,19). La parola originale tradotta in “nazioni” è “ta etna”. Una parola che è la radice di termini come “etnico” ed “etno-“, che denotano le usanze, le caratteristiche, la lingua, la cultura specifiche di un popolo. Le “nazioni” – alle quali sono inviati i discepoli – si riferiscono, quindi, alla pluralità dei popoli distinti non solo per la loro collocazione geografica, ma piuttosto per le loro caratteristiche peculiari.

Nella sua lunga storia, la Chiesa ha a volte mostrato stima per le culture dei popoli – ne è prova, ad esempio, l’esistenza di diversi Riti all’interno della Chiesa cattolica; ma, a volte, ha avuto un approccio meno rispettoso. Forse una revisione critica della storia potrebbe aiutare ad affrontare la sfida culturale di oggi.

Una sfida culturale non viene solo dalle “nazioni”, ma anche dai gruppi dentro e fuori le “nazioni”. Un esempio lampante di ciò è, ad esempio, il mondo dei giovani. Il mondo dei giovani ha il suo gergo, la musica, i modi, i gusti, le modalità di comunicazione che trascendono i confini geografici. La partecipazione dei giovani alla vita liturgica della Chiesa è senza dubbio un indicatore di quanto il mondo giovanile sia stato toccato dall’annuncio e dalla testimonianza del Vangelo della Chiesa; e, d’altra parte, di quanto la Chiesa ha saputo aiutare i giovani a manifestare la loro fede nelle loro espressioni specifiche. Raggiungere i giovani – nelle loro scuole, università, luoghi sportivi, tempo libero, attività di volontariato – diventa un imperativo.

Dominio religioso

Tuttavia, per i suoi discepoli ebrei, il comando di Gesù di portare il Vangelo a tutte le “nazioni” aveva un significato evidente: significava che dovevano portare la Buona Novella a tutti quei popoli che non erano ebrei e che avevano altre religioni.

È stata una sfida immensa! Dovevano entrare in contatto con altri popoli, trovare un terreno comune ed entrare in dialogo con le loro religioni, annunciando e testimoniando la novità del Vangelo.

Come avvicinarsi a persone che avevano credenze diverse dalle proprie, eppure, a volte, profonde, rispettando l’opera dello Spirito in loro? Gesù, nel suo ministero, ha avuto degli incontri memorabili con non ebrei: il centurione a Cafarnao (cfr. Mt. 8,5-13), la donna siro-fenicia (cfr. Mc. 7, 24-30), la samaritana (cfr. Gv. 4, 4-42) – dove ha valorizzato la loro fede ma accendendo in essi il cammino verso una verità più profonda. Significativo al riguardo è il dialogo con la Samaritana, dove egli riconosce la sua tradizione religiosa, le annuncia il suo credo e la conduce ad una fede più profonda (cfr. Gv. 4, 19-26).

Oggi ci troviamo di fronte a credenti appartenenti a diverse religioni organizzate e a un numero crescente di non credenti: persone indifferenti alla religione, che sono colpite dalla secolarizzazione e vivono in un “mondo post-cristiano”. Nel mondo occidentale e nei grandi contesti urbani di altri paesi, essi sono spesso i nostri vicini di casa. Come raggiungerli? Qual è il terreno comune, gli interessi comuni dove può iniziare e crescere un dialogo verso una verità più profonda? Non di rado la ricerca di un mondo migliore, sia a livello ecologico che nel campo della giustizia e della pace, unisce le persone, nonostante le loro diverse credenze religiose o la loro mancanza.

Dominio geografico

Il Risorto invia i suoi discepoli “fino ai confini della terra” (At. 1,8). Infatti, anche al tempo di Gesù, persone di diverse religioni e non credenti si potevano trovare anche a Gerusalemme, nella città santa dell’ebraismo e tuttavia il comando di Gesù è chiaro: i cristiani devono testimoniare la Buona Novella non solo dove sono, ma raggiungere i luoghi dove vivono i popoli ed essere vicini a loro!

Il Nuovo Testamento mostra come la Chiesa si espanse in tutte le direzioni e in pochi anni raggiunse anche il centro dell'Impero: Roma. Il nostro Beato Fondatore, spinto da questo imperativo, aprì la Chiesa di Torino all’Africa e fondò i nostri Istituti.

Le nostre Costituzioni affermano chiaramente che scopo della nostra Congregazione all’interno della Chiesa è “l’evangelizzazione dei popoli” e pone come prima attività propria del fine della nostra Congregazione “l’annuncio della Buona Novella ai popoli non ancora evangelizzati, preferibilmente ai più bisognosi e trascurati” (Costituzioni n. 4 e n. 17).

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