Se penso a mio marito Luca, la persona che è stato, come è vissuto e anche come è morto...devo dire che in lui hanno prosperato e si sono conservati tanti valori che aveva ricevuto fin da bambino. Lui frequentava l'oratorio ed è cresciuto in un ambiente sano.

Luca non è nessun santo, anche lui aveva i suoi piccoli e grandi difetti, era una persona normale ma dotato di una umanità davvero grande, era quello il suo massimo valore. 

Quando decise di impegnarsi in una carriera diplomatica -quello era sempre stato il suo sogno- non ha mai rinunciato a vivere fino in fondo le cose che aveva imparato fin da bambino. Per lui fare l'ambasciatore significava non lasciare mai indietro nessuno in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi situazione. Le attività diplomatiche erano la sua missione e le viveva con lo stesso entusiasmo dei missionari che, per esempio, aveva conosciuto numerosi in Congo.

L'umanità è la sua eredità. Non ha fatto cose straordinarie ma era straordinario al momento di fare il suo dovere, con precisione, con attenzione, con un grande spirito di servizio.

Nella mia religione islamica il martire è colui che diventa testimone di vita. Se Luca fosse ancora in vita forse non saremmo qui a parlare di lui, ma adesso che non è più fra noi diventa testimone credibile di quei valori che ha vissuto e che servono per fare di questo mondo una casa più accogliente. 

La vita è un dono prezioso e bisogna difenderla in ogni modo ma per chi come Luca la sa dare diventa un dono ancora più prezioso, un modello, un testimone, un martire appunto, che può ispirare il cammino di tutti.

Con Luca sono morte due persone, l'autista era di religione islamica e anche lui ha lasciato una famiglia, ma sono oggi i nostri testimoni che ci animano a non arrenderci.

*Zaquia Seddaki è la vedova dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio, ucciso in Congo nel 2021 Presidente e fondatrice dell'associazione "Mama Sofia" voluta per difendere il valore della pace e dare voce a chi non ha voce.

I pigmei mi avevano costruito una capanna, quando trascorrevo parte della settimana in uno dei loro accampamenti. La più bella, ma guai a dirglielo. Loro sono così: non si valorizzano, hanno di sé una concezione umile, riflesso del giudizio altrui. A forza di essere considerato inferiore, ci credi. Non li senti mai dire le mie tradizioni, la mia cultura; devi essere tu a ricordarglielo. Eppure vantano una conoscenza profonda dell'ambiente naturale, anche nella farmacopea verde".

Padre Flavio Pante, Missionario della Consolata, lavora da venti anni a Bayenga, nel distretto orientale Alto-Uélé della Repubblica democratica del Congo (Rdc). In quel territorio dalle rosse piste di argilla, i pigmei della locale etnia mbuti sono circa 1.500, sparsi in 36 accampamenti.

"La valorizzazione della cultura pigmea è cruciale –ci dice padre Flavio durante una sua visita in Italia– insieme al lavoro sulla percezione negativa che le popolazioni bantu hanno del popolo che è stato il primo abitante di quelle aree di foresta". Adesso quest'ultima è invasa e i pigmei si trovano in mezzo al guado. Un nuovo popolo, di cercatori e tagliatori, spiegava padre Flavio alla rivista Missioni Consolata nel 2019, si inoltra sempre più nella foresta a caccia di oro e legname e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti. 

I cercatori artigianali "stanno quasi peggio dei pigmei": si arrangiano e vendono a poco prezzo agli intermediari. Nei loro agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie e violenza. Oggi il fenomeno ha dimensioni enormi. I pigmei ormai vengono assoldati per il compito, gravosissimo, di trasportare i tronchi fino ai luoghi raggiungibili dai camion. E la selvaggina fugge.

L'alimentazione si adatta alla nuova realtà. Avendo meno carne a disposizione, i pigmei si rivolgono a quello che trovano ai bordi della foresta: manioca, patate dolci e foglie. Veri esperti, raccolgono miele selvatico, frutti spontanei, funghi, fibre. E barattano: la modalità dello scambio di merce è più consona alla loro cultura. Trovano anche insetti, bruchi, termiti… "no, non sanno che sono considerati il cibo del futuro", sorride padre Flavio. Però i cambiamenti climatici sono arrivati fin là. La stagione delle piogge non rispetta più i suoi ritmi. Da qualche tempo il miele scarseggia nei tronchi.

Gli accampamenti non sono più nel folto della foresta, ma ai bordi, spesso in prossimità dei villaggi bantu. Alcuni si sono stabilizzati totalmente. "La capanna è dove si dorme. La copertura è fatta di foglie, e sono molto meglio delle lamiere. Ogni tanto bisogna affumicare, contro umidità e insetti. Quando abitavo con loro avevo la zanzariera: ma per evitare che mi arrivassero addosso serpenti a caccia di topi". L'insediamento potrebbe facilitare un'integrazione con le al tre popolazioni. Resta un cammino difficile. Innanzitutto perché non hanno un territorio ben delimitato. E poi non sono abituati all'agricoltura. Diventano spesso manodopera mal pagata dei bantu.

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L'invasione culturale è ben spiegata da padre Flavio: "Il pigmeo ha visto il mercato del villaggio bantu e i suoi specchietti per le allodole, ha ascoltato la radio, ha sperimentato gli alcolici. Ormai non può staccarsene, penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina ai bantu e si accampa". La grande sfida é l'interazione paritaria. "In Burundi e Ruanda i pigmei sono già sedentarizzati. In Congo ci arriveremmo per via dell'invasione della foresta". 

Occorre lavorare insieme ai pigmei affinché si inseriscano in modo paritario e traendone vantaggi: cure per la salute, scuola, nutrizione, agricoltura, lavoro, protezione.

"Cogliere dagli anziani i saperi è fondamentale perché preservino il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale sia di narrazioni; prima che la biblioteca vivente se ne vada", osserva padre Flavio, che del resto si occupa soprattutto di salute. L'artigianato è un altro pezzo forte: dai vasi di argilla alle stuoie e ai canestri di fibra alla pittura su cortecce con pigmenti naturali.

I giovani Pigmei "si trovano a non essere più cacciatori e non ancora coltivatori. Comunque non hanno più la tecnica per gestire questa rischiosa attività". Cosa cacciavano? Padre Flavio spiega: "In passato c'è stato un commercio enorme di zanne di elefante. Oggi non più. Cacciavano l'okapi, grosso come un cavallo, ora vietato. Ci sono i dik dik, piccole antilopi, facoceri, cinghiali, scimmie, armadilli e tartarughe...". I consumi della cosiddetta "bush meat" (carne di foresta) da parte dei pigmei sono comunque poca cosa, nel quadro degli attacchi alla biodiversità e della sofferenza degli animali selvatici.

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E i Bambini a scuola? "Cerchiamo di sensibilizzare i genitori e li sosteniamo per i materiali e le spese, ma i pigmei hanno solo due stagioni, secca e piovosa. E non hanno mesi ma lune. Da gennaio vanno nella foresta a raccogliere il miele e cacciare e si portano i bambini. Così la scuola si deve adattare ai diversi periodi dell’anno. Offriamo poi due anni di prescolarità solo per i bambini pigmei, con ritmi e linguaggio adatti».

«Sulle donne pigmee contiamo per la prevenzione nel campo della salute. Si occupano di condizione femminile, economia domestica, igiene dell’accampamento», dice padre Flavio. Si parte dalla lotta alla malnutrizione causata da difficili situazioni familiari o dalle numerose infezioni intestinali per il consumo di acqua o cibi contaminati. «La nostra missione è particolarmente attenta al recupero nutrizionale, in particolare con il latte di soia. Abbondano poi le malattie polmonari –per via delle escursioni termiche fra giorno e notte– le parassitosi e l’Aids». Questo è legato alla prostituzione intorno agli accampamenti dei cercatori d’oro e dei tagliatori di alberi».

Altre minacce sono il consumo di alcol e lo sfinimento nei trasporti pesanti. E poi, «abbiamo in corso una campagna di sensibilizzazione per la tubercolosi che fa ancora parecchie vittime, e la lebbra che ha ripreso a diffondersi; ma la cura adesso c’è». E il dispensario di Bayenga è diventato un piccolo ospedale, con un medico statale.

Un frutteto anche per i pigmei è una delle azioni portate avanti da padre Flavio. «Gli alberi da frutto tropicali –banane, ananas–  sono generosi. Ogni domenica distribuiamo le piantine ricavate dai getti. Vanno a ruba presso bantu e pigmei!». Per la coltivazione dei campi e degli orti, bisogna fare i conti con la difficoltà culturale dei pigmei: da raccoglitori e cacciatori, non sono pronti a seminare, innaffiare e pensare di avere cibo solo dopo settimane o mesi. E’ importante incoraggiare il lavoro in comune –tipico delle battute di caccia– e mettere a disposizione terreni. «Forniamo sementi, attrezzi, tecniche e consigli con animatori sul campo. Insistiamo sulle coltivazioni di facile rendimento come campi di banane di manioca, di mais, che non richiedono grandi cure».

* Marinella Correggia è giornalista de "Il Manifesto" che ha pubblicato questo articolo nella sua edizione del 3 di novembre.

La narrazione che trasforma

Padre Clovis Audet, Missionario della Consolata, è nato nel 1935 in Quebec (Canada); ha emesso la prima professione religiosa nel 1959 ed è stato ordinato sacerdote nel 1963. La sua vocazione missionaria l’ha portato a lavorare 22 anni in Colombia; altri 17 in Africa (fra Costa d'Avorio e Congo) e poi, inarrestabile, in anni recenti ha raggiunto il Messico dove si trova tutt’oggi. Un mese fa ha pubblicato in Canadà il suo libro di memorie “Qui m’a appelé. Une vie missionnarie” (Chi mi ha chiamato. Una vita missionaria). Pubblichiamo un estratto del prefazio di questo libro, firmato dal padre Stefano Camerlengo, superiore Generale dei Missionari della Consolata, che fa una lettura del significato della missione nella vita di un missionario.

La missione lascia un segno nella vita

Molte volte mi sono domandato come la mia esperienza missionaria abbia influito sul mio modo di percepire gli altri, sul mio rapporto con il mondo delle cose, sulla mia relazione con Dio. Detto in altro modo: quali percorsi mi hanno condotto a essere quello che sono? In quale modo i contatti con gente di diversa cultura e sensibilità mi hanno cambiato? In che modo la vita in comune con confratelli, segnati da esperienze positive ma anche tragiche, mi ha cambiato? Come situazioni dense e difficili hanno affinato la mia sensibilità missionaria?

Nel racconto che fa padre Clovis della sua vita e missione ho trovato risposte interessante a queste domande. Leggendo il suo racconto conosciamo la missione non come qualcosa di perfetto e stupendamente unico, ma come un camminare passo dopo passo con l’umiltà di quello che siamo, la voglia di non mollare, il desiderio di andare avanti.

Raccontare la missione non è allora solo riportare fatti e problematiche missionarie e non si tratta nemmeno di esporre "criteri missionari" che forse solleticano la mente ma non il cuore. Raccontare la missione è soprattutto "ricordare" gli eventi fondanti che hanno segnato la vita, nel senso più ampio del termine e nei quali ci siamo sentiti accarezzati dalla mano invisibile di Dio. Lo ricorda anche il Papa Francesco quando dice che solo grazie all'incontro con l'amore di Dio siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall'autoreferenzialità; solo quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi, giungiamo ad essere pienamente umani oltre che disposti ad annunciare l'amore che ridona valore alla nostra stessa vita. (cf EG 8)

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Il padre Clovis in una foto recente, con un carissimo amico dei  Missionari della Consolata: Jacques Pelletier

Dimensioni fondamentali del nostro vivere missionario

Nel libro di padre Clovis mi sembra si possano identificare tre tipi di eventi che sono quasi paradigmatici e diventano insegnamento perché esprimono le costanti, gli atteggiamenti e le dimensioni fondamentali del nostro vivere la missione.

1. La narrazione dei dettagli della sua vocazione e del suo impegno missionario: i posti dove ha vissuto, le persone con cui ha condiviso. Nel suo suo racconto si mettono in evidenza azioni che, per quanto apparentemente insignificanti, innescano trasformazioni e mettono in movimento persone che, a loro volta, diventano strumenti di cambio. Le situazioni e le persone che si intrecciano con la missione di tutti i giorni, e la fanno crescere nella dimensione dell’annuncio, descrivono perfettamente la missione che non ci appartiene mai pienamente perché è di Dio.

2. La narrazione delle sconfitte, gli sbagli, le difficoltà. Questa è pure missione! Questa è la difficile strada della vita, e lui la presenta così com’è senza camuffare o barare! Ecco allora un richiamo a ritornare all’essenziale, a “Colui che ci ha chiamati". Anche la tragedia, le sconfitte, la perdita, l’annullamento delle nostre certezze mondane diventano appello alla conversione, si trasformano in eventi fondanti che ci riportano alle radici della nostra identità e missione.

3. La narrazione delle tensioni, dei cambi, dei problemi, dei conflitti. Anche tutto questo fa parte della missione, del camminare lento e quotidiano alla ricerca del meglio che sta sempre più avanti.

Il conflitto non si dissimula; tanto meno vi si rimane prigionieri gettando sugli altri le proprie “confusioni e insoddisfazioni”; semplicemente si accetta, si risolve, ci trasforma. Va affrontato nell’orizzonte della propria identità carismatica e missionaria e a partire dal criterio dell’accettazione dell'altro. Così le occasioni di conflitto sono trasformate in potenzialità a vantaggio della missione. 

Il libro di padre Clovis chiede a tutti noi, nessuno escluso, di far fruttare questo talento: fare della comunicazione, del racconto, uno strumento per costruire ponti, per condividere la bellezza dell'essere fratelli in un tempo segnato da contrasti e divisioni. I primi destinatari di un messaggio così impegnativo siamo noi, Missionari della Consolata come lui.

* p. Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata.

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Clovis bambino e la sorella Rita nella terra di famiglia a Maria, suo paese natale.

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